La leadership divisa
Il vero guaio della Libia è la guerra culturale tra Obama e i suoi generali
Quando un ufficiale del Pentagono dice che il rapporto fra la Casa Bianca e i militari “è un casino” non è l'avvisaglia di un golpe armato, ma una constatazione dei fatti tradotta in un linguaggio finalmente comprensibile ai più. Il vecchio cronista David Wood dell'Huffington Post di affermazioni del genere ne colleziona a decine da ambo i lati della disputa e dall'inizio dell'“operazione militare cinetica” in Libia il linguaggio degli ufficiali si è fatto molto più colorito.
New York. Quando un ufficiale del Pentagono dice che il rapporto fra la Casa Bianca e i militari “è un casino” non è l'avvisaglia di un golpe armato, ma una constatazione dei fatti tradotta in un linguaggio finalmente comprensibile ai più. Il vecchio cronista David Wood dell'Huffington Post di affermazioni del genere ne colleziona a decine da ambo i lati della disputa e dall'inizio dell'“operazione militare cinetica” in Libia il linguaggio degli ufficiali si è fatto molto più colorito. Il Pentagono non voleva invischiarsi in questa guerra costosa ed eurocentrica: i militari sanno che cos'è la guerra e tendono a ficcarcisi soltanto se la si può vincere con costi umani ed economici proporzionati. Alle richieste del presidente americano, Barack Obama, di un “regime change a basso costo” – vero obiettivo della politica estera americana al di là dei belletti umanitari con cui l'Onu ha truccato l'iniziativa – i militari rispondevano che laggiù ci si impantana, che i ribelli sono parodie di guerriglieri e che il regime change a basso costo non esiste se non nelle voglie dei politici. Così, ieri, il segretario alla Difesa, Robert Gates, ha detto che gli Stati Uniti manderanno droni in Libia.
La guerra in Libia però non è la causa del dissapore fra le due sponde del Potomac, ma l'epifenomeno di una “guerra culturale” a Washington, uno scontro di Palazzo che Obama non è riuscito a scongiurare quando era il momento di fare le nomine e che ora a maggior ragione non è in grado di gestire. I ribelli in balia delle truppe di Gheddafi sono lo specchio tragico dello stallo politico di Washington, che in questa guerra c'è entrata con l'ingenuità di chi si siede al tavolo del black jack pensando di essere abbastanza freddo da alzarsi una volta che ha vinto un paio di mani. Come nella più trita delle trame, Washington ha passato la palla alla Nato, che però incarna in un unico corpo una malattia doppia: le aspre divisioni nei corridoi di Washington e l'europeismo che crolla quando c'è qualcosa di serio di cui occuparsi.
Quando il Pentagono è stato costretto all'azione dalla classe politica di Washington – incarnata nel caso specifico della Libia da Samantha Power, ex giornalista, attivista dei diritti umani e consigliere del presidente – i militari hanno spiegato in termini semplici come funzionano le cose: se proprio siamo costretti a spendere risorse e uomini in questa guerra, bisogna mettere i “boots on the ground”, gli anfibi a terra, e creare non solo a parole le condizioni per proteggere i civili e forzare Gheddafi a lasciare il paese, hanno detto. Figurarsi. Per la Casa Bianca di Obama, una riedizione dell'Iraq o dell'Afghanistan è il peggiore dei mondi possibili e quindi si è deciso per un esercizio di “soft power”, che con il passare delle settimane è diventato soltanto “soft” perdendo per strada il “power”. Sono state inviate clandestinamente truppe speciali della Cia – guidata da civili – che peraltro avevano già una certa confidenza con il suolo libico, come ha spiegato qualche tempo fa l'editorialista del Washington Post David Ignatius, ma lo sforzo è finito lì. Aggravando ulteriormente lo scontro a Washington fra civili che difendono l'operato americano e militari che dicono “l'avevamo detto”.
Obama, però, dice di avere un piano per sanare la ferita ancestrale fra i due mondi, e questo piano si chiama rimpasto. Le voci che girano da tempo sulla nomina dell'attuale capo della Cia, Leon Panetta, al Pentagono si stanno facendo molto concrete; lo stesso vale per le voci analoghe su David Petraeus, che dalle Forze armate in Afghanistan potrebbe passare all'Agenzia di Langley. Panetta e Petraeus incarnano lo spirito dei loro rispettivi ambiti: uno è l'anima civile, l'altro quella militare; uno si affida alla guerra dall'alto e ai blitz mirati e segreti, l'altro ha teorizzato la convivenza stretta fra truppe e popolazione locale come unica via per vincere la guerra. Uno scambio di ruoli sarebbe la prova evidente che lo scontro sta logorando Obama a tal punto da costringerlo ad affidarsi all'arte ambigua del rimpasto.


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