L'uomo che fu il vero Sarkozy
A Parigi ormai è chiaro. Il centrodestra potrebbe fare a meno di Sarkozy, ma Sarkozy non potrebbe fare a meno di Henri Guaino, lo scriba che nel 2007 gli aveva fornito parole e musica per conquistare l'Eliseo. Le cose vanno di male in peggio. Il presidente è oggetto di una campagna di rigetto, dove l'odio si combina all'insofferenza, tanto che lo stesso Guaino, consigliere speciale con rango di plenipotenziario, denuncia il “clima di intolleranza sovrana” e si domanda se non sia il segno di “un generale impazzimento”.
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A Parigi ormai è chiaro. Il centrodestra potrebbe fare a meno di Sarkozy, ma Sarkozy non potrebbe fare a meno di Henri Guaino, lo scriba che nel 2007 gli aveva fornito parole e musica per conquistare l'Eliseo. Le cose vanno di male in peggio. Il presidente è oggetto di una campagna di rigetto, dove l'odio si combina all'insofferenza, tanto che lo stesso Guaino, consigliere speciale con rango di plenipotenziario, denuncia il “clima di intolleranza sovrana” e si domanda se non sia il segno di “un generale impazzimento”. Il capo dello stato, nonostante gli sforzi, nonostante l'agitazione per risolvere la crisi libica con una guerra area in nome dell'Onu, è in caduta libera. L'ultimo sondaggio Ifop-Paris Match lo dà al 30 per cento nel gradimento dei francesi, ben 23 punti in meno rispetto al beneamato premier François Fillon. Il fatto è che dopo la sconfitta alle Cantonali, e visto l'incerto evolvere della guerra contro Gheddafi, neanche la presidenza di turno del G8 e del G20 sembra riuscire a fargli risalire la china.
Inoltre, ai primi di maggio, quarto anniversario della sua vittoria, uscirà “La Conquête”, il film scritto da Hervé Rotman, prodotto dalla Gaumont e interpretato da Denis Podalydès, che in presa diretta e col ritmo di un thriller un po' mafioso riproduce tutti i topos della campagna del 2007, in chiave però abrasiva. Così i francesi rivedranno il film di ciò che hanno vissuto: Sarkozy-Podalydès arringare da una pedana gli operai in fabbrica: “Saluto la Francia che si alza presto la mattina e non chiede aiuti di stato”; brutalizzare i suoi collaboratori: “Sono una Ferrari, quando alzate la capote dovete usare i guanti bianchi”. Vedranno l'ormai ex moglie Cécilia che gli intima di “ringardiser” (imburinire, ndr) gli avversari, e il presidente in carica Jacques Chirac che mima da una finestra dell'Eliseo di imbracciare una carabina per fare fuori la “gazza ladra”.
Vedere questo film sarà anche un modo per liberarsi dai sensi di colpa, dicono molti, ma intanto cresce l'inquietudine e il dubbio si fa strada. La destra può fare a meno di candidare Nicolas Sarkozy nel 2012? Se lo domanda il Monde, passato ormai all'opposizione da quando s'è insediato il Bnp, cioè il nuovo trio proprietario composto dal finanziere socialista Pierre Bergé, dal vicepresidente della banca Lazar, Matthieu Pigasse e dal miliardario cane sciolto Xavier Niel, già inventore del Minitel. La risposta del giornale parigino è un cauto “Sì però”. E' vero infatti che il rigetto per Sarkozy è costante, e le aspettative del 2007 sono rimaste in larga misura lettera morta, come nota anche il Wall Street Journal, quando non smentite dalla congiuntura; è vero che puntare sull'elettorato dell'estrema destra, secondo la strategia dell'Eliseo, ha portato a un aumento dei voti per il Fronte nazionale di Marine Le Pen, che ha preso il 15 per cento alle Cantonali, mentre l'Ump era inchiodata al 17. E' vero pure che la personalità dell'iperpresidente Sarkozy, iperattivo, iperagitato, ultradeterminato, ma in balia di un'arroganza incontrollabile e a volte anche inutilmente feroce, preoccupa ogni giorno di più.
