In Mediobanca stat virtus
“L'anziana gioventù” abita in Piazzetta Cuccia e dintorni. Ha vinto lei, dice Cesare Geronzi nella telefonata con Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Alberto Nagel, l'amministratore delegato che ha consegnato l'amara pillola al presidente di Generali, ha 47 anni. Renato Pagliaro, presidente della banca d'affari, è di poco più anziano (54 anni). Entrambi milanesi, bocconiani, entrati subito dopo la laurea in via Filodrammatici, sotto le ali protettrici di Vincenzo Maranghi, il fido maestro sostituto di Enrico Cuccia.
“L'anziana gioventù” abita in Piazzetta Cuccia e dintorni. Ha vinto lei, dice Cesare Geronzi nella telefonata con Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera. Alberto Nagel, l'amministratore delegato che ha consegnato l'amara pillola al presidente di Generali, ha 47 anni. Renato Pagliaro, presidente della banca d'affari, è di poco più anziano (54 anni). Entrambi milanesi, bocconiani, entrati subito dopo la laurea in via Filodrammatici, sotto le ali protettrici di Vincenzo Maranghi, il fido maestro sostituto di Enrico Cuccia (definizione che sarebbe piaciuta al vecchio banchiere amante della buona musica e della letteratura tedesca). Non si sono fatti prendere dall'ansia da prestazione e hanno atteso. Anzi, l'uscita delle due stelle più splendenti, Gerardo Braggiotti e Matteo Arpe, ha favorito la placida ascesa di Nagel e Pagliaro.
Così da trovarsi al posto giusto nel momento giusto, cioè quando nella drammatica primavera 2003, Cesare Geronzi e Alessandro Profumo, usando le due banche azioniste, Capitalia e Unicredit, hanno inferto la spallata decisiva. In quel momento i francesi, sotto la guida di Vincent Bolloré, sono stati usati come spauracchio da Maranghi, ma poi hanno voltato gabbana. La finanza è fatta così, è il suo lato romanzesco che la rende affascinante. Se no, sarebbe una faccenda da contabili.
A volte ritornano, e quei personaggi li ritroviamo in posizioni diverse. Nagel (e Pagliaro dietro di lui) hanno defenestrato il defenestratore, rendendo giustizia al loro mentore (così hanno scritto in molti). Ma siamo solo al primo atto di una pièce il cui copione è ancora tutto da scrivere. Tra i “giovani anziani” ce ne sono altri. Alcuni hanno un ruolo ben chiaro come il guastatore Diego Della Valle o Lorenzo Pellicioli (De Agostini) azionista iperattivo di Generali. Altri verranno fuori in seguito. C'è Francesco Gaetano Caltagirone che parla poco e compra molto (ha continuato ad arrotondare il suo pacchetto nei giorni scorsi). E c'è ancora Bolloré: ha salvato il posto di vicepresidente e ripassa la parte per il secondo tempo, quello che si svolgerà dentro Mediobanca della quale è azionista in proprio e capofila della cordata francese. Insomma, la trama è complessa e per lo più ancora oscura.
Nagel è stato abile e determinato nel costruire la rivincita su Geronzi, ora bisogna vedere come si comporterà con il successore. Gabriele Galateri di Genola sembra tagliato apposta per quel ruolo: già presidente di Mediobanca, ha dovuto far posto al banchiere romano. Arrivato in Fiat chiamato da Cesare Romiti, al fianco di Umberto Agnelli costruisce, attraverso l'Ifil, un gruppo finanziario con i fiocchi. Poi nel 2002 viene collocato al vertice Fiat dalle banche creditrici e sei mesi dopo disarcionato, mentre si consuma l'agonia di Gianni Agnelli. Galateri ha l'aplomb giusto e certamente non sarebbe una figura ingombrante né decisionista, come ha dimostrato nei quattro anni in Mediobanca. Così, Generali sarebbe ancora “eterodiretta”, accusa Geronzi.
Invece Alessandro Profumo, che piace a Della Valle, ed è stimato anche da Nagel, agirebbe da presidente forte con tendenza anche lui a diventare operativo. Mentre Domenico Siniscalco fa pensare immediatamente a Giulio Tremonti. L'economista, ex ministro del Tesoro nel 2005, oggi a Morgan Stanley, ha già perso una chance di trasformarsi in banchiere quando è stata bocciata la sua candidatura come presidente del consiglio di gestione in Intesa Sanpaolo.
