Elogio del mangiagol

Beppe Di Corrado

Lui è questo: “Vabbè dai Robinho, capita di sbagliare un gol che avrei fatto pure io con 12 cm di tacco con una palla da basket forata sotto”. Lui è queste ventiquattro parole scritte da un tifoso milanista su Facebook. Robinho è semplicemente un mangiagol. Sbaglia quello che gli altri non sbagliano. Solo davanti al portiere o a porta vuota: fuori, alto, palo, parata. Non hai certezze perché le possibilità d'errore sono praticamente infinite. Binho ne ha provate molte.

    Lui è questo: “Vabbè dai Robinho, capita di sbagliare un gol che avrei fatto pure io con 12 cm di tacco con una palla da basket forata sotto”. Lui è queste ventiquattro parole scritte da un tifoso milanista su Facebook. Robinho è semplicemente un mangiagol. Sbaglia quello che gli altri non sbagliano. Solo davanti al portiere o a porta vuota: fuori, alto, palo, parata. Non hai certezze perché le possibilità d'errore sono praticamente infinite. Binho ne ha provate molte. Sa che cosa significa buttarla fuori dalla riga di porta. Lo sa perché gli è successo quando giocava nel San Paolo: lui appollaiato sul palo destro, la palla che arriva un po' veloce, lui che deve soltanto appoggiare, allora mette il sinistro, la tocca e riesce a mandarla a lato. Sette metri e trentadue centimetri alla sua destra e un centimetro alla sua sinistra, ecco lui la mette là, dove sarebbe impossibile per la fisica, oltre che per il buonsenso calcistico. Capita, sì. Capita a lui ed altri.

    Perché sbagliare i gol accomuna giocatori del passato e di oggi, professionisti e dilettanti. Mangiagol, eccoli. Una parola per tutti. Fanno tutto bene, hanno tempi giusti, modi giusti, tecnica giusta, la preparazione giusta, poi si sfaldano in un momento. E' la loro dannazione: non segnano. Hanno il mondo davanti e sprofondano in un buco nero. Prendono il carico di sicurezze e le disperdono tutte: più sbagliano, più la valigia con le aspettative degli altri su di loro diventa pesante. Allora arriva l'altra partita, arriva l'altra occasione, lui e il portiere, uno contro l'altro, lui e la porta, lui e il pallone, lui e le sue deboli certezze: palo. E' un tormento che non s'attenua neanche con i numeri. Perché il mangiagol a volte segna, solo che succede con un tiro difficile, non con il tocco da due metri. Robinho ne ha fatti undici, quest'anno: quanti Gilardino, più di Borriello, Caracciolo, Hamsik, Pastore, Pellissier, Crespo, Hernanes, Vucinic. Molti di questi sono considerati bomber, Binho no. Non può farci più nulla, non può neanche dimostrare che non è vero: non vale neanche il calcolo di quanti gol ha fatto in rapporto ai minuti giocati. Al mangiagol non si concedono neppure le attenuanti generiche. E' il pregiudizio che cancella ogni giudizio, è la preclusione che impedisce ogni ragionamento. Robinho sbaglia, punto. Una sentenza che è definitiva prima di cominciare.

    Lui sa anche questo, adesso lo sa il Milan, lo sanno tutti. Solo che questo è il suo campionato. Perché lo vincerà lui, per capacità o per mancanza di alternative: senza Inzaghi praticamente per tutto il torneo, senza Pato infortunato, con altre due giornate di squalifica a Ibrahimovic, Binho e poi Cassano saranno le facce delle ultime giornate della serie A del Milan. Due che preferiscono passarla, invece che calciare, due che si sentono più a loro agio a far segnare gli altri, invece che a sentire l'abbraccio del resto della squadra dopo un gol, due che per la critica sono spesso poco decisivi e troppo spesso evanescenti. Ecco, lasciate stare la critica, perché se gli esperti dicono le stesse parole dei tifosi sono zero. Di Robinho i giornaloni hanno preso la parte più scontata e facile: “E' un brasiliano innamorato del pallone, bravo, ma poco decisivo”. Banali. Scontati. Superficiali. Comunque pronti a saltare sul carro adesso. Alla fine Binho sarà l'uomo scudetto più di Ibrahimovic. Perché inatteso, perché in queste ultime cinque giornate racconterà la sua storia di gol sbagliati e magari fatti, di giocate da divertimento, di allegria, di serenità.

