Il diavolo ai Parioli

Stefano Di Michele

Il diavolo, probabilmente. Ci sarà di certo il satanico zampetto, nella truffa pariolina che ha portato lo sterco dello stesso a mischiarsi persino con vigili coscienze democratiche – come una qualsiasi miserabilità berlusconiana, la speranza d'ingigantire il già sostanzioso “cucuzzaro”. Poi, certo, s'invoca il candore pinocchiesco, piuttosto che la svaccata cupidigia di certi personaggi vanziniani – ma la merda satanica lascia odore e lascia tracce.

    Il diavolo, probabilmente. Ci sarà di certo il satanico zampetto, nella truffa pariolina che ha portato lo sterco dello stesso a mischiarsi persino con vigili coscienze democratiche – come una qualsiasi miserabilità berlusconiana, la speranza d'ingigantire il già sostanzioso “cucuzzaro”. Poi, certo, s'invoca il candore pinocchiesco, piuttosto che la svaccata cupidigia di certi personaggi vanziniani (ché persino i Vanzina, di orride esistenze specchiati narratori, nel fango del reale hanno rischiato il guadagno dovuto al fango felicemente immaginario) – ma la merda satanica lascia odore e lascia tracce.

    Anche se ai Parioli – questa è storia pariolina per eccellenza: dall'ignavia degli “Indifferenti” moraviani alla scarsa furbizia degli investitori odierni – appaiono, a leggere le cronache locali, molto preoccupati per la cacca dei cani che fa saltellare da marciapiede a marciapiede, piuttosto che dallo sterco infernale. E mica solo la pupù, persino la pipì delle simpatiche bestiole genera apprensione, così che i muri dei palazzi che corrono lungo viale Parioli (la Wall Street de' noantri, inabissata da Gordon Gekko a Giampy, e Giampy è appellativo che in uno slargo dei Parioli si situa a perfezione) appaiono tappezzati di cartelli dove si chiede “ai padroni di non consentire ai cani di fare la pipì a ridosso dei muri del palazzo” – dovessero corrodersi le fondamenta? Il diavolo, essendo un pragmatico, non è mai troppo lontano dai soldi: aggirandosi da quelle parti trova spesso pure l'anima – e le strade di questo bel quartiere di borghesi danarosi, magari scaltri, mica troppo furbi, hanno a ornamento, ben più di quelle a presidio dalla minzione canina, una foresta di targhe dove si annunciano studi di notai (ma quanti notai ci stanno, ai Parioli?), di avvocati, di dottori commercialisti, di società di garanzia fidi, di broker di assicurazioni: e soldi, dunque, e money, e sordi – alla romana, e come dicevano i più poveri e i meno fregnoni, mejo assai di tanti analisti finanziari, “li sordi che ariveno co' er trallarallà se ne rivanno cor lallerallero” – che passano di mano, di erede in erede, che vanno verso investimenti, che tornano (nel caso specifico no, ma in genere tornano) ingrassati come certe sedicenni col jeans a vita bassa.

    Ed è dunque tutto un appellarsi, di targa in targa, di ottone in ottone, di cabala in cabala, quasi con linguaggio iniziatico, “consulting” o “advanced project” o “consulting & engineering” o “top management” o “finance & securities” o “advertising” – e l'asilo nido, sarà il parapiglia linguistico locale, sarà la triste condizione nazionale, finisce identificato come “baby parking” – che ti si genera dentro una sorta d'inquietudine, tra il deposito del pupo e la sistemazione di quel cazzo di orrendo Suv che occupa tutto il marciapiede. Così che, quando ti trovi davanti il profilo nitido, quasi paesano, della chiesa di San Roberto Bellarmino (pur un tipo di razza inquisitoria, da cui stare possibilmente alla larga), la grande scritta sulla facciata: “Deo Optimo Maximo In Honorem S. Roberti Bellarmino Eccl. Doct. Dicatum”, appare quasi fraterna e rassicurante.

