Maroni e i cocomeri padani

Claudio Cerasa

Gianni Zuppiroli è un vivacissimo sessantenne con gli occhi svegli, con lo sguardo furbo, con i capelli corti, con un faccione molto simpatico e con una bella storia alle spalle che riassume meglio di ogni retroscena giornalistico uno strano fenomeno che da qualche mese appassiona il curioso mondo della politica bolognese e che da un po' di tempo a questa parte sembra essere diventato uno dei termometri migliori per studiare la particolare trasformazione, la significativa evoluzione e la curiosa mutazione del partito più anziano della Seconda Repubblica: la Lega Nord.

    Gianni Zuppiroli è un vivacissimo sessantenne con gli occhi svegli, con lo sguardo furbo, con i capelli corti, con un faccione molto simpatico e con una bella storia alle spalle che riassume meglio di ogni retroscena giornalistico uno strano fenomeno che da qualche mese appassiona il curioso mondo della politica bolognese e che da un po' di tempo a questa parte sembra essere diventato uno dei termometri migliori per studiare la particolare trasformazione, la significativa evoluzione e la curiosa mutazione del partito più anziano della Seconda Repubblica: la Lega Nord. Sì, certo, si è già scritto un mare di volte come il fiume verde del Carroccio sia riuscito a superare i limiti del così detto regno padano arrivando persino a sfiorare anche quel gran bel pezzo dell'Emilia che si trova ben al di sotto dei confini del fiume Po. Ma il fenomeno che proveremo a sviscerare tra le righe di questa pagina, anche grazie all'esempio del nostro Zuppiroli, fa parte di un nuovo rivoluzionario processo politico che mai nessuno avrebbe immaginato di vedere germogliare proprio nel cuore sacro dell'Emilia rossa: in quella Bologna dove tra un mese esatto gli elettori saranno chiamati nuovamente a scegliere l'uomo giusto a cui offrire la guida della città e in cui, accanto a un tradizionale discendente della tradizione comunista (Virginio Merola, 56 anni, ex assessore della giunta Cofferati, distintosi finora in campagna elettorale per essersi augurato un pronto ritorno in serie A della squadra di calcio della città che disgraziatamente per lui, però, in serie A ci gioca in realtà da un paio d'anni), i bolognesi avranno per la prima volta la possibilità di votare per un candidato che non ha difficoltà ad ammettere di essere, più che un figlio dei fiori, un figlio della generazione dei “cocomeri”: i rossi dentro e verdi fuori.

    Gianni Zuppiroli lo incontriamo alle 12.30
    di una bella mattinata bolognese al civico numero ventitré di via Ferrarese, a tre minuti di macchina da piazza dell'Unità, a pochi passi di via Stalingrado, in uno dei quartieri il cui nome rappresenta da circa vent'anni il simbolo di un momento particolare della storia più recente della sinistra italiana. Do you remember la Bolognina?
    “Ecco, sì – dice Gianni allungando l'indice della mano destra verso una stradina che si intravede appena dietro un massiccio comprensorio di case popolari – c'ero anche io quel giorno quando arrivò Achille Occhetto, con la sua famosa grisaglia a righe, a spiegare a noi compagni le ragioni che avrebbero portato allo scioglimento improvviso del Partito comunista italiano”.
    Era il 12 novembre del 1989, il muro di Berlino era stato buttato giù da appena tre giorni, Occhetto fece un lungo discorso nella famosa sezione della Bolognina, diede il via al famoso “nuovo corso” del Partito comunista più grande dell'occidente e trasformò così il quartiere più popoloso di Bologna nel vero simbolo della prima grande “svolta” della sinistra italiana. “Ero comunista – insiste Gianni – e anche se non ho mai accettato la scelta di abbandonare la falce e il martello ho sempre votato a sinistra e non mi sono mai, e dico mai, sentito di destra. Ma negli ultimi tempi, beh, confesso di essermi ritrovato in una situazione difficile da decifrare. Avevo delle idee chiare di sinistra ma in giro per l'Italia, e soprattutto in giro per la mia città, non trovavo nessuno che riuscisse a soddisfarle. Oggi però, per me, quel qualcuno c'è e si chiama Lega”.

