Piazza araba
Contro il Cav. i nostri giovani non ce la fanno, urge rivolgersi ai migranti
Oltre ai giovani tunisini che sbarcano a Lampedusa, rischiando la vita tanto sono vogliosi di libertà, oltre ai libici che stanno lottando con poche armi contro il dittatore Gheddafi, oltre agli etiopi che inseguono quel varco disperato che s'è aperto con la guerra in Cirenaica, non sarebbe il caso di importare qui in Italia la piazza araba? Non dovremmo per una buona volta aprire le nostre frontiere anche alla rivolta contro il tiranno, imparare la lezione degli insorti del Maghreb e fare di ogni nostro presidio democratico una piazza Tahrir mobilitata contro il despota italiano (il Cav.) che conculca le libertà dei giovani?
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Oltre ai giovani tunisini che sbarcano a Lampedusa, rischiando la vita tanto sono vogliosi di libertà, oltre ai libici che stanno lottando con poche armi contro il dittatore Gheddafi, oltre agli etiopi che inseguono quel varco disperato che s'è aperto con la guerra in Cirenaica, non sarebbe il caso di importare qui in Italia la piazza araba? Non dovremmo per una buona volta aprire le nostre frontiere anche alla rivolta contro il tiranno, imparare la lezione degli insorti del Maghreb e fare di ogni nostro presidio democratico una piazza Tahrir mobilitata contro il despota italiano (il Cav.) che conculca le libertà dei giovani? Non si tratta di un interrogativo retorico, ma dell'impianto nemmeno troppo subliminale di un'accorta costruzione mediatica che da giorni prende forma nel circo televisivo.
Esempio parlante: “L'infedele”, ovvero la versione catodica del sogno a occhi aperti di Gad Lerner, che ha i suoi trascorsi da rivoluzionario e oggi è un blasonato direttore d'orchestra tv. Ma sembra nostalgico della ribellione, sebbene sia costretto a fare i conti con la realtà: da un lato c'è la democrazia che si alimenta di consensi elettorali contendibili, dove per far sloggiare un governante sgradito serve vincere nelle urne; dall'altro lato persiste la tentazione di disegnare il governante e i suoi collaboratori come figure del dispotismo, moralmente inabili a legiferare (soprattutto in materia di giustizia). Che fare, dunque?
Lunedì scorso, contornato dal leghista Andrea Gibelli, da un militante della rivoluzione dei gelsomini, il tunisino Saddik, dalla scrittrice sarda Michela Murgia, dall'aedo dell'emigrazione Gian Antonio Stella (Corriere della Sera) e dal giuslavorista Michele Tiraboschi, Lerner ha tirato fuori un cartello dirimente: in Tunisia, i giovani che hanno meno di 29 anni sono il 52 per cento della popolazione. In Italia, sono il 29,2. Una minoranza. “Ecco perché qui non può più scoppiare la rivoluzione”, ha detto Lerner tristissimo.
“E questo – dice sempre Lerner – spiega perché i precari italiani non si rivoltano efficacemente come hanno fatto loro, i tunisini, buttando giù una dittatura” (voce tunisina in sottofondo: “Vi aiutiamo noi”). Proprio così, i giovani e i precari italiani dovrebbero andare a scuola di ribellione, se non vogliono rassegnarsi alla prospettiva di una vittoria posticipata nel tempo, quando l'ultima parola sarà affidata ai popoli demograficamente più vitali e disponibili a muoversi da sud verso nord. Dall'Africa all'Italia. Nell'attesa, secondo il lirismo degli insorti antiberlusconiani, le fresche e incendiarie rivolte maghrebine chiamano all'esercizio dell'emulazione, alla prova di forza. E' un sogno che Lerner – ma non solo lui, ci sono anche Michele Santoro e Giovanni Floris – ha magistralmente plasmato a partire da una attenta pedagogia iconografica. Da settimane, nella sua trasmissione, i volti di Mubarak, Gheddafi e Ben Ali inquadrati alle spalle degli ospiti precedono le immagini di Berlusconi, o vi si accompagnano nella medesima istantanea.
Così si imbastisce l'identificazione forzosa, cui segue la retorica della fratellanza tra i sudditi mediterranei. “Sono uguali a noi”, dice la Murgia, “vogliono le stesse cose che vogliamo noi, la fidanzata, un lavoro decente”. “Siamo come voi, ma subiamo un apparato repressivo nella nostra libertà di movimento”, dice il tunisino Saddik. Alla fine però, in questa fantasmagoria della sinistra miliardaria, la mancata rivolta dei precari si stempera nella necessità dell'industria manifatturiera di trovare artigiani, operai specializzati, tecnici per lavori che i giovani italiani non vogliono più fare, perché non schiodano da casa nemmeno di un chilometro.
E preferiscono studiare Scienze della comunicazione, Psicologia, Lettere classiche, materie bellissime che tuttavia non aiutano a entrare nel mondo della produttività. Così c'è la stagista che denuncia condizioni economiche indecenti (300 euro al mese). E c'è la precaria della scuola che ha vinto una causa contro il ministero e ha ottenuto dal giudice un risarcimento di 30 mila euro, perché aveva insegnato per più di tre anni nella stessa scuola: è la prima di un esercito di 60 mila che graveranno sulla spesa pubblica per 4-5 miliardi di euro. “Risorse sottratte agli investimenti, per rincorrere logiche clientelari”, commenta il giuslavorista. A tarda sera si capisce come sia più facile discutere di riforme che importare la piazza araba. Ma sognare costa poco.
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