    “Bonsai, oh, tu, lo vuoi un bonsai?”. La vecchia signora si tira dietro una specie di carretto con dentro alcune piccole piantine. Le annaffia a una fontanella. Ma le comprano? “Come no… Ci fanno i regali…”. Sono diventati più sparagnini, ultimamente, da queste parti, se si presentano a cena con un bonsai accattato strada facendo. Anche se, certo, i Parioli son sempre i Parioli, “aho, da 'ndo cazzo te credi de venì, da li Parioli?”, e persino il filmico marchese del Grillo vantava tenute da queste parti – e come i Madoff da doppio a tennis di oggi, pure l'amministratore suo faceva la cresta, ma il marchese del Grillo, e meglio ancora il suo sosia Gasperino il carbonaro (il proletariato è vigile, seppur sbronzo; il nobile c'ha l'abbiocco, seppur sobrio), era più furbo di quelli ora allocati nella sua ex tenuta, “perciò sei ladro: sei ladro tu, tu padre e tu nonno e io ve licenzio a tutti e tre!” – e i soldi ci sono, sicuro come il lussureggiare di targhe notarili e avvocatizie lungo questo vialone oggi della Stangatona. Ma adesso stanno più al riparo, nonostante la giornata primaverile, così mentre il filippino porta a spasso il cagnolino – che non deve cagare sui marciapiedi, non deve pisciare sui muri, gli alberi sono tutti circondati dalle macchine: non restano che le gambe incustodite degli umani – la padrona finta bionda tratta col bengalese bancarellaro l'acquisto di sciarpe leggere che si situano, economicamente, tra uno e sei euro.

    Che poi, da queste parti, parecchi marciapiedi sono tutto un bancarellame che manco a Tor Marancia: borse a dieci euro, maglioni di cachemire a quindici, scarpe lo stesso a dieci. E non che qui la griffe conti poco, essendo la discrezione, tra le qualità dell'essere pariolino, non la più spiccata – e la meglio stampa e i più avvertiti blog registrano le feroci indignazioni dei locali, “luridi e penosi mercatini per le fashion street del quartiere”, a dettagliare meglio “bancarelle da fiera sfigata di paese”, nientemeno. Ché di suo il pariolino mostra, fa vedere, va a farsi vedere. Come ha mirabilmente sintetizzato sul Riformista Francesco Persili, “un côté che vorrebbe essere high society ma è generone romano, un filo pataccaro e perennemente abbronzato. Tende i muscoli e stira le rughe, vorrebbe avere il sole in tasca ma per ora si fa tre lampade a settimana. Tutto, anche l'aperitivo, diventa un rito di misurazione dell'ego, una gincana tra ‘cool, chic, upper class' spruzzati dall'happy hour pieno di bollicine e carte che strisciano”.

    Senza generalizzare, è ovvio: qui abitava il serissimo principe Antonio De Curtis, di caratura bizantina, oltre che di estro napoletano, e dunque pure Focas Flavio Angelo Ducas Comneno, quando metteva a mangiare in cucina il suo doppio Totò, lontano dalle telecamere; qui si consuma il tramonto fisico ed esistenziale del prof. comunista Ludovico Bruschi interpretato da Marcello Mastroianni in “Verso sera”. Ma nei ristoranti che fanno ala lungo la strada – e immobili sembrano nei decenni – la rucola e la bresaola c'erano già quando ancora erano ignote ai mercati rionali. E qui si fece gli arresti domiciliari quando fu il momento Vittorio Emanuele, quello che un niente e ce lo ritrovavamo re (così che, pur con tutta la regalità del caso, un principio di Tor Bella Monaca, satura di reclusi tra cesso e cucina, s'è intravisto).

