Calcio allo straniero

Beppe Di Corrado

Il primo padrone straniero del pallone italiano è stato un uomo senza volto. Nessuno si ricorda la faccia di Stephen Julius. Nessuno forse l'ha mai visto. Arrivò da Londra in Veneto nel 1997 e con i soldi della sua finanziaria Enic comprò il Vicenza. Senza maglioncini arancioni, senza saluti in broccolino, senza sogni da alimentare. Non era lo zio d'America e neanche zio Paperone. Pensava che l'Italia fosse un affare migliore della sua Inghilterra. Sbagliava. Sei anni dopo era già archiviato.

    Il primo padrone straniero del pallone italiano è stato un uomo senza volto. Nessuno si ricorda la faccia di Stephen Julius. Nessuno forse l'ha mai visto. Arrivò da Londra in Veneto nel 1997 e con i soldi della sua finanziaria Enic comprò il Vicenza. Senza maglioncini arancioni, senza saluti in broccolino, senza sogni da alimentare. Non era lo zio d'America e neanche zio Paperone. Pensava che l'Italia fosse un affare migliore della sua Inghilterra. Sbagliava. Sei anni dopo era già archiviato: cinque milioni di debiti per l'ex Lanerossi, l'anonimato della serie B, lo stadio sempre uguale, con il palo della tribuna che impalla la telecamera ogni volta che qualcuno attacca da destra verso sinistra. Quel Vicenza di fine anni Novanta era la squadra che aveva vinto la coppa Italia partendo quasi dal nulla ed era arrivata in semifinale di coppa delle Coppe. Julius ci vide il business e la comprò. Ironie del pallone, perché all'epoca l'Inghilterra pareva depressa e sconfortante, il posto peggiore per infilare i propri quattrini nel pallone. Quel signore inglese scappò verso una provincia ricca e potenzialmente vincente, per poi trovare il suo paese colonizzato da potenti businessmen stranieri: perché il resto del mondo ha comprato il pallone inglese. Arabi, americani della East Coast, americani della West Coast, egiziani, russi e orientali hanno preso pezzo per pezzo il football degli inventori per trasformarlo nel condominio sportivo più glocal che ci sia: squadre autoctone, tradizioni apparentemente immutate e però proprietà straniere.

    DiBenedetto e la Roma sono la speranza degli ultimi. Perché sembriamo tutti Paperini noi italiani. Dai: possiamo pure provare a fare quelli nazionalisti. Diciamo con orgoglio che qui gli stranieri non sono mai arrivati perché c'è sempre stato un italiano che li ha fregati, battuti, anticipati. Possiamo dirlo sapendo di prenderci in giro. Perché la verità è che il pallone italiano non è Bulgari, non è Parmalat, non è Edison. Non siamo stati interessanti. Persino il Malaga adesso ha un padrone straniero, un signore che vuole far grande una delle squadre più mediocri del campionato spagnolo. Lì un emiro arabo ha fiutato un'aria positiva della città, la propensione a essere un posto in cui la risposta della gente diventa il traino per l'investimento: si vendono magliette, si costruiscono stadi, si macinano milioni. Noi non ci riusciamo. Non siamo capaci di attrarre un solo imprenditore straniero: sono arrivati i soldi libici alla Juventus, ma parliamo del 7,5 per cento. Ci siamo fatti colpire da storie che non reggevano e che non sarebbero state in piedi neanche come favole a buon mercato. Abbiamo visto passare personaggi improbabili, facce da B movie, protagonisti di un allenatore nel pallone immaginario. Mister DiBenedetto forse può cancellare anni di bufale, di mediatori cialtroni e di acquirenti improbabili, di interviste paradossali, di accordi già fatti e poi sistematicamente saltati. Forse, perché prima Roma vuol vedere le carte, le firme, le foto e tutto il resto.