    L'uomo simbolo della Lega che galoppa sotto le due Torri bolognesi, e che in vista delle prossime elezioni comunali (15 e 16 maggio) cercherà di costringere al ballottaggio la fragile corazzata del centrosinistra (notevolmente indebolita negli ultimi mesi da incredibili capitomboli giudiziari e da surreali gaffe politiche), si chiama Manes Bernardini: ha 38 anni, fa l'avvocato, è figlio di un ferroviere (comunista) e di un'operaia (anch'essa comunista), è sposato con una bella meridionale, è stato il primo leghista a essere eletto in Consiglio comunale a Bologna, è stato il primo bolognese leghista a essere eletto in Consiglio regionale, dice di ispirarsi sinceramente al sindaco di Verona Flavio Tosi, dice di stimare molto il governatore emiliano Vasco Errani (del Pd), dice di considerare la Lega nel sud dell'Emilia la vera erede del vecchio Pci e, pur essendo come tutti i leghisti visceralmente legato al vecchio saggio leader Umberto Bossi, non ha difficoltà a riconoscere di essere particolarmente vicino a Roberto Maroni. Un'amicizia, quella con il ministro dell'Interno, che nasce anni fa a Porretta Terme, un comune di 4.850 abitanti a pochi chilometri da Bologna, in cui Bernardini è stato consigliere comunale per undici anni e in cui Maroni – oltre ad aver partecipato con la sua band Distretto 51 a molte delle ultime edizioni del famoso Festival blues della città (il ministro suona la testiera e pare non sia niente male) – è stato consigliere comunale dal 2009 (quando cioè era già ministro) fino al luglio del 2010 (quando per mancanza di tempo fu costretto a rinunciare all'incarico). E fu proprio in quei mesi, ben prima cioè che l'ascesa della Lega in Emilia convincesse il malandato Pdl regionale a convergere sul candidato del Carroccio per provare a conquistare il comune di Bologna, che Maroni disse su Bernardini una frase che non è sfuggita ai più attenti tra gli osservatori di cose leghiste. “Manes è il giovane numero uno della Lega, è un politico dal grande futuro e mi sento di scommettere molto su di lui”.

    “Ecco, vedete – ci dice il deputato bolognese del Pdl Giuliano Cazzola mentre sorseggia una spremuta d'arancia in un grazioso bar di fronte all'ingresso di Palazzo d'Accursio, sede del comune di Bologna – io credo che studiare la nostra campagna elettorale possa essere un modo utile per capire quali sono i due principali mondi che coesistono, e in parte lottano tra di loro, all'interno della Lega di Umberto Bossi. E vedrete che è sufficiente passare qualche ora con il gruppo di persone che ruota attorno al candidato del centrodestra qui a Bologna per rendersi conto che in Italia sta nascendo una nuova generazione di leghisti, ben diversa da quella descamisada dei Borghezio, che in Emilia sta prendendo piede e che credo si senta davvero molto più vicina al linguaggio e allo stile usato da Maroni che a quello usato dai Calderoli e dalle Rosy Mauro”.

    Il ragionamento di Cazzola si lega a un fenomeno che da qualche anno a questa parte vive sotto traccia nel variopinto universo politico della Lega di Bossi. Un fenomeno che ha permesso a una certa parte della Lega di essere a poco a poco identificata non più come la semplice espressione di un folcloristico, spregiudicato e disinibito movimento politico legato principalmente alla rielaborazione delle famose “istanze territoriali” ma come l'esempio concreto di una nuova classe dirigente capace di andare a solleticare le simpatie di una fetta trasversale dell'elettorato sia di destra sia, lentamente, anche di sinistra. Una classe dirigente, questa, simbolo esplicito della significativa irruzione nel mondo della politica di quei quarantenni padani cresciuti nella scuola di Bossi ma formatisi con caratteristiche assai diverse rispetto alla generazione precedente. Una generazione meno ruspante, meno scomposta, meno folcoristica, forse, ma sicuramente più colta, più educata, persino più laureata e più incline naturalmente a ragionare, anche per questioni d'età, a un domani in cui la Lega si troverà senza il suo leader di riferimento. Gente come Roberto Maroni, come Flavio Tosi, come Giancarlo Giorgetti (potente deputato della Lega cugino del presidente della Banca popolare di Milano Massimo Ponzellini), come Dario Galli (presidente della provincia di Varese), come Gianni Fava (candidato sindaco di Mantova), come Davide Boni (presidente del Consiglio regionale della Lega) e come, appunto, Manes Bernardini. Gente che in Emilia, per capirci, sembra trovare a poco a poco un insospettabile terreno fertile. E il fatto che nel giro di dieci anni, proprio in queste terre da sempre rosse, la Lega sia passata dal 2,5 raccolto alle elezioni del 2001 al 15 per cento ottenuto nel 2010; il fatto che sia arrivata sopra il 20 per cento in una ottantina di comuni della regione; il fatto che sia diventata il primo partito persino nella città di Pier Luigi Bersani (Bettola); il fatto che abbia un suo candidato sindaco con buone probabilità di vittoria in almeno undici comuni (tra cui il paese di Gianni Morandi, Monghidoro, e il paese di Vasco Rossi, Zocca); e il fatto che rischi di diventare, alla fine di questa tornata elettorale, il secondo partito più grande della città più rossa d'Italia, beh, segnala, evidentemente, la presenza di un fenomeno che forse vale davvero la pena di continuare a sviscerare.