    Hanno una loro specifica malandrinità (di fatto, a volte, e immaginaria, altre volte), i Parioli – e non a caso in “Romanzo criminale” Patrizia, la puttana amata dal Dandy, apre un bordello in un lussuoso palazzo di zona. E per tornare ad altre epoche, risale addirittura al 1959 un film, “I ragazzzi dei Parioli”, con Nino Manfredi, dove Bob e Fabrizio sono due pataccari in largo anticipo sui tempi che verranno. Di conseguenza, una diffusa – peraltro a volte ingiustificata – antipatia mediatica. Di tutta la truffa di questi giorni, da un quartiere all'altro della capitale, è solo un darsi di gomito e uno sghignazzare a malapena contenuto: “Aho, hanno solàto a quelli de li Parioli…” – vittime di cui, giornalisticamente, quasi nessuno prende le parti, e parecchi piuttosto prendono per il culo. Perché, appunto, “è gente dei Parioli”, anche se non è solo gente dei Parioli. Una volta poteva generare violenta antipatia a sinistra, il borghesissimo quartiere, per il fatto che i suoi pargoli meglio sistemati erano in buona parte a vocazione fascia; adesso, perché da un certo solidificato cotecume berlusconiano, viene a volte additato quale covo dei radical chic – figurarsi. Esistono specifici gruppi su Facebook addirittura attruppati dietro la denominazione “Odio i Parioli”, con ardimentose dichiarazioni dell'odio stesso, “i Parioli fanno schifo!! sono esseri inutili per la società. Sprecano solo soldi per le loro fissazioni”.

    E quando tre anni fa i ragazzi dell'Onda studentesca (è sempre quel genere di movimento di protesta che pare epocale e si rivela stagionale) occuparono l'Aula magna della Sapienza contro i tagli di Tremonti, il rettore Luigi Frati spiegò a Repubblica: “Sono più di sinistra io di certi pariolini che si vestono da gruppettari per venire all'università e poi girano in Smart per Roma”. Dopo che il sindaco Alemanno aveva annunciato di voler demolire i palazzoni di Tor Bella Monaca, ereticissimo paragone!, si fece sotto Vittorio Sgarbi: “Ai Parioli c'è tanta brutta edilizia, ma nessuno si sogna di chiederne la riedificazione!”. Lamentazioni si levano dal sito dell'attrice Michela Andreozzi – che è di Prati, e quelli di Prati stanno un po' in cagnesco (in ogni senso: leggete avanti) con quelli dei Parioli: “E qui veniamo al vero motivo della mia antipatia: i Parioli, luogo notoriamente ‘puzzone' della città (sempre nel senso della puzza sotto il naso), puzza effettivamente di merda, la merda che i chihuahua e tutte le altre razze di cani portati a spasso perlopiù da colf di turno lasciano per strada e che né colf né padrone si preoccupano di pulire, ho visto sandali Manolo Blahnik fare lo slalom tra stronzetti di ogni misura…” – ed è chiaro, nella contesa tra uno stronzetto di chihuahua e un sandalo di Manolo Blahnik, da che parte bisogna schierarsi…
    I Parioli, o dell'antipatia.

    Non solo si guardano male con quelli di Prati – anche se, come tra sciammia e uomo, il Dna deve per la maggior parte essere identico – ma pure con quelli dell'Olgiata, zonetta di ricchi, persino dei pariolini più ricchi, ogni tanto ci si affronta a bande schierate, botte tra pischelletti, ognuno in nome del proprio fortunato acquartieramento, una robetta feudale, “questa è casa nostra!” – così che ancora grida, il manesco olgiatino contro il coscritto pariolino: “Coglione pariolino, per te non c'è domani / stasera resta a casa che ci prudono le mani”. Il giovanotto pariolino va griffato da capo a piedi, la mutanda in vista, come er borgataro di meno floride finanze, ma su un boxer di Calvin Klein nun ce se fa parlà dietro, nemmeno vitelloni, piuttosto vitellini di robusto allattamento, niente a che vedere con quelli degli anni Settanta, fascistelli dalla mano pesante, perciò nei cortei dei gruppettari di sinistra uno slogan che partiva stupido (“Se vedi un punto nero spara a vista / o è un carabiniere o è un fascista”) evolveva verso la cretineria (“Se vedi un punto nero spara a vista / di sicuro è un pariolino fascista”).