    Volete una faccia da appiccicare a questa stagione? Prendete la sua. I gruppi di Facebook e i video su Youtube continueranno: arriveranno commenti, insulti, cattiverie, altre banalità – identiche a quelle dei critici da bancarella a poco prezzo. Tutta scena e tutto contribuisce ad alimentare il mito negativo dei suoi errori. Però il Mangiagol serve: è l'arma con cui scopri che le difese avversarie possono essere scoperte Anche se poi sbaglia. Pazienza. E' il giocatore meno temuto dagli altri, quindi poi gli arriva la palla e può persino capitargli di metterla dentro. E' il collante del fischio quando divora un'occasione, lasciando gli altri liberi di sentirsi migliori.

    La psicologia del pallone ha sempre avuto bisogno di giocatori così: parafulmini dell'insulto collettivo al punto da far giocare meglio i loro compagni. Binho sorride anche quando sbaglia e a casa un tifoso rossonero gli ha appena scagliato addosso una pantofola durante il primo piano post gol mangiato. Con lui è così: ti viene voglia di detestarlo, ma poi non riesci a odiarlo. Perché è un bel tipo e perché è fondamentale. Questa è la chiave di tutto. Robinho è arrivato a Milano quasi come ripiego, considerato da molti, forse da troppi, una specie di consolazione preventiva in caso di mancato arrivo di Ibrahimovic. Invece ha fatto 29 presenze in campionato, una più di Ibra. Allegri lo adora, Adriano Galliani lo considera essenziale. Subito dopo la vittoria di Catania, l'amministratore delegato rossonero, ha parlato così: “Si integra alla perfezione con Ibrahimovic. Tutti hanno celebrato Zlatan per il successo di sabato ma Robinho ha ribattuto in rete la punizione di Ibrahimovic e gli ha servito l'assist del 2-0. Se è qui dobbiamo ringraziare il presidente Berlusconi: alle 5 del pomeriggio del 31 agosto Borriello era ancora del Milan non avendo accettato il trasferimento alla Juve. Ma il presidente mi disse di prendere ugualmente Robinho. Nel giro di due ore venne perfezionata la cessione alla Roma di Marco e poi siglato l'acquisto di Robinho”.
    Cioè di mister scudetto. Perché ci sarà sabato col Brescia e ci sarà nelle altre partite. Utile nonostante il gol sbagliato che arriverà.

    Piccolo o grande che sia, sarà un errore: apparentemente inspiegabile, superficialmente incredibile. Sarà ancora il tempo  ritornelli: il campione che non riesce a essere freddo sotto porta, il fenomeno a metà. Ovvietà su ovvietà, compresa la frase più abusata con tutti i mangiagol: “Se segnasse di più sarebbe il numero uno”. Nessuno a fermarsi sul fatto che se segnasse di più non sarebbe lui. Sarebbe Inzaghi, magari. Cioè il suo contrario. Perché Robinho e Pippo sono complementari, sono due pezzettini di un puzzle: Inzaghi è il gol, Binho è il suo contrario. Li lega il fatto di non essere di quella categoria che unisce lo stile, la bellezza, la classe, la freddezza, la lucidità.

