I tormenti di Emma
Quando venne eletta, i più la etichettarono “lady d'acciaio”, non solo per mancanza di fantasia visto che l'azienda di famiglia tratta proprio con i derivati del ferro e del carbone, ma per il suo piglio di guerriera tutta d'un pezzo. Ben presto, però, come l'amazzone Bradamante sotto l'elmo e il bianco pennacchio, Emma Marcegaglia rivelò un carattere sì fiero, ma trepidante, non alieno da passioni, smarrimenti e incertezze. Umana troppo umana, al pari del personaggio ariostesco (sarà perché Ferrara e Mantova sono così vicine). Emancipatasi dal mentore Montezemolo; attratta dalla malia di un Berlusconi che la tratta da figlioccia e ripete: “Il mio programma è esattamente come il tuo”.
“Al fin trovò la bella Bradamante / quivi il desiderato suo Ruggiero, / che, poi che n'ebbe certa conoscenza/ le fe' buona e gratissima accoglienza” (Ludovico Ariosto, “Orlando furioso”).
Quando venne eletta, i più la etichettarono “lady d'acciaio”, non solo per mancanza di fantasia visto che l'azienda di famiglia tratta proprio con i derivati del ferro e del carbone, ma per il suo piglio di guerriera tutta d'un pezzo. Ben presto, però, come l'amazzone Bradamante sotto l'elmo e il bianco pennacchio, Emma Marcegaglia rivelò un carattere sì fiero, ma trepidante, non alieno da passioni, smarrimenti e incertezze. Umana troppo umana, al pari del personaggio ariostesco (sarà perché Ferrara e Mantova sono così vicine). Emancipatasi dal mentore Montezemolo; attratta dalla malia di un Berlusconi che la tratta da figlioccia e ripete: “Il mio programma è esattamente come il tuo”; incerta se insistere nell'attendere i travagli della Cgil e magari il cambio di passo con un'altra donna guerriera al comando, come Susanna Camusso, o seguire le sirene della Cisl di Raffaele Bonanni; ferita e offesa dallo strappo di un Sergio Marchionne che sotto il maglioncino mostra il cinturone di John Wayne; ebbene, Emma ha seguito, nei suoi tre anni al vertice della Confindustria, un percorso accidentato tra multipli zig-zag. Adesso, mentre cominciano gli ultimi dodici mesi di presidenza, indossa di nuovo l'arme di Bradamante.
C'è già chi lo chiama il risveglio di primavera. Dopo un inverno di silenzioso scontento, la Marcegaglia squilla la tromba di guerra lanciandosi in un attacco ad ampio raggio. La campagna viene aperta in modo quasi professorale da una inchiesta seriale condotta da analisti di primo piano come Fabrizio Galimberti e Luca Paolazzi, direttore del centro studi. Una successione martellante che torna a fare del Sole 24 Ore, sotto la direzione di Roberto Napoletano, il quotidiano confindustriale. Rapsodico e cosmopolita con Gianni Riotta, adesso chi vuol sapere cosa accade nella finanza e nella industria italiana deve leggerlo ogni mattina. Proprio il giornale, la sua gestione, i suoi conti, sono stati altrettante spine nel fianco.
Le conclusioni dell'inchiesta vanno in un'unica direzione. Perché l'Italia non cresce? Risposte: 1) poca ricerca e quel che c'è è nascosta come segreti che volteggiano nell'aria nel tessuto dei distretti industriali; 2) non è colpa del mezzogiorno (anche perché il nord cresce anch'esso molto meno degli altri paesi europei) ma dello stato inefficiente; 3) il mercato del lavoro è schizofrenico: troppo protetto per i vecchi, selvaggio per i giovani, ma anche qui sta al governo mediare e promuovere nuove forme contrattuali; 4) opere pubbliche e fondi strutturali potrebbero fare molto, però tutto è fermo e i soldi europei non vengono spesi; 5) il risparmio delle famiglie va in titoli di stato anziché in investimenti produttivi; 6) non c'è certezza del diritto; 7) la politica energetica impone alle famiglie una “tassa da insipienza”. Quindi, “la ruggine che impedisce all'Italia di crescere sta nell'incapacità della politica di promuovere il bene comune”.
