Quando la sinistra usava l'articolo 1 per preparare la rivoluzione
Si discute in questi giorni sulla proposta dell'onorevole del Pdl, Remigio Ceroni, di cambiare il testo dell'articolo 1 della Carta. Il nuovo testo dovrebbe specificare meglio che la sorgente del potere di fare le leggi è nelle Camere. Durante l'Assemblea Costituente l'articolo 1 della Carta fu oggetto di polemiche e dibattiti, e la versione finale fu voluta proprio dal Pci per caldeggiare l'ipotesi di una rivoluzione proletaria.
Si discute in questi giorni sulla proposta dell'onorevole del Pdl, Remigio Ceroni, di cambiare il testo dell'articolo 1 della Carta. Salvando il valore simbolico di una “Repubblica fondata sul lavoro” e di una sovranità che “appartiene al popolo, il quale la esercita nei limiti e nelle forme della Costituzione” (attuale articolo 1), il nuovo testo dovrebbe specificare meglio che la sorgente del potere di fare le leggi è nelle Camere. Ma durante l'Assemblea Costituente l'articolo 1 della Carta fu oggetto di polemiche e dibattiti, e la versione finale fu voluta proprio dal Pci per caldeggiare l'ipotesi di una rivoluzione proletaria.
Nell'anno e mezzo che trascorse, nelle 1090 discussioni, nelle 347 sedute che ci vollero per passare dall'apertura dei dibattiti in Assemblea Costituente all'approvazione definitiva della Costituzione italiana, il Pci portò avanti un'unica, coerente e potentissima idea: noi parlamentari siamo qui riuniti in quanto espressione della volontà del popolo, e la Costituzione con i suoi articoli dovrà essere solo e sempre emanazione di questa inscindibile volontà.
Questa posizione di fondo apparentemente scontata, questo principio cardine su cui si fondarono tutte le proposte e le obiezioni dei costituenti comunisti, ebbe degli effetti precisi, a prima vista paradossali, in realtà deducibili: il Pci fu il partito meno garantista di tutti, e la sua attività, quella di uno schieramento di minoranza ma in ascesa che aveva ottenuto alle elezioni il 19 per cento, si concretò nell'opporsi al modello costituzionale, per i comunisti macchinoso, promosso in particolare dalla Democrazia Cristiana. Ciò che contestava il Pci nelle proposte della Dc, ma anche dei Repubblicani e dei Liberali, non era la necessità, l'esigenza (sentita profondamente e condivisa dall'intera Assemblea Costituente) di scongiurare il ritorno al fascismo o l'arrivo di un nuovo regime autoritario. L'obiettivo era comune, ed era quello di approvare un testo che fosse democratico nell'essenza e stabile nei suoi equilibri istituzionali. Il punto, centrale, di contrasto era invece relativo alla maniera di garantire tale democraticità del sistema. Per il Pci le “garanzie costituzionali” nel senso tecnico e giuridico del termine non potevano, e mai avrebbero dovuto, essere interpretate quale unico strumento di democrazia. Non era l'ingegneria costituzionale la Democrazia, ma il popolo, quel popolo presente in Parlamento per mezzo dei suoi rappresentanti.
E' a causa di visioni interpretative e ideologiche così diverse che il dibattito fu durissimo ogni volta che si trattò in Sottocommissione e in Assemblea plenaria dell'ordinamento dello stato e delle sue istituzioni. Perfetto o imperfetto che fosse, con un Senato che rappresentasse le regioni, che seguisse invece il modello anglosassone della Camera dei Lord o un criterio corporativistico secondo l'idea della Dc, il Pci il bicameralismo non lo voleva. La questione era semplice, e sempre la stessa: la volontà del popolo è una, che farsene di una seconda camera? Non solo si sarebbe reso ridondante un procedimento legislativo, dicevano i comunisti, finendo per rallentare inutilmente il processo decisionale, ma soprattutto anche la minima possibilità che due camere potessero pronunciarsi in maniera divergente, avrebbe contraddetto l'essenza stessa della volontà popolare. I comunisti credevano insomma che ci fosse il rischio che si creassero, in nome di garanzie democratiche e per mezzo di giuridici intrecci di contropoteri su contropoteri, organi lontani dal popolo, autonomi ed autoreferenziali. Quindi, nella loro idea, antidemocratici.
La stessa critica fu ancora più netta quando si arrivò a parlare di un tema cruciale e critico: la Magistratura. Il Pci, e con lui anche il Psiup, non mise mai in discussione la necessaria autonomia del Terzo Potere, ma l'assoluto autogoverno sì, e in maniera inequivocabile. Il problema era in un certo senso lo stesso della creazione del parlamento bicamerale, accentuato però dalla complessità del tema giudiziario. “Onorevoli colleghi” sottolineava l'On. Vinciguerra (Psiup), “un potere giudiziario che sia casta è non meno pericoloso di un potere giudiziario che sia prono, asservito al potere esecutivo”.
Inoltre, ammonivano alcuni esponenti del partito, parlare di ingerenza del potere politico nel momento in cui alcuni membri degli organi superiori della Magistratura sono eletti dal Parlamento e non solo dai magistrati è scorretto e eticamente sbagliato, perché, come spiegò l'On. Carboni (PSIUP), “l'Assemblea Nazionale (le due camere in seduta comune, n.d.r.) sarà l'espressione sintetica della vita politica del paese”.
In merito poi all'idea di creare una Corte Costituzionale, l'11 marzo del 1947 Togliatti si pronunciò definendola una “bizzarria”, parlandone come di un “organo che non si sa che cosa sia” e senza capire come si potesse ipotizzarne una composizione senza interpellare il popolo.
In quello stesso intervento Togliatti espresse una sua convinzione, comune in Assemblea a tutti gli esponenti del Pci: le garanzie e controgaranzie costituzionali elaborate erano semplicemente “ispirate dal timore”, timore che vi potesse essere un giorno “una maggioranza espressione libera e diretta delle classi lavoratrici”; e che per questa eventualità si volessero “prendere garanzie e mettere delle remore, da cui la pesantezza e lentezza nell'elaborazione legislativa, e tutto il resto.”
In altre parole, il Pci con l'espressione "in nome del popolo" voleva due cose. Una Costituzione che non in una maniera artificiosamente giuridica, ma nell'essenza, rappresentasse la volontà popolare senza mai chiudersi in se stessa. E soprattutto, il mantenimento di uno spiraglio (non esplicitabile ma evidente) affinché la rivoluzione proletaria, il popolo nell'espressione più diretta, potesse in ogni caso, eventualmente, imboccare una preferibile e risolutiva via extraparlamentare.


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