Perciò adesso il dubbio sulla sua candidatura plana anche sul partito, anche se i potenziali sostituti si guardano bene dal fare passi falsi. Evocare una candidatura alternativa al presidente in carica è un tabù che nessuno osa violare: non il premier Fillon, che pure è una risorsa per il 53 per cento dei francesi; non il segretario dell'Ump, Jean-François Copé, diviso dal premier sul piano politico, ma accomunato a lui nell'acquattamento. E non osa infrangerlo nemmeno Alain Juppé, l'ex delfino di Chirac allontanato dal governo per motivi giudiziari e ripescato da Sarkozy come ministro degli Esteri. Juppé l'anno scorso, dopo la batosta delle regionali aveva fatto capire che in caso di necessità sarebbe stato pronto a immolarsi, ma ora tace. E tace il radicale ex ministro dell'Ecologia, Jean-Louis Borloo, con la sua tricologia da etilista. Era in predicato per subentrare a Matignon da primo ministro, e forse cova il sogno di federare il centro contro Sarkozy, ma non lo dice. Per questo sembra impossibile rinunciare a Sarkozy candidato del centrodestra. Anche se molti hanno capito che il dubbio c'è e dilaga, se gli stessi deputati dell'Ump si sentono in dovere di ripetere ogni cinque minuti che l'unico candidato possibile è il presidente, perché è l'unico che potrà vincere nel 2012.
Così, per capire cosa succederà, bisogna fare un passo indietro al 2007. Quando Sarkozy, dopo una campagna sensazionale, stravinse l'Eliseo col 53 per cento. Per lunghi mesi, fece sognare i francesi, e non solo loro. Li portò dalla sua parte, immaginando scenari grandiosi, recitando narrazioni fantastiche. Lui, che era stato il ministro delle Finanze e dell'Interno di Chirac, si accreditò come l'uomo della rottura, promettendo riforme in tutti i campi, dalla scuola alle tasse, dall'università all'agricoltura, dall'energia all'Europa. Il nuovo apostolo della libertà d'impresa dichiarava guerra al malthusianesimo socialista, con un attacco frontale alle 35 ore e contro l'illusione pansindacale di lavorare tutti facendo lavorare tutti un po' meno, come se la produttività fosse irrilevante. Aveva lanciato un nuovo slogan, “lavorare di più per guadagnare di più”, finì per imporsi come l'alternativa all'immobilismo chiracchiano, perfetto antagonista del presidente uscente. Giovane, aggressivo, atlantico, filoamericano, voleva riscattare la Francia dall'isolamento in cui Chirac e Villepin l'avevano gettata ai tempi della guerra in Iraq. Voleva cancellare il no all'Europa del referendum del 2005, rilanciare l'unità politica, disegnare nuove istituzioni più efficaci, come il presidente eletto a suffragio universale, prospettando programmi comuni, dall'energia, alla stabilità monetaria, dal libero mercato al Mediterraneo.
I francesi ne furono sedotti. E questo giornale ne analizzò l'entusiasmo, puntando con largo anticipo sul successo del candidato della “rupture”, mentre la grande stampa si lasciava irretire dal sorriso della Gioconda socialista, Ségolène Royal. Sarkozy stravinse come non succedeva dai tempi di De Gaulle. Da allora, certo, molte cose sono cambiate. Il presidente francese ha sposato una cantante rauca, che pizzica la chitarra e porta scarpe senza tacco. Ha cambiato gusti, passando dall'Equipe (foglio specializzato sulle corse dei cavalli) alla “Certosa di Parma” (romanzo di Stendhal), dal rock di Johnny Holliday ai concerti per violino di Saint-Saëns; ha dirozzato le sue frequentazioni, rinunciando ai vecchi amici attori Jean Reno e Christian Clavier per i guru snob di sinistra, amici della moglie, come Bernard-Henri Lévy. Ma non è stato all'altezza delle promesse di candidato. La riforma del mercato del lavoro non è servita a rilanciare la crescita; quella fiscale si è rivelata un premio ai più ricchi, senza generare quel punto in più di pil che doveva cambiare il volto della società francese. La riforma della scuola è stato un mezzo flop, mentre doveva rigenerare le coscienze, liberarle dall'eredità del Sessantotto. Quella dell'università s'è rivelata poco incisiva per le molte resistenze corporative.
Quanto all'Europa, il Trattato di Lisbone non pare sembra aver risolto nemmeno lontanamente gli ostacoli che Sarkozy intendeva rimuovere, mentre l'Unione per il Mediterraneo è collassata subito per il no della Germania e l'insofferenza della Turchia, poco disposta a perdere il rango di aspirante stato membro della Ue per quello di primattore sulle rive del Mare nostro.