    Ora è diverso, la macchinina scema, quella che puoi portare a sedici anni, lo sfiatamento anticipato, così che si chiamano tra di loro con irritante nome abbreviato – da Ludo(vica) a Flami(nia) a Costa(ntino) a Fede(rica) a Dani(ele), rivelò una fervida inchiesta del Corriere della Sera qualche anno fa. (“E allora? Siamo pariolini, embé?”. Pariolini: che significa? “Che siamo nati ai Parioli, viviamo ai Parioli, siamo fichi: questo basta, no?”. Fichi? “Beh, sì, abbastanza… non si vede?”). Ma la fama (mesta e triste) di “quartiere borghesone e un po' destrorso” (così il Corriere) persiste e insiste. Pure se qui abitano coppie molto impegnate come quella formata da Margaret Mazzantini e Sergio Castellitto, ha messo base Sabrina Ferilli, icona della Roma giallorossa e della sinistra, il compagno Goffredo Bettini, “quartiere sobrio ed elegante”, e persino il democratico molto democratico scrittore Corrado Augias, di misteri cristologici indagatore, e di ramazza per necessità utilizzatore: “Sono costretto a passare da solo la scopa davanti al cancello di casa, togliendo quintali di escrementi” – ma quanto cagano, 'sti cani dei Parioli, per passare dallo stronzetto che minaccia il sandalo firmato alle quintalate maleodoranti che ammorbano il quieto vivere dell'intellettuale? E pure se una volta, nel collegio dei Parioli ha vinto la diessina Giovanna Melandri, “ho distribuito, umilmente, volantini ovunque, nelle strade e dentro i negozi. Ho parlato con le signore ingioiellate e con i ragazzini che hanno le croci celtiche tatuate sull'avambraccio”, appena qualche anno fa si aprì il dibattito – che pur di aprire un dibattito, si acchiappa al volo di tutto – sulle dichiarazioni di Laura Morante, attrice di sinistra e musa di Nanni Moretti, che nel quartiere era accasata e un po' forse se ne vergognava: “Vivo ai Parioli. Ma sia io che mia figlia, se dobbiamo spiegare dove abitiamo facciamo un giro di parole: una traversa di, vicino a…”. C'è pur sempre una democratica sensibilità toponomastica di cui si deve, in certe situazione, tener conto.

    Il destino dei Parioli – che secondo alcuni deve il suo nome alle colline tufacee che lì si trovavano prima dell'urbanizzazione degli inizi del secolo scorso, e secondo altri alla parola “peraioli”, dato che c'erano floride coltivazioni di pere: quartiere borghese, a origine fruttarola, dunque – è sempre stato stretto tra la commedia vanziniana o di quel genere (a orecchio, la signora danarosa e di non eccelsa classe che entra in libreria e chiede soccorso: “Vorrei un libro per un mio amico, un tipo fine, vende intimo da donna a Vigna Clara”), la leggenda (mica solo leggenda) nera dei suoi fascistelli di buona famiglia, la letteratura che ne ha sempre fatto un posto tra il molto quieto e un poco triste. E qui il ritmo lo ha dato Alberto Moravia con “Gli indifferenti” – praticamente un romanzo che vede la luce, nel 1929, mentre anche i Parioli vedono la luce, romanzo di descrizioni d'interni che illuminano (oscurando) le vite dei protagonisti: “Sotto il lampadario a tre braccia il blocco bianco della tavola scintillava di tre minute schegge di luce, i piatti, le caraffe, i bicchieri, come appunto un blocco di marmo appena scalfito dagli scalpellini…”.