    Quelli alla Messi, alla Ibrahimovic, alla Cristiano Ronaldo, alla Totti. No, a Robinho e a Pippo manca una parte, che poi è quella che domina nell'altro: “Un gol alla Inzaghi”, dicono. Cioè facile, cioè semplice, cioè di culo, cioè un rimpallo, cioè un fuorigioco non visto. Cioè la goduria. Che qualunque cosa accada Filippo ci mette il piede o il labbro di tanto così, appena il giusto che cambia la traiettoria. E' bello per questo, lui: decisivo senza bisogno della giocata, fondamentale nonostante la goffaggine di alcuni gol e quell'esultanza da scalmanato anche se segna il quattro a zero. La verità è che tutti nella vita avrebbero desiderato una volta di essere un Pippo: sentire che ci sei comunque, sapere che tutti intorno a te ti considerano quello che prima o poi la butta dentro. E' un peso. Però leggero. Perché poi succede sempre e allora al diavolo le aspettative eccessive. Un gol ogni cento minuti. Di Pippo non ti ricordi mai se gioca bene o gioca male. Solo se segna o non segna. Il resto è irrilevante, inutile, trascurabile. Qual è l'obiettivo? Quello. Dentro. Come? Va bene tutto. Qui si gioca per segnare, non per vincere. Quello è solo un dettaglio, viene dopo, viene col resto. Fare gol: non c'è altro. Sempre e comunque. E se gli altri ne fanno uno in più, allora sono più bravi. Pazienza, quasi. Pippo è centravanti. E' goleador. Opportunista, si diceva una volta. Poi ha cominciato a non stare più bene, a diventare un po' dispregiativo. Tolta la categoria, non i componenti. Pippo non s'offende. Per quelli come lui non conta mai il modo. Non ci sono compagni affidabili, allenatori bravi, difensori scarsi. Non regge nulla, anzi non serve proprio. Lui ha il gol e questo basta. E' l'altra metà di Binho, ma non hanno potuto giocare molto insieme. E' rimasto il brasiliano per prendersi quello che per molti avrebbe dovuto essere di altri: cioè di Ibrahimovic e di Pato. Perché loro sono considerati fenomeni, mentre lui no. Eppure la differenza numerica è di tre gol. Quattordici a testa loro, undici lui.

    Robinho è il nuovo Stefano Chiodi. Mangiagol entrambi, vincenti entrambi. Chiodi fu acquistato nel '78-'79: al Bologna andarono il cartellino di Francesco Vincenzi e un conguaglio di un miliardo di lire. Chiodi cominciò a essere preso di mira: sbagliava tanto, sbagliava troppo. Il Milan giocava, però. Il Milan vinceva. Arrivò in fondo, si mise lo Scudetto sulla maglia, il decimo, la stella. Quello fu l'ultimo successo dell'era pre Berlusconi. Fu lo scudetto di Chiodi, checché ne pensino i puristi del pallone. Sette gol appena, sei su azione e uno su rigore. Eppure fondamentale: creava gli spazi, faceva salire i compagni, sbagliava sì, ma nessuno ha mai quantificato quanti gol abbia fatto fare al resto della squadra.

    Il destino del mangiagol è questo: l'oblio negativo, l'essere ricordato sempre e solo per gli errori e non per le capacità. Binho accetta, l'ha sempre fatto. Accadeva anche al Real Madrid e al Manchester City. Perché lui è uno di quelli che negli ultimi anni ha girato: è stato nei Galacticos, è stato la prima stella comprata dallo sceicco dei Citizen. In Inghilterra è arrivato nel 2008, quando tutti i giornali cominciavano a parlare della svolta del ManC. Tutti a raccontare dell'emiro Mansour bin Zayed Al Nahyano e della sua squadra dei sogni. Un album delle figurine con una x su ogni nome: Buffon, Cannavaro, Chiellini, De Rossi, Ronaldinho, Cristiano Ronaldo, Tevez, Drogba, Kaká, Eto'o. I campioni più o meno sondati, proposti, cercati o immaginati sono a lungo rimasti utopie mediatiche. Allora Binho è stato considerato quasi un campione di risulta, un fenomeno di scarto, il prodotto di macerie di carriere di lusso diventate normali. La formazione dei sogni è stata un'invenzione certa sui titoli dei tabloid e millantata nella realtà. Quanto valeva una bufala? Euro e sterline andavano e venivano: settanta, ottanta, centootto. Manchester era la casa di tutti, il City è il club del vanto dei signori di Abu Dhabi affamati di pallone e di notorietà. Ha funzionato perché qualcuno aveva deciso di abboccare sempre.