Al culmine di questo crescendo rossiniano, domenica scorsa arriva l'acuto di Emma: “Mai come adesso gli imprenditori si sentono soli, e proprio perché il momento è straordinario, dobbiamo mobilitarci tutti, unire le forze senza scaricare le colpe sugli altri e dare al paese un messaggio chiaro e preciso sulle cose da fare”. Il primo a congratularsi con lei è Montezemolo: dimenticate le vecchie tensioni che non più tardi di dodici giorni fa lo avevano spinto a criticare la Confindustria di collateralismo neoprotezionista con Tremonti, adesso apprezza il ritorno a giocare un ruolo politico. Molti insinuano che le stoccate al governo Berlusconi gli offrano alimento nel caso volesse davvero entrare nell'agone elettorale. E leggono in questa ottica l'appeasement. Vedremo. Emma si è lanciata in un'offensiva ad ampio raggio che non ha come bersaglio unico il ministro dell'Economia. Anche a rischio di dissensi interni come quello di Federica Guidi, presidente dei giovani, favorevole al governo. Non è sfuggito nemmeno il rapporto cordiale con la Camusso, con la quale si è intrattenuta a colloquio giovedì mattina. Dunque, dietro c'è ben altro. Scrive sulla Repubblica Roberto Mania che, dopo aver seguito da vicino Montezemolo, non ha perso un passo della Marcegaglia: “E' la fine di una forma tacita di collaborazione che dall'inizio della legislatura ha prodotto poco più di nulla se non tante, tantissime promesse”.
Implacabile, Giulio Tremonti non risparmia il suo sarcasmo: “La solitudine è durata pochi giorni”. Perché sono tornati gli aiuti di stato. Pardon, incentivi per non cadere sotto la mannaia dell'Unione europea. Una formula innovativa, ad essere onesti: sgravi fiscali sulle imprese che si mettono in rete per creare un marchio, acquistare materie prime a buon mercato, muoversi insieme all'estero, insomma tutto quello che le nano aziende italiane, quelle che si sbattono per sopravvivere e ci hanno aiutato a galleggiare, non riescono a fare da sole. Un modello che piace ai neoteorici del piccolo è bello, dentro la Confindustria dove la mente è il sociologo Aldo Bonomi o nella nuova associazione Rete Impresa Italia che raccoglie commercianti e artigiani, la cui Fondazione è presieduta da Giuseppe De Rita. Insomma, non sono proprio inezie. Ma Emma non s'accontenta di così poco: “Chiediamo riforme, non aiuti” e il piano di Tremonti appare leggero, quasi impalpabile.
La campagna di primavera culmina nell'assise di Bergamo il 6 maggio, un evento al quale viene data una solennità particolare ricordando che qualcosa del genere venne realizzato solo nel fatidico 1992, anno di crisi profonda, con il crollo della lira e l'avvento di Tangentopoli, che preparava un regime change. Nessun politico è stato invitato, si tiene a sottolineare, e non solo per la vicinanza con le elezioni amministrative. Unica figura istituzionale, la più alta, Giorgio Napolitano con la quale Emma è in sintonia.
Dunque, alla sbarra finisce questa legislatura che anche alla Confindustria appare agonizzante. E non solo, c'è un intero decennio perduto, quello che si era aperto con la promessa di ridurre le imposte sui redditi, passato attraverso la sconfitta sull'articolo 18 (i paradossi della storia vogliono che venga rilanciato oggi dall'opposizione moderata), il tentativo di rilanciare il patto neocorporativo (la concertazione) da parte di Montezemolo, la terribile recessione che ha fatto perdere in due anni otto punti di reddito nazionale e non si sa quando potremo recuperarli.
Anche Mario Draghi batte sullo stesso tasto. Il governatore, in pole position per passare in autunno alla Bce, ripete il mantra della Banca d'Italia: crescere, crescere, crescere. Senza un aumento del prodotto lordo di almeno due punti, non è possibile ridurre il debito pubblico, al 120 per cento del pil nonostante il rigore finanziario tremontiano. Se poi vogliamo creare posti di lavoro per assorbire i giovani, bisogna arrivare a tre punti l'anno. “La vera emergenza è il lavoro”, insiste la Marcegaglia la quale sa bene che l'anno prossimo rischia di arrivare lo tsunami dei cassintegrati. Quando finirà il cuscinetto pubblico prorogato di anno in anno, quanti operai e impiegati oggi in parcheggio, potranno essere riassorbiti? Nessuno lo sa e tutti tremano.
