Il duello galattico

Beppe Di Corrado

Fate sparire gli altri. Il derby del mondo è una sfida personale. Uno contro uno, non undici contro undici. Non è Castiglia-Catalogna, non è globale contro locale. Non c'entrano le città, non ci sono le filosofie, non c'è la questione dei galacticos contro il culto della cantera. Real Madrid-Barcellona è Messi-Ronaldo. Punto. Il resto è un corollario, il contorno, la scenografia che rende ricco il palcoscenico. Il Santiago Bernabeu è il ring del Madison Square Garden o i tornanti dello Stelvio, o la pista dei 100 m. di Roma, o il parquet a scacchiera del Boston Garden, o la curva di Suzuka, o l'erba di Wimbledon.

    Fate sparire gli altri. Il derby del mondo è una sfida personale. Uno contro uno, non undici contro undici. Non è Castiglia-Catalogna, non è globale contro locale. Non c'entrano le città, non ci sono le filosofie, non c'è la questione dei galacticos contro il culto della cantera. Real Madrid-Barcellona è Messi-Ronaldo. Punto. Il resto è un corollario, il contorno, la scenografia che rende ricco il palcoscenico. Il Santiago Bernabeu è il ring del Madison Square Garden o i tornanti dello Stelvio, o la pista dei 100 m. di Roma, o il parquet a scacchiera del Boston Garden, o la curva di Suzuka, o l'erba di Wimbledon. Scendete in campo per l'ultimo capitolo della storia della rivalità del pallone. Uno contro uno, Ronaldo contro Messi.

    Certe volte non contano i punti. Sono forse già troppi per riaprire il campionato spagnolo. Al diavolo la classifica, sabato. Chissenefrega: quando giocavano i Boston Celtics contro i Los Angeles Lakers a nessuno importava più delle statistiche. C'erano Larry Bird e Magic Johnson. Basta. Nulla di più di una sfida personale, di un confronto diretto, su un pallone, su una stoppata, su una contesa. Lo sport cerca questo, l'ha sempre fatto. E' un duello: dieci passi in direzione opposta, poi sparate. Vince il migliore oppure no. Perché tanto c'è il tifo che mescola le carte, che mette in dubbio eventuali gerarchie, che relativizza l'oggettività. Ognuno ha il suo preferito, ognuno si appropria del suo campione e lo elegge numero uno. E' uno scontro di modi di essere e di modi di giocare. Messi si trascina contro Ronaldo tutta la parte di mondo che lo ha scelto. Hanno detto che questo appena finito è già stato il suo decennio. Simbolo degli anni 2000-2010: gli anni Sessanta sono stati di Pelé, i Settanta di Cruijff, gli Ottanta di Maradona, i Novanta di Ronaldo. Adesso c'è Leo. Lui. Perché gli anni zero hanno avuto anche Zidane e adesso hanno anche Cristiano Ronaldo. Ma uno ha chiuso male la sua stagione, l'altro per i teorici del messismo non ce la fa a reggere il confronto con Lionel.

    E' qui che ricomincia ogni volta Real-Barcellona. Perché mezzo mondo tifa Messi e mezzo mondo tifa Ronaldo. Uno brutto ma geniale, l'altro bello e meno geniale, ma fenomeno comunque. Si può anche non scegliere, si può anche starne fuori, però a un certo punto sono loro che ti vengono a cercare: tu sei del partito di Leo o di quello di Ronie? Guelfi e ghibellini, nordisti-sudisti, conservatori-progressisti. Siamo sempre lì. Siamo a Coppi e Bartali, a Prost-Senna, siamo a Federer-Nadal. Lo schema è uguale, ogni volta. La semplicità dello sport complicata dalla sovrastruttura che lo rende molto altro. Allora nell'epopea della pallacanestro anni 80 Larry Bird contro Magic Johnson era l'est contro l'ovest, era la semplicità, il rigore, la tradizione di Boston contro l'eccentricità, le manie di protagonismo, l'edonismo di Hollywood. Loro erano inconsapevolmente complici di uno scontro di civiltà, così come lo sono adesso Federer e Nadal nel tennis. Perché Roger è il simbolo della continuità col passato: il rovescio a una mano, la voglia di scendere a rete, la pulizia dei movimenti, l'osservanza delle regole dell'eleganza imposta e impostata; Rafa è la forza del futuro: rovescio a due mani perché è più forte e più efficace, il fisico usato come arma, la potenza oltre il controllo, la stravaganza del look come schiaffo al conformismo dominante nel tennis. Si ritrovano ogni volta e che tu li guardi dal vivo o in tv hai la netta sensazione di assistere a qualcosa che sta nello sport, ma lo travalica. E' una sfida di idee, di approccio all'esistenza, di interpretazione della vita. Perché lo sport è sufficiente a creare rivalità, ma non a trasformarle in duelli epici. Però poi la gente vuole quelli, allora una manina aggiunge il resto. Lo mette lì e non lo toglie più. Così Coppi-Bartali vive in eterno, così Maradona-Platini rimane un duello anche quando smettono di giocare.