Ha accettato la carica in Assogestioni (che associa i fondi di investimento) e molti hanno scritto che sta solo scaldando i motori. E' uomo di mondo, ma non di Mediobanca. Una soluzione istituzionale e pacificatrice sarebbe Mario Monti. Consentirebbe di sanare le ferite interne e verificare l'operato del management sul quale non sono state fugate tutte le ombre: senza più alibi, Giovanni Perissinotto dovrà risvegliare il Leone di Trieste. S'è parlato anche di Ronald Berger, noto consulente industriale tedesco che siede in consiglio Fiat, una scelta pilatesca.
In molti hanno sottovalutato a lungo l'abilità manovriera e la determinazione di Nagel. Figura schiva, fisicamente ascetica, sposato con due figli, poco si conosce della sua vita privata della quale nessuno rigorosamente parla. Ma poco si sa anche delle sue inclinazioni politiche o delle opinioni squisitamente professionali. Ha stupito un po' lo scorso ottobre, durante l'assemblea, quando, rispondendo a un angosciato azionista, si è lasciato scappare che “la crisi è tutt'altro che superata”, e non solo in Italia. Gli affari languono, i grandi gruppi che chiedono l'assistenza della banca sono ancora in letargo. E così resteranno per un po'. E' il momento giusto per riorganizzare le fila e ripensare la strategia di medio periodo in tempi di stagnazione e di incertezza. Giochi di potere a parte, dunque, i prossimi mesi saranno decisivi per ridisegnare la mappa.
L'assetto interno di Mediobanca è quanto mai complesso, tanto da rasentare la paralisi con un patto di sindacato tricefalo che controlla il 44,27 per cento del capitale. La prima testa di questo Cerbero (gruppo A) ha in cima Unicredit con l'8,66, seguita da Mediolanum con oltre il sette per cento. Poi Commerzbank e Deutsche bank attraverso Sal Oppenheim. Insieme, arrivano al 15,44 per cento. Il gruppo B è composto da una galassia di privati, alcuni dei quali hanno percentuali irrisorie, che arrivano al 18,9. Spiccano soci storici come i Pesenti, Ligresti con Fondiaria, le stesse Generali delle quali Mediobanca è la principale azionista, Benetton, Pirelli, Fininvest, Ferrero, Della Valle (0,48 per cento), e numerosi altri. Infine gli stranieri (gruppo C) con il dieci per cento: Bolloré, Groupama e Banco Santander. Ad essi si aggiunge un 1,93 per cento di Groupama fuori dal sindacato. Il patto scade a novembre e bisogna dare la disdetta entro settembre. Tutti gli occhi sono puntati su questo terzo blocco, partendo dal presupposto che la cordata transalpina si ritiri dopo l'uscita prima di Bernheim e poi di Geronzi da Generali. Ma è proprio così?
Circola l'idea di un nuovo patto, più snello, che raccolga solo il 30 per cento, con i francesi fuori. “Io non vendo ed il rinnovo è fuori discussione”, ha dichiarato Bolloré, respingendo il perfido invito di Della Valle il quale si è detto pronto a comprare. Che i francesi siano in ritirata, è tutto da dimostrare. Groupama è stata stoppata dalla Consob nella sua scalata a Fondiaria (dovrebbe lanciare una doppia offerta pubblica di acquisto), ma non sembra intenzionata a gettare la spugna. Proprio l'altro ieri, Jean Azema il capo azienda (e consigliere di Mediobanca), ha detto che loro sono ancora interessati, nonostante l'arrivo di Unicredit come cavaliere bianco. Anzi, potrebbero entrare direttamente in FonSai (oggi sono nella holding Premafin). Il salvataggio del gruppo, d'altra parte, si presenta costoso e complicato, con il vecchio Salvatore Ligresti che non ammaina bandiera nemmeno in Mediobanca: “Noi non usciamo, manco per niente, non esiste”, ha dichiarato.