Certo, ci sono segnali positivi. Marco Fortis in particolare insiste sulla ritrovata vitalità dell'export. Ma bisogna sempre ricordare che la bilancia commerciale italiana è in deficit, paghiamo per merci straniere più di quel che riceviamo dalle merci vendute all'estero. Colpa del petrolio, ma è il nostro destino: dobbiamo lavorare di più per compensare l'assenza di risorse endogene. In altre fasi ne siamo stati capaci, oggi no. Il governo ha fatto bene nell'emergenza, senza la cassa integrazione e la tenuta nei conti pubblici sarebbe stato peggio. Ma adesso? La crisi non è finita avverte da Washington, presentando l'outlook di primavera, Dominique Strauss-Kahn direttore generale del Fondo monetario internazionale che corre in soccorso del Portogallo.
Non esistono alternative, dice Tremonti e lo scrive nei documenti approvati dal governo: “Stabilità e solidità finanziaria”, senza questa coppia ferrigna non solo non c'è sviluppo, ma nemmeno un equilibrio politico democratico. La replica di Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, è puntuta: “Forse il problema è che quando gli equilibri politici sono precari, la linea che paga nel breve termine è quella di tenere i conti, perché la sanzione dei mercati è immediata e durissima, evitando al tempo stesso le tensioni che possono derivare da misure, potenzialmente controverse per la crescita. Insomma, l'idea può essere quella di combattere un nemico alla volta: prima il debito e poi chissà quando, la bassa crescita. Però bastano semplici conti per capire che, se non riparte la crescita, non si risolve neanche il problema del debito”.
Colpa del governo, magari dei tre governi che hanno gestito questi dieci anni depressi. Ma gli industriali? Davvero sono agnellini innocenti? O hanno già detto addio alle armi? Sarebbe bella un'inchiesta per raccontare cosa stanno facendo, come vedono il loro paese, perché se ne vanno. Prendiamo quelli che un tempo erano i grandi elettori di Confindustria. Gli eredi Agnelli pensano ad altro. Lo strappo di Marchionne, uscito dalla Federmeccanica per avere mano libera sui contratti di lavoro, è stato ricucito solo formalmente. E la Fiat va verso Detroit più rapidamente del previsto. Marco Tronchetti Provera sta ricostruendo il core business: tornato a fare l'industriale, ha rafforzato la proiezione estera di Pirelli (Turchia, Brasile, Cina) con positivi risultati. Benetton è tutto preso nel suo nuovo mestiere: tra autostrade, stazioni, aeroporti e autogrill, il gruppo è ormai una multinazionale dei servizi. Pensa alla Spagna, alla Francia o all'America, passando per l'estremo oriente al quale guardano gli Zegna, Armani, Prada che va a quotarsi alla borsa di Hong Kong piuttosto che a Milano. L'azienda dei Merloni, che con Vittorio hanno dato un presidente importante, ormai è più inglese che italiana. I Pesenti sono per metà francesi. Lucchini, altro presidente forte, ha venduto ai russi. Luigi Abete fa il banchiere per i francesi. Giorgio Fossa, fortemente voluto da Cesare Romiti, nuota in apnea. Antonio D'Amato, tornato in azienda, si sta anche lui multinazionalizzando.
I big, insomma, hanno la testa altrove. Restano i piccoli, eroici salvatori della patria. Fino a quando? Spiega Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d'Italia: “Si dice che il nostro punto di forza sono le piccole imprese. Ma esse tendono a restare piccole. Raggiunto il benessere materiale della famiglia viene meno il desiderio di investire ulteriormente al di là delle proprie dimensioni familiari. Dunque, il modello basato sul familismo acceso, diventa un punto debole del nostro modello di capitalismo”. I piccoli non crescono. Colpa della politica fiscale troppo oppressiva, di leggi che disincentivano la crescita dimensionale delle imprese, di un ambiente economico-sociale nel suo insieme sfavorevole, di un mercato del lavoro rigido. Saccomanni conosce bene la cassetta degli attrezzi e non manca di elencare tutto quel che si dovrebbe e si potrebbe fare. Ma quel che manca va al di là del tradizionale repertorio di interventi e sostegni. Il vero incentivo è piuttosto psicologico, ha a che fare con le aspettative, con la fiducia, con la voglia di rischiare. “Prevale – sottolinea il numero due di Bankitalia – un senso di appagamento presente in tutti i paesi ricchi, ma da noi colpisce in modo particolare la classe imprenditoriale, direi l'intera élite dirigente. Che ha perso il gusto della sfida”.
