Le conseguenze della bruttezza nella “Vita accanto” di un'esordiente
La cosa peggiore che una bambina piccola possa dire a una compagna di giochi è: brutta. E' l'offesa che più di ogni altra provoca, nell'infanzia ma forse per sempre, una lunga catena di sventure: occhi che si riempiono di lacrime, urla, corsa immediata dalla mamma per riferire l'onta subita: mi ha detto brutta, genitore offeso e livido, ma non autorizzato (specie in un parco o in altro luogo in cui la densità di genitori sia superiore a due) a sgridare una figlia non sua, genitore della piccola spudorata costernato e obbligato a fare la solita ramanzina.
La cosa peggiore che una bambina piccola possa dire a una compagna di giochi è: brutta. E' l'offesa che più di ogni altra provoca, nell'infanzia ma forse per sempre, una lunga catena di sventure: occhi che si riempiono di lacrime, urla, corsa immediata dalla mamma per riferire l'onta subita: mi ha detto brutta, genitore offeso e livido, ma non autorizzato (specie in un parco o in altro luogo in cui la densità di genitori sia superiore a due) a sgridare una figlia non sua, genitore della piccola spudorata costernato e obbligato a fare la solita ramanzina: non si dice brutta, non esistono i bambini brutti, i bambini sono tutti belli, quindi dovere sociale di fare la pace, sorrisetti di convenienza fra i genitori dell'oltraggiata e quelli della profanatrice di equilibri collettivi, e da quel momento in poi: odio puro. Perché la bruttezza non esiste, non è concepibile e quindi innominabile, brutta è la parola da cancellare, brutta non si deve nemmeno pensare. Invece la protagonista di “La vita accanto”, primo romanzo di Mariapia Veladiano (Einaudi Stile Libero), nasce brutta, ma di una bruttezza assoluta, ripetuta a ogni riga. La prima pagina di questo libro è quindi già un sussulto: “Io sono brutta. Proprio brutta. Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà”. Una neonata brutta, una bambina brutta, una donna brutta (non succede come nelle favole che il sortilegio svanisce e lei diventa bellissima, ma durante la lettura cresce l'attesa di un rimedio, perché la bruttezza non è sopportabile nemmeno come invenzione letteraria).
Non c'è, nel libro, una descrizione del tutto appagante di tanta sconvolgente bruttezza, ma la bidella della scuola si faceva il segno della croce quando vedeva passare Rebecca, che scopre di chiamarsi così solo il primo giorno di scuola, perché a casa nessuno aveva il coraggio di pronunciarne il nome. La madre, bellissima, ha smesso di parlare quando lei è nata, e Rebecca ha imparato a guardarla di nascosto, solo quando è sicura di non essere vista. Troppo brutta per essere presa in braccio (almeno dalla mamma), troppo brutta per suonare il pianoforte sul palco. “Una bambina brutta vive con prudenza, cercando comportamenti che non aggiungano disturbo a quello che già viene dal proprio aspetto. Una bambina brutta non fa i capricci, non chiede, impara presto a mangiare senza fare briciole di pane, gioca in silenzio spostando solo il necessario, mette in ordine la propria stanza prima che le venga chiesto, (…) è grata a tutti per il bene che le vogliono nonostante la delusione per la sua nascita, sta al suo posto, ringrazia per i regali che sono proprio quelli giusti per lei”. Rebecca cammina e entra a scuola contratta nello sforzo di rimpicciolire, assottigliare, scomparire, spera che nessuno la veda, nessuno la guardi, nessuno la chiami: “Putrido strutto peloso”. Il racconto di questa condanna è potente, dettagliato, lascia addosso il senso della vita dentro un guscio, a sperare nelle luci che si spengono. L'attesa della ribellione alla bruttezza e alle sue conseguenze resta delusa. Manca la restituzione della cattiveria ricevuta, manca un regolamento di conti. Ci si aspetta che tutta quella vita compressa a un certo punto esploda in qualcosa di luminoso, o di terribile, lo si desidera. “Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio”. Rebecca, e anche il suo romanzo, sono sovrastati da questa bruttezza.
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