    “Io – insiste Gianni,
    che oggi guida un comitato cittadino alla Bolognina e che fino a cinque anni fa era un dipendente della filiale bolognese della General Electrcis – non credo sia un caso che la Lega che potrebbe rosicchiare sempre più voti alla sinistra sia quella più moderna che si presenta con il faccione di Maroni. Non so come dire: ma è come se da queste parti, all'improvviso, molti elettori si fossero rotti le scatole di votare assecondando il classico schema mentale ‘sinistra contro destra' e si fossero decisi a votare semplicemente per il partito più vicino a loro. E spiace dirlo, perché io ancora mi sento sinceramente un po' comunista, ma quel partito oggi, almeno per me, a sinistra non esiste più”.

    Il tema delle due grandi leghe, “delle due parrocchie” come suggerisce ancora Cazzola, che si confrontano in modo vivace, e a volte persino conflittuale, all'interno del partito di Bossi ha iniziato ad avere un certo appeal tra gli osservatori di cose politiche in un momento preciso della storia recente del Carroccio. Quando cioè per la prima volta i due eserciti leghisti si sono messi l'uno di fronte all'altro. La storia in questione si svolge a pochi chilometri da Bologna, nel Veneto di Luca Zaia e di Flavio Tosi, in quella regione dove ormai da mesi le due anime leghiste hanno cominciato a disporsi silenziosamente sul campo per prepararsi ad affrontare due guerre più che significative: la prima sarà quella che verrà combattuta il prossimo 29 maggio a Verona, quando il congresso provinciale della Lega vedrà per la prima volta sfidarsi un candidato intrinsecamente maroniano, come Matteo Bragantini, e uno profondamente bossiano, come Alessandro Montagnoli; la seconda sarà quella che verrà registrata intorno alla metà di settembre, quando in Veneto il sindaco maroniano della Lega, Flavio Tosi, sfiderà l'ultra ultra ultra bossiano Giampaolo Gobbo per provare a conquistare la poltrona di segretario regionale della Lega. E in questo senso non si può certo dire sia un caso se il candidato sindaco di Bologna, oltre a sentirsi un maroniano de fero, dica apertamente di ispirarsi proprio al modello veronese.