La Confindustria non ha fatto molto per recuperare questo piacere senza il quale non esiste l'imprenditore, come spiegava Joseph A. Schumpeter, che da vecchio austriaco sapeva essere conservatore e rivoluzionario a un tempo. “Dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e non scaricare le colpe sugli altri”, riconosce Emma. Prima di lei Montezemolo ripeteva come un refrain: “Bisogna fare squadra”. Ma gli industriali italiani si sono mostrati dei solisti. Senza più i violinisti di un tempo. Solisti di una orchestra felliniana.
E' tradizione che spetti al presidente uscente avviare la successione, anche se poi le procedure per la scelta sono nelle mani dei “saggi” come in ogni oligarchia che si rispetti. E certo non fa bene all'immagine vedere che la lista è vuota. Davvero Confindustria è scesa così in basso? Certo, ogni volta si scrive che non serve più a niente, è una lobby senza grande potere, la snobbano i grandi, l'abbandona Sergio Marchionne, la striglia chi l'ha conosciuta da dentro come Carlo Callieri. Eppure, la sorte di Confindustria è come quella di Roma dove ha il suo quartier generale: tutti la disprezzano ma tutti la desiderano e poi non la vogliono lasciare più. Emma Marcegaglia, ad esempio, ha già pronta la presidenza alla Luiss, l'università privata che vorrebbe sempre diventare la Bocconi del centro-sud. Certo c'è ancora tempo. Ma l'assise del 6 maggio a Bergamo apre la fase finale.
Molti in realtà restano defilati: il pluricitato Alberto Bombassei, Giorgio Squinzi che aspira da tempo, Andrea Moltrasio in preparazione almeno da un anno, Ivan Lo Bello campione del no pizzo. Dall'esterno osserva Francesco Gaetano Caltagirone. Finora si è fatto avanti solo Aurelio Regina, capo della Confindustria romana, associazione che non è mai stata in prima fila. Azionista di maggioranza, per la sua storia oltre che per le quote pagate, è sempre stata l'Assolombarda. Tradizionale baluardo dei privati, oggi è guidata da Alberto Meomartini, manager di un'azienda semipubblica, Snam rete gas, filiazione dell'Eni. E anche questo la dice lunga. Regina, dice chi lo conosce, farebbe bene il presidente non solo perché è uomo di relazioni (qualità preziosa per un lobbista), ma perché lo vuole fare, dice un attento osservatore.
Si sentono anche rumori fuori scena. Per esempio: e se l'attivismo di Diego Della Valle nascondesse proprio la Confindustria? Lui sarebbe il primo a negarlo. Nega di aver fatto la testa d'ariete in Generali. O di aspirare al controllo del Corriere della Sera, come lo sfida provocatoriamente a fare Tarak Ben Ammar. Tanto meno, di tirare la volata in politica a Luca di Montezemolo, suo amico di lunga data (e socio). E' vero che critica il governo, ma non attacca Berlusconi. L'unica cosa certa è che non esiste ancora un candidato forte. E Mr. Tod's, come lo chiamano all'estero, ha tutti i crismi: è un vero imprenditore, di successo, ricco (Forbes valuta il suo patrimonio a 1,3 miliardi di dollari), un nome conosciuto in mezzo mondo, ha superato senza troppe ferite la tempesta della recessione e ha appena annunciato l'intenzione di passare la gestione operativa al fratello Andrea. Per tenersi le mani libere e cercare nuove avventure. Chissà. Certo, è un cruccio e un grattacapo per Emma Marcegaglia, e non di poco conto. Il grande attore, dicono, lo si giudica da come esce più che da come entra in palcoscenico.
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