Certo, nel mezzo c'è stata la crisi finanziaria che ha travolto la “rupture”, imponendo di recuperare il fino ad allora vituperato modello francese, causa della sclerosi nazionale. E infatti sull'onda della crisi, il peso dell'intervento dello stato è assai cresciuto. E se la crisi ha esaltato le doti tattiche di Sarkozy, abituato a dare il meglio di sé nei momenti drammatici, non è bastata per consolidarne il prestigio geostrategico, come dimostra ora l'affanno diplomatico coi cinesi e militare sul fronte libico. Così, la parabola di Sarkozy è l'ultima conferma dello iato che separa la conquista del potere dal suo effettivo esercizio. Anzi di quest'antico principio machiavelliano Sarkozy fornisce una versione esasperata e postmoderna, illustrando come conservare il potere tanto più sia difficile quanto più facile è stato conquistarlo.
Bisogna allora dire la verità: che Nicolas Sarkozy, di questa conquista del potere supremo, è stato solo un comprimario. La regia vera fu tutta di Henri Guaino, l'autore delle idee e dei discorsi che fecero vibrare il cuore della nazione incantandola col sogno quasi ipnotico di una rigenerazione collettiva. E adesso che Sarkozy deve fare i conti con la disillusione, nessuno sa se riuscirà di nuovo ad attingere al logoteta Guaino, che fu premiato dopo la vittoria del 2007 con una considerazione senza pari e assai simbolica, al punto da ottenere all'Eliseo la grande stanza d'angolo, già studio di Giscard d'Estaing, attigua a quelle del presidente e del segretario generale.
Ma chi è in realtà questo Henri Guaino, di cui, quand'anche il centrodestra rinunciasse a Sarkozy, Sarkozy non saprebbe farne a meno? E' un caso letterario, prima che politico. Anzi, un romanzo a parte. Lo è innanzitutto sul piano psicologico: carattere umbratile, torvo e rancoroso, con un altissimo senso di sé (convalidato da statura imponente), vive nel risentimento costante. E un romanzo a sé lo è soprattutto sul piano biografico, genere d'appendice. Figlio senza padre di una ragazza di Arles di origine operaia e che per vivere faceva la donna delle pulizie, Guaino è cresciuto con la fissa del riscatto sociale, da conquistarsi attraverso la meritocrazia della scuola pubblica libera, gratuita e obbligatoria. A 18 anni, lascia la natia Provenza per salire a Parigi come un eroe di Balzac. Si laurea in Storia alla Sorbona, poi prende a frequentare i corsi di “Sciences po” nella rue Saint Guillaume, cenacolo delle élite tradizionali della République. E' pronto per entrare all'Ena – l'Ecole nationale d'administration fondata dai rivoluzionari giacobini per creare un'aristocrazia dell'eguaglianza che sostituisse quella del sangue – ma per ben tre volte non supera il concorso di ammissione. Bocciato, l'umiliazione è cocente. Dirotta allora su un master in politica Economica a Paris IX e inizia a lavorare al Crédit Lyonnais. E' questa la radice esistenziale di uno dei cavalli di battaglia della candidatura sarkozista 2007: la polemica contro i tecnocrati di stato cresciuti nel serraglio non è solo effetto della parabola scolastica del futuro presidente (allievo mediocre e svogliato di una scuola privata, approdato alla professione di avvocato dopo una banale laurea in Legge), ma frutto del curriculum di Guaino.
Bocciatura a parte, il futuro consigliere speciale resta malgrado tutto un culo di pietra. Invece di scoraggiarsi, si mette a dare corsi all'Ecole normale supérieure de Saint Cloud e ottiene una consulenza al ministero delle Finanze. Siamo negli anni Ottanta. Guaino ha il pallino della politica e una passione per lo stato, che per ogni repubblicano francese è il primo e indispensabile strumento di azione politica. In più Guaino è un gollista sociale. Quando Chirac si candida alle presidenziali del 1988 contro Mitterrand, lui che s'è fatto notare per il verbo sciolto e la cultura sicura, viene incaricato di riscriverne le interviste. Mitterrand vince le elezioni, Chirac le perde, ma Guaino fa carriera. Tiene corsi alla rue Saint Guillaume, colleziona incarichi vari e consulenze, rafforza il sodalizio con Philippe Séguin, altro gollista sociale, e come lui figlio del Mediterraneo d'indole malinconica e bulimica, sovranista e poco propensa al compromesso. I due insieme fanno campagna contro la ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992. Tre anni dopo il ministro dell'Interno, e cioè il corso Charles Pasqua, anche lui sovranista e gollista sociale, nomina Guaino “Commissaire général au plan”, funzione istituita da De Gaulle con compiti di programmazione economica.