    “Non ho problemi ad ammettere – dice al Foglio Bernardini – che qui a Bologna la Lega si ispira direttamente all'esperienza di successo, e trasversale, del sindaco Tosi e se c'è davvero un ideale che sento di voler rappresentare in questa campagna elettorale è dimostrare a tutti che uno dei grandi meriti della Lega è stato quello di aver prodotto in questi anni una serie di politici innovativi il cui tratto distintivo è, prima di ogni altra cosa, quello di essere riconosciuti semplicemente come molto affidabili”.
    Manes Bernardini lo incontriamo alle 16.30 di sabato sedici aprile di fronte alla facciata della basilica di San Petronio proprio in compagnia di quel Flavio Tosi con cui il candidato sindaco di Bologna, passeggiando tra le botteghe del centro della città, ha aperto la scorsa settimana la sua campagna elettorale. Bernardini ha la faccia asciutta, i capelli ricci brizzolati, la barba appena tagliata, una sciarpetta di seta attorcigliata al collo a mo' di cravatta, un paio di jeans scoloriti con il cavallo alto, un pacco d'adesivi verdi custoditi in una cartellina gialla tenuta sotto il braccio e un foglietto con alcuni sondaggi appena pubblicati dai principali giornali locali. Sondaggi che restano sondaggi, certo, ma che restano comunque sondaggi da urlo: con il Pd primo partito che oscilla tra il 35 e il 38 per cento, con la Lega secondo partito che viaggia tra il 15 e il 16 per cento, con il centrosinistra che non supererebbe il 48 per cento al primo turno, con Bernardini che avrebbe chance di arrivare al ballottaggio e con un livello di insofferenza generale per lo status quo esistente testimoniato, oltre che da una recente e discussissima inchiesta di Report sulla “città dei rancori”, anche da un altro dato che potrebbe diventare, a Bologna ma non solo qui, un elemento di interesse per le prossime comunali. Il dato riguarda il candidato delle così detta lista Grillo (Massimo Bugani) che secondo una rilevazione della Swg sembra che valga qualcosa come il dodici per cento: più o meno quanto il Terzo polo di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini rappresentato a Bologna da Stefano Aldrovandi. “Mo' mi chiedo io – dice Cazzola tradendo il suo vecchio e leggero accento bolognese – se la sinistra si renda conto che affidare il destino della città a un candidato che ha già perso le primarie nel 2005 contro Cofferati, e che a stento si ricorda se il Bologna gioca in serie A, è davvero un mezzo suicidio politico. Sinceramente non so se il centrodestra riuscirà a battere il centrosinistra nella nostra città ma dall'altra parte so invece che se nel suo fortino storico il Pd non dimostrerà di avere la forza per schiacciare il suo avversario – in un momento in cui ogni giorno urla ‘aiuto c'è il tiranno, aiuto c'è l'emergenza democratica' – rischia davvero di fare una bella figuraccia”.

    Che la Lega riesca a ripetere il miracolo compiuto dodici anni fa dall'ex sindaco Giorgio Guazzaloca, che nel 1999 si candidò portando per la prima volta dal Dopoguerra una coalizione di centrodestra alla guida della città, a Bologna nessuno ci crede davvero. I sondaggi sono buoni, sono migliori di ogni aspettativa, continuano a crescere di giorno in giorno, gli elettori sembrano incuriositi dalla presenza di un candidato giovane come Bernardini, ma da qui a sconfiggere il centrosinistra nessuno si sentirebbe realisticamente di scommetere un penny. “Noi ci proveremo, siamo convinti di poter vincere, sappiamo di avere buone possibilità, sogniamo di ripetere a Bologna il miracolo di Torino ma già oggi siamo consapevoli del fatto che i due obiettivi che non possiamo mancare di certo sono quelli di far diventare la Lega il secondo partito della città e quello di conquistare alcune zone simbolo della nostra città”.

    Una delle “zone simbolo” di cui parla
    in questo virgolettato la giovane Lucia Bergonzoni – trentenne leghista capogruppo del Carroccio al Consiglio provinciale di Bologna, capo dei giovani leghisti della città, sguardo vispo, occhi chiari, capelli rossi e lunghe unghie smaltate di verde – è proprio quella che si trova a pochi chilometri a nord della Stazione centrale, a pochi passi da quella vecchia sezione del Pci di via Tibaldi 17 in cui Achille Occhetto, anni fa, annunciò la famosa svolta della Bolognina. Ed è proprio qui, nel cuore della vecchia cintura rossa bolognese, tra centinaia di fitti casermoni popolari, decine di scheletrici filari di fabbriche abbandonate, e in mezzo a quei lunghi stradoni dai nomi nostalgici à la via Stalingrado, che la Lega di Bossi ma soprattutto quella di Maroni sogna di realizzare l'impossibile: conquistare il più alto numero possibile di elettori come Gianni Zuppiroli, battere la sinistra nel suo storico quartiere, fare la sua svolta della Bolognina e trasformare così, davvero, uno dei vecchi simboli del modello emiliano nell'ultimo avamposto del grande esercito dei cocomeri italiani.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.