    La commedia dell'assurdo pallonaro l'ha già vista, invece. Tutti quelli che si sono avvicinati o che sono stati avvicinati finora hanno lasciato scie di ridicola goffaggine o di rabbia latente. Il finanziere americano di origini ungheresi George Soros è stato accostato un paio di volte alla Roma. Avrebbe fatto dei sondaggi, avrebbe mostrato interesse. Quanto non s'è mai capito fino in fondo. Perché in queste vicende fantasia e realtà si confondono parecchio. C'è il modello di riferimento inglese, così si scrivono anche cose non vere, ma verosimili. Basta un dettaglio, basta un frammento di realtà. Fino a quando qualcuno non alza il telefono e non chiede: ma gli americani sono interessati al nostro pallone? Chi l'ha fatto qualche anno fa ha intercettato la voce di Mark Abbott, presidente della Major League Soccer, il campionato professionistico americano: “Soros prende la Roma? Da noi se ne è parlato molto poco. Vedo più la possibilità di un investitore americano, magari legato al finanziamento per la costruzione di stadi che un vero compratore. La Premier League? Da noi la conoscono tutti e sanno che è uno spettacolo”. Tre anni sono tanti. Forse sono abbastanza per trovare qualcuno che davvero si compri un pezzo di nostro calcio. Non sono però abbastanza dimenticare facce e storie che hanno accompagnato le voci, le suggestioni, gli intrighi del football italiano da vendere all'estero. Come quella di Joe Tacopina: era la primavera del 2008. Uscirono voci, indiscrezioni, chiacchiere trasformate in accordi già siglati. Roma impazzita per aver trovato il suo nuovo Alberto Sordi, l'italo-americano che torna nella patria del padre per investire i suoi dollari. Non s'è mai capito se fosse lui l'acquirente o il mediatore. Era comunque la faccia sulle pagine dei giornali e nei servizi dei tg, o la voce sulle modulazioni di frequenza delle radio. Tacopina il penalista da 750 dollari l'ora che s'era messo in testa di far diventare americana la Roma. C'è fame di soldi e c'è fame di storie nuove. Tacopina era perfetto: “Lui sta alla professione di avvocato come Donald Trump sta a quella dell'immobiliarista”, ha scritto una volta il New York Times. Il curriculum è ricco di cause legali da vetrina mediatica. I giornali italiani hanno scavato ovunque e poi hanno riportato tutto quello che hanno trovato nei giorni delle trattative più o meno immaginarie per la Roma. Massimo Gaggi sul Corriere della Sera ha raccontato molto: “Quando Tacopina abbia cominciato ad occuparsi di calcio, quando sia stato fulminato dalla passione per la Roma, non è ben chiaro. Così come assai poco chiare sono le ‘maniglie' finanziarie che sosterrebbero il suo progetto di acquistare la società capitolina. Col gruppo Soros che si è tirato indietro in modo che appare ormai definitivo, hanno cominciato a circolare ipotesi improbabili o inquietanti. La più insistente conduce al clan di Michael Jackson. La tentazione è quella di liquidare tutta la storia come il tentativo di un personaggio folcloristico di tenere in piedi la trattativa anche quando l'interesse dell'unico vero acquirente potenziale è venuto meno. Roba da imbroglioni o perditempo. Ma Joe non ha fama di imbroglione – è stato un pm della Corte distrettuale di Brooklyn prima di abbracciare, con notevole successo, la professione di avvocato penale – né è un perditempo. (…) Giorni fa Joe si è presentato a sorpresa a una cena di romanisti che stanno cercando di mettere in piedi un Roma Club a New York. E' sembrato a tutti piuttosto spaesato, uno a digiuno delle nozioni di base del calcio. Fin qui l'Italia di Tacopina sembrava fermarsi a Milano: nella città lombarda ha aperto, con altri avvocati, uno studio legale ed è proprietario del ristorante Il Chiostro. Certo, Joe ha anche radici romane: il padre, Cosimo, che adesso ha 91 anni, è nato e cresciuto nella zona di Monte Mario, ed è emigrato negli Usa negli anni 30 del secolo scorso”. Come e per conto di chi lavorasse Tacopina è rimasto sempre un mistero, il che però non ha di certo infangato il nome dell'avvocato visto che anche pochi mesi fa la città si è nuovamente eccitata quando ha visto le sue foto all'Olimpico durante una partita della Roma. Eppure il nome dell'avvocato di Brooklyn è stato accostato anche al Bologna, altra società che in questi anni ha subito ondate di personaggi bizzarri spacciati sempre per investitori pronti a comprarsela e che invece poi si sono rivelati tutti a caccia di visibilità. Uno è stato Rezart Taçi: ex cameriere alla pizzeria Cavour di Novi Ligure negli anni 90, oggi uno degli uomini più ricchi d'Albania, alla guida di un gruppo petrolifero da 7 miliardi di euro. Si presentò con frasi così: “Nel Bologna investirò 60 milioni, non mi piace perdere. Vorrei riuscire ad aprire distributori di benzina anche da voi. Un imprenditore albanese ben radicato sarebbe l'orgoglio del mio paese, non una rivincita, perché io non sono un invasore, ma un vero amico dell'Italia”. A leggere i giornali del 2009 aveva già in mano il club, poi quello che l'ha preso davvero è stato l'albergatore sardo Sergio Porcedda che non ha neanche pagato tutto quello che doveva e ha rischiato di far fallire club e squadra. Taçi è scomparso, nonostante sembrasse all'epoca il salvatore della patria e di tutto il calcio italiano. D'altronde era stato così anche per Omar Ahmed Masoud, il petroliere saudita che avrebbe dovuto comprare la Sampdoria prima che l'acquistasse Riccardo Garrone.