    Si tengono a distanza ancora oggi. Per rispetto e forse anche per dispetto. Perché il mondo ha sempre messo a confronto Maradona con Pelé e invece prima o poi dovrà rendersi conto che il dualismo metaforico è stato quello: Diego-Michel. Appartengono alla stessa generazione, sono il Sudamerica contro l'Europa, sono stati entrambi italiani, tutti e due hanno lottato contro il sistema del pallone, sono stati stranieri, sono stati fenomeni. Hanno vissuto, ognuno a modo suo, la stessa era. Uguali nel ruolo, opposti nell'intepretazione. Uguali nella personalità, diversi nel modo di usarla. Uguali nel carisma, differenti nel carattere. Il campo non è mai finito: che fosse Juventus-Napoli o Francia-Argentina loro sono sempre lì, protagonisti di una commedia che usa personaggi veri per essere reale. Si cercano, si annusano, si beccano. La polemica durante il Mondiale del Sudafrica è l'esempio. Hanno chiesto a Platini un commento su Maradona allenatore: “Diego commissario tecnico? E' stato un grande giocatore”. La risposta: “Michel è un francese. Sappiamo tutti come sono i francesi: lui crede di essere chissà chi, ma io non gli ho mai dato importanza”.

    Poi le scuse, magari un incontro, un sorriso. Nemici come prima. Perché c'è stima anche se a volte non si vede. Perché c'è timore di colpire l'altro, anche se a volte sembra il contrario. Sono rimasti calciatori. Sono rimasti bambini. Eccoli oggi, come allora. Due dimensioni dello stesso talento: chi sa calciare meglio le punizioni Maradona o Platini? Saremo ossessionati per altri decenni con domande così. Non si risponde per competenza, ma per passione. Ognuno ha la sua preferenza, senza possibilità di mescolare. Perché Michel e Diego non s'incontrano neanche se cerchi di metterli insieme a ogni costo. Uno era razionale, l'altro istintivo. Uno alto, l'altro basso; uno gambe lunghe, l'altro corte; uno magro, l'altro con la tendenza a ingrassare. Michel è ancora un ironico riflessivo, Diego è uno sprezzante impulsivo. Si sono completati senza neanche saperlo: Maradona avrebbe avuto bisogno di un po' dell'intelligenza lucida di Michel e Michel avrebbe avuto bisogno dell'incoscienza di Diego. Lo dice la storia, ma non loro. Provate a chiedere a Maradona se gli sarebbe potuto servire qualcosa di Platini. Poi chiedete a Platini se avrebbe desiderato qualcosa di Maradona. Nessuno ha il coraggio di ammettere che insieme sarebbero stati la perfezione.

    L'unico caso nella storia del pallone in cui due numeri dieci della stessa era, al netto delle personalità, avrebbero potuto giocare nella stessa squadra. Perché gli universi paralleli stanno nelle loro teste e nei loro piedi. Diego è mancino, Michel destrorso, però non è questo che li rende complementari eppure impossibili da far stare nello stesso stampo: è l'idea di calcio che ognuno dei due ha. Perché Michel era un genio gestito, Diego un genio ingestibile. Perché Platini ha smesso quando era al massimo della carriera, Maradona ha accettato di sprofondare nel reducismo da campionissimo invecchiato male.