    La fiera si fa con un'idea, d'altronde: se uno era teoricamente in vendita, il Manchester City lo prendeva. Perché i soldi c'erano (e ci sono), lo stadio anche, la gente pure. Perché non buttarsi? Vero o non vero era il dettaglio finale, perché la comunicazione era partita, il giornale l'aveva scritto, il sito l'aveva ripreso, la tv l'aveva analizzato. Allora uno s'immagina che l'affare fosse fatto. Ecco, Robinho per due anni è stato quello che ha retto quest'illusione del nuovo Manchester City. L'unica stella era lui, gli altri erano avatar. Poi è arrivata quella storiaccia in cui hanno cercato di incastrarlo. Era gennaio 2009: “Robinho accusato di stupro”. Si diceva che una ragazza l'avesse accusato di molestie e violenza dopo una notte in un night di Leeds. “Tutto falso”, disse lui. Aveva ragione, ma il fango era già schizzato. D'altronde era il periodo in cui i tabloid più del solito erano a caccia di brutte storie di calciatori cattivi. C'era stato Steven Gerrard, capitano del Liverpool, coinvolto in una rissa fuori da un pub con strascico in tribunale. C'era Beckham appena diventato milanese che dominava sulle pagine del Times per un presunto pizzico sulle chiappe ricevuto da Seedorf. Ci voleva altro. Eccolo: Robinho, arrivato da poco e un po' instabile a causa delle perenni aspettative del quale l'avevano caricato. Lo presero di mira: lui e la sua vita privata sbattuti ovunque. L'ironia sul suo passaggio da 32,5 milioni di euro al City, sul suo stipendio da 640 mila euro puliti al mese.

    Il Corriere della Sera raccontò tutto il circo montato attorno alla presunta violenza: “Forse qualcosa era andato in cortocircuito nella testa del ragazzo che si è trovato a ricoprire la parte del salvatore della patria, ovvero dell'idolo degli orgogliosi supporter del Manchester City, discreta compagine e discreto palmares ma mortificati dal confronto con i rivali-cugini dello United (l'altra sponda), freschi campioni del mondo. Sembrava, in agosto, che fosse arrivato il miracoloso giro di boa. Lo sceicco e Robinho. Macché. Robinho si è immusonito con il City in deficit di classifica e ha puntato i piedi: portate qui il mio compagno di Nazionale Kaká. Si sa come è andata a finire. La sera in cui il fuoriclasse del Milan ha declinato per paura del flop, Robinho è scappato furibondo in Brasile. Salvo scusarsi e incassare una multa di 350 mila euro. Fine delle sceneggiate? Ieri è saltata fuori la nottata nel locale di Leeds”.

    Binho non poteva rimanere, non voleva rimanere. Il Milan ha fatto un affare, nonostante le chiacchiere da bar dei soloni che l'hanno accolto con lo scetticismo dei saputelli. Sbaglia i gol, sì. Resterà memorabile quello fallito ad Amsterdam in Champions. Solo davanti al portiere: avrebbe potuto aggirarlo, scavalcarlo, sfondarlo. No: colpo di biliardo, un po' maldestro. Fuori. Ti ricordi quello e non ti ricordi un suo gol: è il suo destino, forse anche il suo posto nel mondo. I mangiagol servono. I mangiagol vincono i campionati, anche se non fanno vincere le partite.