Au revoir les enfants
Reportage da Ventimiglia, dove i tunisini scappano in Francia
Amano l'Italia, ma vogliono andare in Francia. E molti ci stanno riuscendo. Alla faccia dell'accordo bilaterale di Chambery firmato da Prodi nel 1997 che stabilisce frontiere-barriere all'interno dell'area Schengen per l'immigrazione irregolare. E alla faccia anche del derby Italia-Francia che il ministro dell'Interno Roberto Maroni vorrebbe vincere, per ora invano, con l'uso di un permesso di soggiorno temporaneo che la Francia teme più della peste, perché non vuole farsi carico dei 25 mila tunisini arrivati finora in Italia.
Ventimiglia. Amano l'Italia, ma vogliono andare in Francia. E molti ci stanno riuscendo. Alla faccia dell'accordo bilaterale di Chambery firmato da Prodi nel 1997 che stabilisce frontiere-barriere all'interno dell'area Schengen per l'immigrazione irregolare. E alla faccia anche del derby Italia-Francia che il ministro dell'Interno Roberto Maroni vorrebbe vincere, per ora invano, con l'uso di un permesso di soggiorno temporaneo che la Francia teme più della peste, perché non vuole farsi carico dei 25 mila tunisini arrivati finora in Italia. E il cui primo tempo, il bilaterale di ieri in prefettura a Milano con il ministro dell'Interno francese Claude Guéant, si è chiuso con un pareggio carico di tensione.
Ma questo accade ai piani alti. Ai piani bassi, qui alla stazione dei treni di Ventimiglia, le cose funzionano un po' diversamente. Qui ci sono fissi circa 150 tunisini, ma ogni giorno hanno un volto e un nome diverso. Dicono di essere cresciuti guardando le televisioni europee, ma considerano “Monsieur le président” Sarkozy “troppo ebreo”. Dei francesi, che i primi giorni li hanno rispediti indietro a Ventimiglia – dopo cinque giorni di viaggio dalla tendopoli di Manduria, su e giù dai treni per paura di essere arrestati, e dopo sei chilometri a piedi, in gruppo o accompagnati da qualche passeur improvvisato, per superare il confine a Mentone – dicono che sono “razzisti”. Si chiamano, o dicono di chiamarsi, Iberrahim, Mohammed, Sofienne – i nomi non sono importanti perché sono sempre falsi – e rappresentano un'intera generazione che vuole lasciarsi alle spalle il proprio paese. Hanno dai 17 ai 23 anni, raramente di più. “Un flusso migratorio politico”, li ha definiti il titolare del Viminale, per far capire che siamo di fronte a un esodo particolare, che non può essere considerato un semplice movimento di clandestini. Tutti maschi, privi sul volto di quei segni profondi che fanno riconoscere chi ha già alle spalle un'esistenza da clandestino, ai bordi della società italiana. Tutti, o quasi, arrivati in Italia per la prima volta, scappati dopo una rivoluzione che non considerano tale. Neanche quelli che vengono da Tunisi e dicono di averla fatta, quella rivolta, ma che per loro non è cambiato nulla. “Io a casa tornerò solo fra 15 anni”, dice Iberrahim, seduto davanti alla stazione, fra i suoi compagni rispediti indietro dalla polizia di frontiera francese una settimana fa, e che ora aspettano di riprovarci. Volto emaciato, sguardo Consolato, è laureato in matematica e dichiara in modo perentorio: “Per avere un nuovo ceto politico in Tunisia, ci vorranno almeno dieci anni. E io prima di allora a casa non torno. Cosa ce ne facciamo della libertà se non abbiamo il pane, il lavoro?”.