Sono gli anni della svolta. Grazie al suo incarico, Guaino diventa l'ispiratore della “fracture sociale”, il mantra con cui Chirac vincerà finalmente le presidenziali del 1995. La formula in realtà è del filosofo Marcel Gauchet, ma Guaino la riadatta alle esigenze della lotta politica. E tuttavia non basta a consolidarne il potere. In un empito elettoralista, Chirac scioglie il Parlamento per nuove elezioni. Sogna una maggioranza più omogenea, che lo emancipi dalla tutela dei liberali dell'Udr, traditori, e invece va incontro alla sconfitta. E' il trauma del 1997, che segna la vittoria parlamentare di Lionel Jospin, e la nuova coabitazione a parti rovesciate (premier socialista, presidente di centrodestra). Guaino, provocatoriamente si proclama “l'archéo-gaulliste ringard” (un archeogollista fuori moda), ma perde il Commissariato alla pianificazione. I socialisti non gli perdonano un rapporto in cui ha scritto che sette milioni di francesi hanno difficoltà di lavoro.
Caduto in disgrazia, viene recuperato da Pasqua che gli affida il programma di sviluppo degli Hauts-de-Seine, il più ricco dipartimento dell'Île de France, feudo dell'ex ministro. Guaino è un tecnico, storico, economista, lettore vorace, ma non resiste all'agone politico. Alle amministrative del 2001 scende in campo con una sua lista per il V arrondissement di Parigi. Contro Jacques Tiberi, però, raccoglie solo il 10 per cento. La seconda chance sarà l'ex sindaco di Neuilly-sur-Seine a offrirgliela, alias Sarkozy, ministro bulimico e iperattivo e astro nascente del fronte anti chiracchiano.
Guaino, che ha nelle vene il sangue caldo del Mediterraneo e la rivolta di uno che viene dai gradini sociali bassi, è anche un tipo umbratile, ma sa il fatto suo. Così un bel giorno prende Sarkozy a brutto muso per fargli capire che col suo passato di balladuriano traditore non riuscirà mai a conquistare il consenso dei francesi. Portavoce del governo nel 1995, in effetti, Sarkozy aveva sostenuto il premier liberale Edouard Balladur, che aveva deciso di candidare all'Eliseo contro il segretario dell'Rpr Jacques Chirac. Mal gliene incolse. Chirac vinse e si vendicò dei traditori facendo terra bruciata. “Sei liberale, filoamericano, comunitarista. I francesi non ti voteranno mai”, dirà Guaino a Sarkozy che bramava di prenderne il posto. Privo di tatto, incapace di salamelecchi e buone maniere, proprio per questi suoi modi riesce subito a fare breccia nel cuore di un campione dell'impulsività come Sarkozy.
Arruolato su due piedi come speechwriter, sarà dunque Guaino, il professore di Storia, il provinciale respinto dai mandarini della rue Saint Guillaume, l'escluso dai gran vizir che dettano legge nel serraglio dell'Ena, a fornire a Sarkozy la strumentazione per superare l'handicap d'origine, per aggirare la diffidenza del partito, che nella corsa per l'Eliseo propende a sostenere il bellâtre Dominique de Villepin, l'ex ministro degli Esteri creatura di Chirac. “Villepin rappresenta la Francia, Sarko tutt'al più i francesi”, diceva la vox populi. Ma Guaino compie il miracolo. La prima metamorfosi di Sarkozy è opera sua.