    Ronaldo-Messi entra in scia, come ha scritto il Paìs Semanal. E' una sfida cominciata quando il primo era ancora nel Manchester United: nel 2009 si giocarono la finale di Champions a Roma. Messi distrusse l'avversario. Troppo più forte la sua squadra. Adesso è diverso, però. Adesso il duello è ambientato dentro il derby del mondo. Real-Barcellona è un contenitore che alimenta il confronto. Lo stile personale del calciatore viene associato a quello della squadra d'appartenenza così da rafforzare l'idea di uno scontro che non riguarda solo il pallone. Perché è così ogni volta che c'è un Clasico, figurati adesso che ci sono loro due. Messi diventa l'icona della mentalità Barça: prendo un ragazzino, lo allevo, ci credo, lo butto, lo trasformo in eroe multitasking e multimediale. Ronaldo, invece, è l'ultimo emblema dell'imperialismo Real: il giocatore più pagato della storia del calcio con i suoi 97 milioni di euro, il galactico più galactico che ci sia. Non è vero che il Barcellona non lo avrebbe mai preso. Non è vero e infatti lo voleva. E' finito al Real perché quando è stato messo in vendita, il Madrid era la squadra che poteva pagarlo di più. Lo stile, l'approccio, l'ideale calcistico che rappresenta arrivano dopo. Ci sono adesso che il Clasico bussa alla porta: eccolo, sabato sera, il primo confronto dei tre che Real e Barcellona avranno in poche settimane. Ora campionato, poi la semifinale di Champions, poi la finale di coppa del Re. Loro, sempre loro. Anche domani, perché sono giovani e continueranno a essere due mondi opposti. Ronaldo-Messi è la sfida che s'è presa la coda del vecchio decennio e si prenderà metà di questo. Arrivano via satellite ogni weekend in diretta. Ciò che non avveniva per gli altri, avviene oggi. Sai che ci sono, in Spagna e ovunque. Perché arrivano in contemporanea e sprigionano quello che hanno e quello che è nello stesso istante in tutto il globo. Sono i due campioni 2.0, la versione migliorata di qualcosa cha abbiamo già visto. La modernità di un ruolo pallonaro che tutti vogliono romanticamente riportare in bianco e nero: dicono che sia la purezza del calcio come dovrebbe essere, quindi com'era, del pallone senza freni e senza troppe regole, senza tattica. Il trionfo della fantasia, l'umiliazione della potenza da parte della tecnica.

    Lo credano pure. Però Cristiano e Lionel corrono. Corrono perché gli hanno chiesto di farlo, perché senza corsa non sarebbero i più forti del mondo. Messi veloce coi piedi, veloce nella testa. Tutto quello che sembra e che invece non è: dicono sia un marziano in un mondo fuorimisura per lui, invece la verità è che è diventato quello che è solo perché è perfetto per il pianeta che abita. E' la genialità mai fine a se stessa, ma adagiata su uno schema, su un'idea, su un modo di stare in campo. E' il campione di tutti perché non assomiglia a nessuno di quelli che l'hanno preceduto. Non c'entra con Maradona, per esempio. Diego era la squadra, Leo è il più forte di una squadra: non esisterebbe senza gli altri, non sarebbe lui fuori da un contesto. Messi è quello che esce se spremi il Barcellona e tiri fuori il succo: dolce, sensuale, perfetto, raffinato.

    Ronaldo è un torero. Spavaldo, deciso, sicuro: vieni avanti toro, perché non mi fai paura. Corre diversamente da Lionel: più lungo, più forte, più potente, più da velocista. Ronie è uno di quelli che se non avesse fatto il calciatore, avrebbe comunque sfondato nello sport. Messi no. Messi senza palla è come Michelangelo senza scalpello. Cristiano è più uomo. Domina le città attraverso i suoi poster a torso nudo: è l'ultima icona dello sportivo patinato, modello e modellato, costruito fuori dal campo più che sul campo.

