“Uno stato palestinese votato dall'Onu è un guaio per Israele”
E' brutto a dirsi, ma “Gaza è il risultato di un esperimento democratico”. Jeffrey Goldberg, giornalista e commentatore imprescindibile per chi vuole comprendere il medio oriente, oggi arruolato all'Atlantic ma per tanti anni autore di splendidi reportage per il New Yorker, è come sempre disarmante nelle sue analisi. E' vero, il governo di Gaza è il risultato delle elezioni del 2006, volute fortemente dalla comunità internazionale dopo il ritiro da Gaza dell'ex premier israeliano Ariel Sharon, poi vinte da Hamas, che ha trasformato quella striscia di terra in un campo di battaglia per estremisti ed estremismi, come dimostra l'uccisione dell'attivista italiano Vittorio Arrigoni.
E' brutto a dirsi, ma “Gaza è il risultato di un esperimento democratico”. Jeffrey Goldberg, giornalista e commentatore imprescindibile per chi vuole comprendere il medio oriente, oggi arruolato all'Atlantic ma per tanti anni autore di splendidi reportage per il New Yorker, è come sempre disarmante nelle sue analisi. E' vero, il governo di Gaza è il risultato delle elezioni del 2006, volute fortemente dalla comunità internazionale dopo il ritiro da Gaza dell'ex premier israeliano Ariel Sharon, poi vinte da Hamas, che ha trasformato quella striscia di terra in un campo di battaglia per estremisti ed estremismi, come dimostra l'uccisione dell'attivista italiano Vittorio Arrigoni. “Ecco perché Israele oggi è così spaventato dalle rivolte arabe”, dice Goldberg, l'instabilità nella regione “può portare al potere altri estremismi, come quello dei Fratelli musulmani in Egitto”, e di questo passo la sicurezza di Gerusalemme sarà sempre più messa in discussione. Anche se, continua Goldberg, “in generale si può dire che le vere democrazie non fanno guerra ad altre vere democrazie e per questo un medio oriente democratico è nell'interesse di Israele”. Ma bisogna arrivarci, alla democrazia.
Alla destabilizzazione sul piano delle alleanze s'aggiungono i continui razzi dalla Striscia di Gaza contro Israele, la consapevolezza che ormai quello è un terreno fuori controllo, e allo stesso tempo la volontà palestinese – più sul lato della Cisgiordania, guidata dall'Autorità palestinese di Abu Mazen – di vedersi riconosciuto un proprio stato. In attesa dell'annunciato discorso del presidente americano, Barack Obama (secondo il suo segretario di stato, Hillary Clinton, entro qualche settimana ci sarà un gran pronunciamento presidenziale), che rilanci i negoziati e il processo di pace, impantanato in sterili e inutili colloqui bilaterali, Abu Mazen vuole ottenere un riconoscimento dello stato dalle Nazioni Unite. “Il movimento nazionale palestinese – dice Goldberg – è stato per decenni un fallimento. Non è riuscito a trasformarsi in uno stato, non è riuscito ad abbandonare il terrorismo, ma oggi ha una strategia furba”. Se l'Onu votasse per il riconoscimento dello stato palestinese, “Abu Mazen potrebbe dire che si tratta di uno stato indipendente sotto il giogo dell'occupazione straniera, cosa che porterebbe a Israele molti più guai di quelli che già ha in sede Onu – spiega Goldberg – E' una tattica davvero abile”. Per questo il governo di Benjamin Netanyahu dovrebbe anticipare la mossa, lavorando alla creazione di uno stato che tuteli gli interessi dei palestinesi ma anche l'esigenza di sicurezza di Israele. “Abu Mazen in fondo lo sa – dice il giornalista – Per ottenere uno stato, gli interlocutori decisivi sono Israele e gli Stati Uniti. E' emozionalmente soddisfacente ricevere il voto della Malesia, del Ghana o del Perù, ma non comporta nulla di concreto sul campo”. Netanyahu però è bloccato, ha problemi di coalizione e problemi con gli Stati Uniti, e molti pensano che sia meglio stare fermi e guardare dove vanno a finire le aspirazioni dei popoli circostanti.
Intanto però l'Iran continua ad armare Hamas (ieri si è molto parlato di nuovi missili che possono essere smontati e rimontati, così sono trasportabili con facilità) e Washington appare senza una dottrina precisa, così le preoccupazioni israeliane montano. Goldberg si è abituato a vivere in un'America senza dottrina, dice che “a volte bastano tre grandi obiettivi, una dottrina potrebbe trasformarsi in una trappola”: Obama vorrebbe un cambio di regime a Teheran, “ma non farà come il suo predecessore, perché teme che poi ogni rivoluzione si ritrovi con l'etichetta degli Stati Uniti” e venga repressa nel sangue. Goldberg è però convinto che il programma nucleare proceda spedito anche se molti sostengono di no, e dice che Israele interverrà militarmente se si accorge che “l'Iran è sul punto di diventare una potenza nucleare, ma nessuno ha intenzione di occuparsene”. Per il momento c'è già una nuova guerra in corso – la guerra di Libia, un paese “che non rappresenta un problema per la sicurezza nazionale americana”. Sarebbe meglio tenere d'occhio altri fronti, ben più importanti. Quali? “Lo Yemen”.
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