Lettore onnivoro di Chateaubriand e di Paul Valéry, cultore estremo di Jules Michelet e Victor Hugo, conoscitore non banale della letteratura romantica e della storia patria che ne fa un interprete dell'anima profonda del paese, sarà Guaino, tampinando giorno e notte il candidato in pectore, a inventare la maieutica sarkozista in vista del discorso di investitura: “Dimmi cosa senti, cosa sogni, cosa ti commuove, e ti scriverò quello che devi dire”. Sarà lui a trovare il timbro e il tono, il ritmo e le figure dei grandi discorsi della campagna 2007, ora cedendo, come quando Sarko preferì dirsi un “français au sang mêlé” piuttosto che “enfant d'immigré”, come suggeriva lui. Ora, insistendo, come quando bisognava battere il tasto del Sessantotto e dei suoi frutti perversi, marchio di fabbrica dello stesso Guaino. Anticonformista e politicamente scorretto, l'ex commissario alla pianificazione, infatti in vari pamphlet, come l'“Etrange Renoncement”, per esempio, aveva demolito il “pensiero unico”, vale a dire il monopolio del liberismo sfrenato, del “ciascuno per sé”, del culto del danaro. Sull'onda dell'entusiasmo per il mercato unico, aveva stigmatizzato l'illusione di rinunciare del tutto alle funzioni regaliane dello Stato. In un altro saggio del 2002, “La Sottise des modernes”, aveva preso a bersaglio il giovanilismo imperante, con la dialettica che cedeva al sofisma, e gli argomenti razionali alla propaganda. “A furia di confondere la modernità con la moda, i nostri moderni girano a vuoto, ma sono arcaici”, dichiarava l'intrattabile Guaino. “La loro modernità è una mistificazione che rende incomprensibile la crisi della cultura e della politica”.
Forte di questa sua indomita vena, Guaino ha servito da paroliere per la battaglia di Sarkozy: è lui che ha composto i discorsi del candidato della rupture, da quello d'investitura a quello sulla scuola col sogno degli alunni che s'alzano in piedi quando entra in classe il professore, dalla liquidazione del Sessantotto, per la sua mistificazione egalitaria, alla civiltà dell'amore. E' Guaino che ha spiazzato l'elettorato, recuperando a destra i vecchi miti della sinistra operaia e socialista come Léon Blum, Jean Jaurès, o come il martire della Resistenza Guy Môquet di cui sognava di far leggere l'ultima lettera testamento, scritta in limine mortis, per celebrare l'inizio dell'anno scolastico. E' stato lui a concepire la politica mediterranea, poi abortita, e a pretendere che in tema di immigrazione si parlasse pure di identità nazionale.
Vinte le presidenziali del 2007, Sarkozy lo premiò dandogli lo stesso ruolo che Mitterrand aveva riservato a Jacques Attali. Da lì, con tutti i crismi di un plenipotenziario, ha continuato a sfornare discorsi, metafore, polemiche a uso del boss. Nel discorso di Dakar, per esempio, ha ripreso l'idea post colonialista di “repentance”, discussa da Pascal Bruckner, per fare i conti senza ipocrisia col colonialismo e i suoi benefici. “Le drame de l'Afrique, c'est que l'homme africain n'est pas assez entré dans l'Histoire”, scrisse Guaino osando l'indicibile. E Sarkozy ripetè tutto parola per parola: “Jamais il ne s'élance vers l'avenir… Dans cet imaginaire où tout recommence toujours, il n'y a de place ni pour l'aventure humaine, i pour l'idée de progrés”. Era il 26 luglio 2007. I custodi del politicamente corretto si indignarono. L'apostolo dell'ingerenza umanitaria, Bernard-Henri Lévy, accusò Guaino di razzismo. “Ce petit con prétentieux ne m'interesse pas”, replicò Guaino, pregando i giornalisti di trascrivere il suo giudizio su quel “signor nessuno, con la bava alla bocca che odiava la Francia”. Ora che BHL ha un suo canale diretto e ha convinto Sarko a sostenere la rivolta anti Gheddafi, la battaglia rischia di farsi rude. All'Eliseo c'era già Patrick Buisson, un consigliere nazionalista, tendenza Charles Maurras, arruolato per fare concorrenza al Fronte nazionale. Guaino incarna l'ala repubblicana, e tra i due la tensione era già palpabile. Adesso ci si mette pure il vecchio nouveau philosophe col debole per le camicie da Aramis. I temi della campagna 2012 sono già in cantiere: lavorare meglio, l'identità francese, radici e eredità. Ma le sfere di influenza dei consiglieri del presidente restano un tabù di cui nessuno osa discutere.
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