    Messi lo insegue: chiunque dica che non è interessato sa di mentire. Ha appena firmato per diventare testimonial di Dolce & Gabbana: posa da neofighetto, si prepara al debutto su photoshop per apparire più bello di quello che è. E' che non vuole lasciare spazio al rivale entrato da tempo nella squadra degli uomini immagine di Giorgio Armani. Il derby non finisce neanche quando lo spogliatoio del Santiago Bernabeu è chiuso da un pezzo. C'è. C'è in ogni momento, perché vale milioni e tiene alta la tensione emotiva del pallone. Allora per reggere il gioco bisogna prenderli ed estremizzarli. Basta prendere la superficie, in fondo: Messi così diventa il talento limpido e naturale, da opporre alla forza e alla potenza di Ronaldo. Il confine serve a rafforzare l'appartenenza, come con Senna e Prost no? Ayrton era la classe, Alain era il calcolo. Si stava con uno o con l'altro, per semplicità e per alimentare la rivalità. Andava bene a tutti, come è per le altre grandi sfide tra sportivi. Andava bene anche a chi per tutta la vita ha dovuto fare la figura del meno talentuoso: nel caso della formula Uno era Prost, nell'atletica è successo a Carl Lewis.

    Perché prima di scoprire che Ben Johnson fosse strafatto, il mondo di quelli giusti l'aveva eletto a suo mito: il canadese che da solo umiliava gli Stati Uniti di quell'altezzoso e altero Lewis, l'America imperialista di Reagan, gli Usa che dominavano le Olimpiadi dal primo all'ultimo giorno. Johnson era la leggenda del povero che metteva in riga i ricchi. I guai di Ben col doping hanno smontato l'impalcatura che gli avevano costruito addosso. Adesso quella costruzione è sulle spalle di Leo Messi: una Pulce che da sola deve smontare la boria del Real e di Ronaldo. A Cristiano resta il ruolo di campione un po' antipatico, perché rivale del simpaticissimo, fortissimo, giustissimo Lionel. Ronie ci sta, per carattere, per spirito di contraddizione e perché un po' antipatico lo è davvero. Diverso e simile a Messi. Il derby rimarrà eterno, sarà uno strato di panna montata su una torta che ha un sapore inaspettato. Perché Leo e Cristiano sono così e però sono diversi da quello che appaiono. Si muovono in modo differente, pensano in modo differente, giocano in modo differente, però sono entrambi una magia impostata, tutti e due geni naturali fino a un certo punto. Non c'entrano con la retorica: i nostalgici del pallone degli anni Ottanta li prendono a esempio di come dovrebbe essere il calcio oggi. Un po' come allora, dicono. Il trequartista piccolo e agile e l'ala veloce e un po' irascibile. Messi e Ronaldo, invece, sono figli legittimi del loro tempo, oltre che del loro spazio.

    Gli unici nella storia a muoversi davvero come i loro alter ego della Playstation. Perché non è il videogame che s'è adattato a loro, ma l'opposto. Real-Barcellona è nostra. C'è sempre stato il derby, ma l'abbiamo visto sempre con un po' di distacco. Adesso lo viviamo come se si giocasse qui. Un Roma-Lazio, un Inter-Milan, un Inter-Juventus. Finite le nostre grandi partite c'è la più grande di tutte, con i due più grandi di tutti. La sfida globale ha sconfinato: si gioca undici contro undici, ma per il mondo sarà un uno contro uno. Chi vince è il migliore, forse. Il più bravo lo decide ognuno di noi, a seconda di come la pensa, di chi è, di che cosa vota, di che cosa pensa della vita. Messi e Ronaldo sono attori. La sceneggiatura l'ha scritta il destino: uno qui, uno lì. Uno bianco, l'altro nero; uno tecnico, l'altro potente; uno simpatico, l'altro antipatico. Così il clasico è ancora più clasico. La semplicità vale sempre, banalizza lo sport: Leo e Cristiano hanno soltanto dovuto adattarsi.