Questa foto scattata il 21 marzo 2011 mostra le proteste all'esterno del tribunale a Daraa (LaPresse)

La rivolta in Siria sarà lo snodo di tutta la primavera araba

Carlo Panella

Cinquantamila in piazza a Damasco

L’unica differenza tra le sanguinose giornate della rivolta in Siria e quanto accaduto nella Libia di Gheddafi è nella spietata precisione della repressione. Dopo le settimane insanguinate di Daraa (un centinaio di morti) e di Latakia (una trentina di vittime), da giorni la città di Banias e il villaggio di Badia, 280 chilometri a nord ovest di Damasco, hanno visto cose peggiori delle raffiche di mitra nelle piazze e dei colpi dei cecchini che sparavano alla nuca dei manifestanti.

 

Banias e i paesi vicini sono stati messi sotto assedio da Maher el Assad, il fratello del presidente, Bashar, e dagli Shabbeeha, gli scherani del cugino Nameer, che sono raggruppati in squadracce civili che si occupano di contrabbando e gestiscono solitamente il traffico di droga con il Libano. Circondati da carri armati, Banias e Badia sono stati privati delle forniture di acqua, di energia elettrica e di generi alimentari. Gli Shabbeha e i militari hanno setacciato i centri urbani e hanno arrestato centinaia di persone per poi torturarle in carcere. Secondo al Jazeera e la Bbc, molti testimoni (credibili, perché hanno  fornito i nomi di due vittime: Murad Hejjo e Awad Qunbar), alcuni soldati che si erano rifiutati di sparare sui dimostranti sono stati uccisi per ordine degli ufficiali. Un perfetto modulo repressivo, efficace, lontano dagli obiettivi dei giornalisti (a cui è impedito di lavorare fuori da Damasco), che solo dopo tre giorni di pressione è riuscito ad avere ragione della rivolta, permettendo ieri alle truppe speciali l’ingresso nella città con i carri armati.

Oggi, quarto venerdì dall’inizio della rivolta, le manifestazioni e i cortei si svolgeranno in molte città siriane e saranno sicuramente represse con la solita durezza. “E’ una repressione ripugnante”, secondo le parole del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Carney ha smentito così l’ennesima gaffe araba del segretario di stato, Hillary Clinton, che venti giorni fa ha definito Bashar el Assad “un riformista”. Ieri il Wall Street Journal ha riportato la notizia “certa” di una forte collaborazione dell’Iran nella repressione attraverso i pasdaran, che hanno a Damasco la principale centrale operativa estera. Teheran ha fornito nuovi equipaggiamenti alle forze di sicurezza siriane, ha messo al servizio dei vicini il proprio know how per monitorare le attività degli oppositori su internet – incluso il controllo delle e-mail, dei blog e delle comunicazioni via sms. Soprattutto, ha passato al regime di Assad la lezione appresa durante i moti di piazza dell’Onda Verde nel 2009 e 2010.

 

Si tratta di una collaborazione più che comprensibile, dato che il regime di Teheran è costretto a confrontarsi con un contagio della rivolta che contrasta in modo netto i propri interessi strategici. Dopo avere salutato con soddisfazione la caduta del regime tunisino e quella dell’odiato “faraone” egiziano, Hosni Mubarak, dopo avere aiutato la rivolta sciita in Bahrein e il movimento che sta conducendo il presidente yemenita Saleh alle dimissioni, l’Iran valuta che la fine di Bashar el Assad in Siria costituirebbe un colpo durissimo alla propria potenza regionale. L’assetto della grande Internazionale Sciita (Iran, Siria, Hezbollah del Libano, Hamas, ribelli sciiti dello Yemen, del Bahrein e dell’Arabia Saudita), ha proprio a Damasco il proprio baricentro internazionale. Il flusso di armi, finanziamenti, pasdaran consiglieri, terroristi e attentatori si snoda attraverso un network complesso che ha il proprio centro nella capitale siriana, dove non ci sono l’embargo e i controlli dell’Onu. L’alleanza con gli alawiti siriani del Baath, che ha permesso di riportare il Libano nella sfera di influenza iraniana, permette oggi agli ayatollah di esercitare l’egemonia politica su una vera e propria “macroregione” affacciata sul Mediterraneo (che comprende anche Gaza). Ma se il regime di Damasco cadesse o entrasse in una fase di grave instabilità, l’Arabia Saudita avrebbe gioco facile nel fare leva sulla maggioranza sunnita (e sul radicamento in Siria dei suoi alleati, i Fratelli musulmani), per diventare politicamente determinante nella Mezzaluna fertile e circondare l’Iran con un’area di propria egemonia politica. Già radicata in Iraq grazie all’alleanza con Iyyad Allawi, in Giordania, con l’alleanza con re Abdullah II, e in Libano con il movimento di Saad Hariri, un’Arabia Saudita in grado di condizionare la scena politica siriana metterebbe il regime degli ayatollah in gravi difficoltà.

 

Questo scenario è oggi soltanto potenziale. Gli manca un elemento determinante per realizzarsi: quella estensione della rivolta a Damasco che sinora Bashar el Assad, anche grazie al pieno controllo sull’esercito e alla complicità dei cristiani siriani, è riuscito a evitare.

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