Economista prodiano sostiene tesi tremontiane sul colbertismo

Michele Arnese

C'è un economista ed ex manager pubblico che non si scandalizza, né si scompone, osservando la progressiva evoluzione della politica economica italiana verso forme di colbertismo tenue. La decisione del governo di affidare al Tesoro la possibilità di entrare nel capitale di aziende ritenute strategiche, come Parmalat, attraverso società controllate come la Cdp (Cassa depositi e prestiti), se suscita perplessità e contrarietà negli economisti di scuola liberista non stupisce un economista industriale come Gian Maria Gros-Pietro, direttore del dipartimento di Scienze economiche dell'Università confindustriale Luiss e in passato nei board di Eni, Atlantia e Fiat, oltre che liquidatore delle attività dell'Iri.

    C'è un economista ed ex manager pubblico che non si scandalizza, né si scompone, osservando la progressiva evoluzione della politica economica italiana verso forme di colbertismo tenue. La decisione del governo di affidare al Tesoro la possibilità di entrare nel capitale di aziende ritenute strategiche, come Parmalat, attraverso società controllate come la Cdp (Cassa depositi e prestiti), se suscita perplessità e contrarietà negli economisti di scuola liberista non stupisce un economista industriale come Gian Maria Gros-Pietro, direttore del dipartimento di Scienze economiche dell'Università confindustriale Luiss e in passato nei board di Eni, Atlantia e Fiat, oltre che liquidatore delle attività dell'Iri: “Sbaglia chi intravvede nella scelta di Giulio Tremonti un ritorno all'Iri. I periodi e le modalità sono del tutto diversi – dice Gros-Pietro in una conversazione con il Foglio – L'Iri ha vissuto due grandi stagioni. La prima, quella della sua costituzione nel '33, ha evitato all'Italia il disastro, ossia il fallimento delle imprese e quindi l'insolvenza delle banche. La seconda stagione, quella del Dopoguerra, ha visto l'Iri protagonista del piano siderurgico, della realizzazione della rete autostradale e di una rete telefonica a elevato livello tecnologico. L'Iri così ha consentito all'Italia e alle imprese di affrontare la grande espansione post bellica del commercio creando soggetti industriali di sistema”.

    Ma se ora il quadro è del tutto diverso, perché ricorrere a interventi stile Iri per contrastare mire ritenute troppo arrembanti dei francesi? “Infatti l'Italia deve affrontare adesso una crisi e una globalizzazione montante in una posizione industriale di inferiorità. Per questo l'intervento dello stato ha un senso”. Gros-Pietro non nega che ci siano rischi per una rincorsa protezionistica da parte dei governi, eppure partendo dal presupposto che “il mercato non è sempre efficiente”, dice che “in una situazione in cui gli attori dei mercati sono pochi e grandi ci si allontana dalla teoria dei mercati efficienti e si deve prendere atto che la concorrenza si fa tra pochi grandi gruppi, i soli che possono investire risorse ingenti per innovazioni e sviluppo”. Ma con l'espansione dello stato non si rischia di aggravare le condizioni di finanza pubblica? Gros-Pietro, membro del comitato della rivista del Mulino “l'Industria”, e presidente del comitato scientifico di Nomisma, ribalta il ragionamento: “Le esperienze di Stati Uniti, Grecia e Irlanda dimostrano che sono state le istituzioni finanziarie private a far crescere i debiti pubblici”.

    Un professore prodiano che sostiene tesi tremontiane, direbbe qualche osservatore: “Ho stima di Prodi e una consonanza di idee in campo scientifico. Come economista industriale e d'impresa non ho dogmi, per questo dico che c'è una logica nella decisione del governo”. Detto questo, Gros-Pietro ritiene che sarebbe opportuno che il Tesoro indicasse i settori ritenuti strategici da proteggere: “In caso contrario si rischia un eccesso di discrezionalità che va evitato”. Così com'è perplesso sul ruolo pervasivo di banche private in operazioni di sistema come quella che si sta delineando per Parmalat: “Sarebbe preferibile, per ragioni patrimoniali, che fossero soggetti pubblici come la Cdp a intervenire”. Ma il pericolo maggiore da sventare è un altro: “Fino a quando le aziende strategiche sono guidate da manager veri sarà perseguito l'obiettivo di creare valore. Ma se nelle stesse imprese ci saranno manager di nomina prettamente politica l'obiettivo non sarà più la creazione di valore ma ci saranno fini politici e magari meramente occupazionali. Proprio il fenomeno che caratterizzò il periodo ignominioso dell'Iri”.