    L'Italia ha visto e raccontato le loro storie
    , così come quelle dello sceicco di Abu Dhabi proprietario del Manchester City che per più di una volta è stato accostato al Milan. Siamo diventati smaniosi, vogliamo a tutti i costi uno straniero che ci compri. Il contrario la politica vuole che accada col resto dell'economia e della finanza, il calcio lo vuole per sé. Non s'è capito se è l'esigenza di bilancio oppure la voglia di non essere i brutti anatroccoli del pallone europeo. Perché in Inghilterra fanno sul serio sia gli americani, sia gli arabi, sia i russi. Qui li cerchiamo, ma finora abbiamo avuto copie sbiadite. Come quella del Bari di un anno e mezzo fa. Lo striscione diceva: “Io passo a Tim”. C'erano 2 mila persone all'aeroporto Karol Wojtyla di Bari, c'erano le bandiere, le sciarpe, i cellulari, le digitali. Fotografavano il futuro, cioè l'arrivo dell'ultimo zio Sam, dell'americano che promette di comprare la squadra di calcio e portarla chissà dove. Bari, provincia del Texas. Lui uscì dall'auto scura, i capelli rossi, i Ray-Ban scuri, la pelle bianca, il sorriso imbarazzato. Le prime parole: “I love you”. Poi una sciarpa biancorossa in mano: qualcosa per dire “sono vostro”. Un coro, due cori, tre cori. La stessa scena di sabato 29 agosto, allo stadio San Nicola. Altra bandiera, altri cori, un altro striscione: “Dear Tim, we have a dream”. Timothy Barton è rimasto sempre accanto a Vincenzo Matarrese, cioè il domani e l'oggi del calcio barese e forse italiano. Perché i Matarrese per oltre trent'anni hanno vissuto fra pallone e potere e adesso sembravano pronti a vendere a questo signore che dovrebbe realizzare i sogni scritti in bianco-rosso sulle tribune. Lui che non faticava a confessare che di calcio non capisce niente. Però di affari sì. Diceva lui, dicevano gli altri, diceva soprattutto Alessio Mora, il mediatore piemontese che aveva proposto a Barton di entrare nel mondo dello sport italiano e per farlo l'aveva portato in Puglia.
    Venticinque milioni di euro, ecco quanto avrebbe dovuto spendere per diventare l'unico straniero a possedere finalmente un club di calcio italiano. Venticinque milioni entro il 31 ottobre 2009, data prevista per la conclusione dell'affare, per pensare di essere un piccolo Malcolm Glazer, l'americano che s'è comprato il Manchester United. Oppure per sperare di sentirsi quantomeno come Randy Lerner che, più modestamente, s'è accontentato dell'Aston Villa. Barton scese a sud, prendendo una neopromossa in serie A e promettendo di lanciarla verso l'Europa: “Lo trasformeremo in un club di successo a livello nazionale e non solo”. Un impegno verbale, una firma su un preliminare. Zero soldi, però. Non spese un centesimo, ma tranquillizzò tutti. Solo questione di tempo e di tempi. C'era il calendario delle rate, l'importo di ciascuna e le garanzie che la coprivano. Sorrideva Tim, sorrideva e parlava impacciato fra un incontro e l'altro, tra una giacchetta tirata e l'altra: a Bari si faceva a gara per dire di essere suoi amici. Arrivò anche il sindaco Michele Emiliano: ha ospitato l'americano appena sbarcato la prima volta in città. Poi imprenditori, affaristi, mediatori, altri politici. Tutti in fila, prima all'Hotel Palace, dove ha alloggiato nel primo soggiorno barese, poi al Melograno, il resort di Monopoli dove Barton alloggiava. Con lui c'era un gruppo di altri imprenditori stranieri, come alcuni manager della Hyundai. “Non sono soci”, diceva il tycoon texano.
    Il Bari sarebbe stato tutto suo. Lui sarebbe stato il presidente e Mora l'amministratore delegato. Perché Tim era un tipo da impegnarsi sempre in prima persona. Come in Texas, dove è il fondatore, padrone e capo assoluto della Jmj Holdings, la sua creatura, società specializzata nella costruzione e gestione di grandi strutture alberghiere. Immobiliarista o palazzinaro, a seconda delle declinazioni e delle punzecchiature. Perché a un certo punto quando l'affare Bari sembrava diventare una barzelletta cominciarono a uscire i punti interrogativi: quali sono stati i suoi investimenti? Quali i suoi giri? Si parlava del business del fotovoltaico che per la Puglia era ed è ancora un affare vero. In tutte quelle domande Barton è sparito. Volatilizzato. Il primo straniero del pallone italiano non c'era già più prima di versare un solo euro.

    Fregati di nuovo. Il sogno della nuova Inghilterra colonizzata dagli stranieri nel calcio rimandato. Adesso c'è, invece. Perché lontano da tutto e da tutti, prima di DiBenedetto e della Roma, qualcuno i soldi li ha investiti. E' Yury Korablin che è sbarcato in Veneto con l'amico Aleks Samokhin. Già fatto. Pochi riflettori, poche chiacchiere, poco tutto. Mosca ha comprato il Venezia. Hanno comprato una squadra di serie D. Dilettanti. Una squadra fallita, una squadra che non costa niente e può dare molto. Perché il business è Venezia, non il calcio.