Arrigoni merita pietà e rispetto, non così il coro dei conformisti

Toni Capuozzo

E così, infine, il corpo di Vittorio Arrigoni torna in Italia, credo con il volo AZ 895 dal Cairo, in arrivo mercoledì a Fiumicino alle 19.35. Io, che non vado mai in chiesa, mi faccio il segno della croce, quando vedo passare un funerale, qualunque funerale. Faccio l'unico gesto che ho in memoria per dichiarare pietà, e rispetto davanti al mistero della morte. Ma questo non mi impedisce di pensare, e di dire quel che penso.

    E così, infine, il corpo di Vittorio Arrigoni torna in Italia, credo con il volo AZ 895 dal Cairo, in arrivo mercoledì a Fiumicino alle 19.35. Io, che non vado mai in chiesa, mi faccio il segno della croce, quando vedo passare un funerale, qualunque funerale. Faccio l'unico gesto che ho in memoria per dichiarare pietà, e rispetto davanti al mistero della morte. Ma questo non mi impedisce di pensare, e di dire quel che penso.
    Penso che ogni morte, e specie quelle violente, siano uno spaccato rivelatore del mondo.

    Come una casa sbrecciata dal terremoto, così le morti dicono qualcosa dell'interno di un mondo, rivelano al passante qualcosa della privatezza e dell'intimità di chi vi abitava. E la morte di Vittorio Arrigoni dice alcune cose su Gaza, e altre sull'Italia. Su Gaza dice che ci sono gruppi, e persone preda del fondamentalismo islamico più feroce. Lo si sapeva, ma non si sapeva che erano ormai arrivati al punto di imitare gli assassini di Enzo Baldoni in Iraq, dell'autista e dell'interprete di Daniele Mastrogiacomo in Afghanistan, di Daniel Pearl in Pakistan. Di imitare e fare peggio, perché il video che ritrae Vittorio Arrigoni nelle loro mani, con i segni del pestaggio, senza una parola che reclami pietà e trattative, è l'esempio ultimo dell'orrorismo: noi non vi facciamo vedere quanto siamo buoni e bravi, vi facciamo vedere quanto siamo feroci, e che poca cosa sia un infedele nelle nostre mani.

    Di più: stavolta non hanno ucciso un giornalista, né un suo collaboratore, ma un militante (in qualche modo lo erano anche le due Simone, e la stessa Giuliana Sgrena, ma vennero liberate) che si batteva per la causa che loro stessi pretendono di difendere. Le indiscrezioni e i comunicati sulle indagini aggiungono qualcos'altro, e ci raccontano poche cose, che confermano quanto già si sapeva: che il controllo di Hamas sulla Striscia è ferreo, se sono giunti al covo tardi, ma in poche ore, che esiste una fascia grigia – l'omicida e il suo complice erano ancora sul libro paga di Hamas – e che ci sono infiltrazioni, se il mandante è un giordano – un nuovo Al Zarqawi – passato attraverso i tunnel di Rafah.

    Ci dice qualcosa di più il dolore dei palestinesi, che mutua alcune manifestazioni – le candele, le veglie – da mondi non islamici, ma continua a piegare la realtà al proprio immaginario, quando esibisce manifesti con affiancate le immagini di Arrigoni e della volontaria della sua stessa organizzazione che morì, lei sì, sotto i bulldozer israeliani, e sotto le immagini la scritta: lo stesso killer.

    Le dichiarazioni ufficiali, poi, la condanna e lo sdegno, quasi unanime, non arrivano al solo punto che meritava di essere raggiunto: cosa siamo diventati, noi palestinesi, per arrivare a questo, per permettere che questo avvenga, per allevare al nostro interno sentimenti e ferocie come questa? Si dice che le morti pubbliche debbano servire a qualcosa, quando giungono a concludere una vita dedicata a una causa: anche stavolta, tra imbarazzo e vergogna, incredulità e continuismo, la causa palestinese ha perso l'occasione di riflettere su se stessa.
    Non è uno spaccato incoraggiante, ma non lo sono neppure le fenditure rivelate dall'altro suo mondo, l'Italia. No, non per le pretese della madre. Una madre ha il diritto di piangere o non piangere, di essere orgogliosa di qualunque cosa, di riaffermare in quel feretro l'identità che ha segnato una vita, e dunque anche di pretendere che quel corpo non passi tra i suoi nemici di una vita. Non è il linguaggio della pace, questo, né quello della comprensione, ma il linguaggio di Vittorio Arrigoni non lo era mai stato e solo le pigre titolazioni giornalistiche lo possono definire pacifista. Una madre ha il diritto di continuare ad agitare le bandiere di una vita, e di non curarsi della sorte degli assassini di suo figlio, per esigere giustizia o dispensare perdono: è il suo modo, legittimo, di tenere in vita il figlio.

    Meno legittimo, e con meno diritto, tanta parte del coro. Un coro ferito, e ossessionato dal riaffermare se stesso, a costo di essere arroganti, davanti alla realtà (ora e sempre: a chi giovavano le Br? Può un compagno averlo fatto? E l'11 settembre, non sarà autoinflitto?). Mica solo Giulietto Chiesa e i tanti che nei social network evitano con rabbia ogni domanda scomoda a se stessi: persino il presidente della Repubblica ha detto, davanti a una tragedia evidente, che bisognava accertare presto la verità. Come se la verità non stesse tutta e per intero in quello che è successo. Come se non volessimo chiederci cosa abbia pensato, che cosa abbia detto, cosa abbia provato Vittorio Arrigoni in quelle poche ore, e sono le cose che fanno più male, perché non puoi non pensare a qualcuno che non si capacita, che non riesce a capire e a farsi capire, che è costretto a misurarsi con la verità di uno sbaglio, di un equivoco, con qualcosa che mette in forse tutta la tua vita, e decide la tua morte.

    Una vita che merita rispetto, quella di Vittorio Arrigoni, con tutta la generosità dei suoi abbagli, dei suoi giudizi frettolosi come slogan, con l'assurdità della sua morte disumana e traditrice, dopo una vita spesa a rivendicare l'umanità delle sue scelte. Meno rispetto per il coro conformista e continuista e politicamente corretto. Ma il segno della croce, in mancanza d'altro, uno lo fa quando passa il feretro, il corteo funebre vive la vita che gli pare.