Guardare il consiglio di amministrazione della banca d'affari è come far capolino nel circolo degli scacchi. A parte i quattro top managers (Pagliaro, Nagel, Francesco Saverio Vinci e Maurizio Cereda) troviamo Marco Tronchetti Provera come vicepresidente insieme a Dieter Rampl, presidente di Unicredit, banca rappresentata anche da Fabrizio Palenzona per conto della fondazione Caritorino. Il plotone francese vede Bolloré, Azema, Tarak Ben Ammar e Antoine Bernheim. Amareggiato con il figlioccio, l'ex presidente di Generali pregusta la propria rivincita dopo appena un anno. Al momento decisivo farà blocco con i suoi connazionali dei quali gestisce gli interessi. Carlo Pesenti rappresenta la continuità cucciana. Gilberto Benetton non lavora certo per scossoni incontrollati. Tanto meno Jonella Ligresti. Ci sono poi Marina Berlusconi e Ennio Doris. Non hanno stappato champagne per la caduta di Geronzi e non saranno loro a dare il calcio d'inizio della nuova partita.
L'ago della bilancia potrebbe diventare Palenzona. Che sia la sua aspirazione lo ha detto chiaro e tondo al Corriere della Sera in una intervista nella quale ha delineato anche un ideale schema per l'arrocco: Unicredit fa da “presidio” in Mediobanca la quale a sua volta stabilizza Generali insieme a Caltagirone e Crt (la Cassa di risparmio torinese che lui stesso rappresenta). Non sembra esattamente una soluzione mercatista, ma, nonostante le liriche e nobili parole di Luigi Zingales ieri sul Sole 24 Ore, l'uscita di Geronzi cambia protagonista, non lo scenario di un capitalismo eternamente sotto protezione. Il punto debole di Palenzona è che nemmeno lui possiede quote delle istituzioni che rappresenta. Politico di formazione (sinistra Dc piemontese, tendenza Carlo Donat Cattin), trasportatore di professione, banchiere per scelta e power broker per passione, vuole occupare quello spazio di pivot del sistema lasciato vuoto da Geronzi. E non è certo l'unico a nutrire questa ambizione. Nell'intervista rilasciata a Massimo Mucchetti ha difeso il ruolo dei libici nel capitale Unicredit e non si sente imbarazzato di avere come socio Gheddafi, anzi, precisa “la banca centrale e il fondo sovrano”. Quanto alle fondazioni, contro il cui ruolo predominante si era levato Geronzi, “sono una risorsa non un problema”. Anch'esse debbono entrare a pieno titolo, dunque, in questa operazione neo-stabilizzatrice. Come sostiene ora anche Giulio Tremonti.
Proprio ieri è stato modificato lo statuto della Cassa depositi e prestiti (della quale le fondazioni di origine bancaria sono azioniste insieme al Tesoro) per trasformarla pienamente in strumento operativo ad ampio raggio. Una scuola di pensiero vuole che la Cdp possa entrare anche in Mediobanca o in Generali, nel momento in cui si creasse un vuoto, per raddrizzare un equilibrio sfavorevole o come cavaliere bianco se a qualcuno venisse in mente di lanciarsi in una scalata vera e propria. Scenari da fanta-finanza? Forse, ma cosa c'è di più fantasioso della finanza stessa, che ci offre continui colpi di scena, mutamenti rapidi di quinte, botole, trabocchetti come nel più spettacolare teatro barocco. L'ultima rappresentazione vede una Francia, irritata per le barriere neoprotezioniste imposte da questi italiani solitamente molli, pronta a far partire una sorta di offensiva strategica. E l'attacco più efficace è sempre là dove più debole e scoperto è il fianco.
Ma perché questa strana coppia Mediobanca-Generali interessa tanto? E' vero che essa custodisce la chiave per Telecom, Pirelli, Benetton, Rcs, Italcementi, dunque può scardinare equilibri economici importanti. Ma ciò vuol dire che esiste un progetto strategico transalpino per conquistare il sancta sanctorum del capitalismo italiano? O siamo in piena nevrosi gallica? La risposta l'avremo nei prossimi mesi. Per isteria o preveggenza, il sistema tende di nuovo a difendersi e a chiudersi.
Generali non ha un patto di sindacato, ma a questo scopo c'è Mediobanca con i suoi soci forti. Tra i quali, non bisogna dimenticarlo, Berlusconi, o più esattamente Fininvest e Mediolanum che siederanno al tavolo del grande gioco destinato a coinvolgere anche altre società della galassia compresa Rcs. Il patto è stato rinnovato fino al 2014. Al posto di Geronzi dovrebbe entrare in consiglio un indipendente. Ma Della Valle ha già chiesto che Generali venda il suo tre per cento. Mentre Palenzona vorrebbe che anche Mediobanca uscisse dal Corriere della Sera. Dunque, le carte sono sul tavolo, almeno quelle scoperte. Le altre stanno ancora nelle maniche dei giocatori.
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