Mohammed racconta che su un treno preso a Roma una ragazza si è prestata a una finzione per aiutarlo. Lo ha abbracciato come se fosse stata la sua “fiancée”, per nascondergli il volto ed evitare che venisse individuato durante un controllo. Sofienne, 17 anni, racconta che quando sono arrivati a Lampedusa tutti quelli che erano sul barcone, e che a casa guardavano le nostre televisioni, alla vista della costa italiana, hanno urlato “Italia 1!”, come se la loro traversata fosse stata uno sketch, un reality e non una sfida al destino a rischio della vita. Sul cellulare Sofienne non ha foto della famiglia, della sua casa a Gerba, ma solo del suo alloggio nella tendopoli di Bari: posto ingrato per gli italiani, rifugio degno per lui, che veniva dal mare, da una famiglia povera che si è privata dell'unico figlio maschio per mandarlo in Francia. “O alla peggio in Italia, perché vorrei studiare”.
A Ventimiglia la storia che si presenta ai nostri occhi è più o meno questa. Ogni mattina in stazione arrivano a gruppetti, per raccogliere notizie su come o dove si può andare in Francia (molti passano per la frontiera alta, su per Ponte San Ludovico, altri provano a scollinare attraverso il Colle di Tenda). Agli italiani chiedono sigarette, indicazioni stradali, cartine geografiche dei confini, magari un passaggio fino a Mentone. In mezzo a loro si mescolano i clandestini, quelli arrivati anni fa, che cercano anche loro una via verso la Francia.
E nonostante le dichiarazioni ufficiali, ce la fanno. E poi mandano sms a chi è rimasto qui, da Nizza. Ce lo dicono anche poliziotti e le forze dell'ordine, off the records ovviamente, che vigilano davanti alla stazione, ma hanno ricevuto l'ordine informale di lasciarli in pace. Non fermano nessuno, non chiedono documenti, non controllano i fogli di via e i decreti di espulsione firmati dal prefetto di Imperia. Pattugliano la stazione solo per una sorta di peacekeeping: evitare che scoppino disordini, dovuti alla tensione, alla stanchezza di tutti, ai continui arrivi (si calcola che a Ventimiglia siano transitati in due settimane almeno 1.200 tunisini, ma tutti assicurano che sono molti di più). Un'emergenza frammentata che, vista da Ventimiglia, non ha un grande impatto visivo, perché per vederli tutti assieme, i tunisini che vogliono andare in Francia, bisogna aspettare la sera, quando “i ragazzi”, qui li chiamano tutti così, vanno a dormire nel centro di accoglienza aperto per loro, un'ex caserma di vigili del fuoco, allestito dentro la stretta Val Roya, a Bevere, una frazione di Ventimiglia che guarda verso la Francia. Dove alcuni chef, volontari della Croce Rossa, si danno da fare per offrire loro ottimo cibo, e i medici curano le piaghe sotto i piedi di chi ha camminato tanto fra una frontiera e l'altra. “Sono come fantasmi”, dicono i volontari della Croce Rossa, che li accolgono. Ma ormai lo sanno tutti, non è un mistero per chi li segue da vicino ogni giorno, che i “ragazzi” in Francia ci vanno. E per ora ci restano, pare: perché ogni sera al centro di accoglienza arrivano volti nuovi. Ed ecco perché il ministro dell'Interno francese, Claude Guéant, ha posto regole severissime per accogliere chi arriva dall'Italia.
“Ha chiamato!”, urla Mohammed, eccitatissimo. Come tutti chissà perché ha le Nike ai piedi e un cappellino con su scritto Italia. “Ce l'ha fatta, è a Nizza”. “Si entra, si entra”, comincia il tam tam fra gli immigrati, che ora chiedono se valga la pena di aspettare il permesso temporaneo del governo italiano. Di un paese, il nostro, che considerano solo un bus-navetta che li porterà in Francia. Con la compiacenza degli italiani, divisi fra la voglia di aiutarli e il desiderio di non averli fra i piedi. Come dice un maresciallo qui alla stazione, con un commento volgare che spiega bene la tensione di questa sfida dei tunisini alla Francia. “Non possiamo tenerli qui, e se li rispediscono ancora indietro per noi sarà un problema. Chi dice che dobbiamo fermarli fa solo il frocio col culo degli altri”.
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