    Un segno che resterà indelebile. Così, a vent'anni dalla morte di Moravia, la Stampa titolava un ricordo del critico Massimo Raffaeli: “Ai Parioli la culla dei menefreghisti” – e quelle case, “dimore così buie e soffocanti da sembrare spazi concentrazionari. Lì prosperano i borghesi di Moravia, cioè individui reclusi nel ciclo elementare del sangue, del sesso e dei soldi”. (E poi i Parioli dimenticano, così a Moravia è stata dedicata, ha lamentato Sandro Veronesi, una stradaccia oltre il Raccordo anulare, “in una zona urbanisticamente bastarda e irrilevante”, e meglio e giusto sarebbe stato fare un'eccezione, “l'eccezione che poteva portare, almeno a Roma, mettiamo ai Parioli, a scoprire nella targa di marmo bianco l'intestazione ‘Via Alberto Moravia – già Via Piripicchio Piripicchi'”). Ha ben raccontato Carmen Llera, la vedova di Moravia, i suoi Parioli dove ha abitato, che “tutti detestano perché dicono che sia un quartiere assolutamente anonimo, banale e privo d'identità. Un quartiere residenziale… Io invece lo amo proprio per quello”. Nel borghesissimo agglomerato si muovono certi personaggi di “Con le peggiori intenzioni”, di Alessandro Piperno. E lo scrittore un giorno ha spiegato in un'intervista: “Mentre mi sforzo di inventarmi ebreo, non mi sono mai sforzato di inventarmi pariolino. Non me ne frega un cazzo”. I Parioli ci sono anche nel bel diario di Luciana Castellina – giovane borghese che si preparava a diventare sovversiva e comunista tra il '43 e il '48: “A me innanzi tutto il Pci ha evitato di restare stupida” – i Parioli, da soli, oggettivamente non bastavano.

    Di molte cose resta memoria, in queste strade – anche se ogni pensiero di molti, adesso, mentre il tacco affonda in una merdina di chihuahua, corre allo sterco del diavolo che chissà in quale antro infernale è precipitato. Una sera, tanti anni fa, capitò di vedere buoni borghesi e signore impellicciate e scagnozzi fascistelli urlare e imprecare, nel salone di un grande albergo, contro monsignor Luigi Di Liegro, il direttore della Caritas che si batteva per aprire la sua struttura per ragazzi che stavano morendo di Aids dentro la pariolina Villa Glori: “Aho, comunista! Portali a casa, i drogati! Comunista di merda pure tu!”. Il piccolo prete li fissava senza paura, però angosciato: “Ma domenica prossima, voi, come pensate di venire a messa, davanti a Cristo?”. Della bomba che la mafia fece esplodere nel cuore del quartiere, a via Fauro, mentre passava la macchina di Maurizio Costanzo. O dell'ultima feroce disputa di Pier Paolo Pasolini, appena due giorni prima di essere ammazzato, quando scrisse un articolo in polemica con Italo Calvino. C'era appena stato l'orrendo delitto del Circeo, quello di Rosaria Lopez, e la flagellazione di Donatella Colasanti, da parte di tre fascistelli assassini.

    E pariolini, va da sé. Calvino scrisse un indignato articolo contro la borghesia e i soldi, “la sicurezza di farla franca di strati sociali per cui tutto è sempre stato facile”; Pasolini rispose sfidando così il senso comune di allora, raccontò che ciò che avevano fatto i teppisti benestanti del Circeo facevano i teppisti proletari ogni sera: “L'impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie neofascisti non ha niente da invidiare all'impunità dei criminali di borgata”. Appena due sere dopo, un borgataro lo avrebbe fatto a pezzi.

    E anche – non solo dei drammi e delle cose di cui vergognarsi, per fortuna, resta memoria – il cono gelato dei “Tre Frocetti”, un mito non solo ai Parioli ma nella Roma intera, e si veniva fin qui da questi “Tre Frocetti”, che suona certo meglio dei “Tre Gay”, come oggi correttamente si direbbe. Il pudico Corriere così s'aggrovigliava, scrivendo della vita notturna pariolina: “C'era pure il conificio dal soprannome equivoco (equivoco? chiarissimo!, ndr), con tre artisti delle creme che trascurano le donne…”. Lungo viale Parioli, nelle intenzioni di inizio secolo, doveva correre una sorta di galoppatoio, giù e su e giù, dove oggi troverebbero la moschea di Paolo Portoghesi e magari qualche trans in attesa. Il galoppatoio non si fece, meno male: se già dà tanto pensiero la cacca dei cagnolini, c'è da immaginarsi una rivolta di massa per il tonnellaggio escrementizio dei bellissimi quadrupedi.