Donna delizia, Liala siamo noi

Annalena Benini

Ho avuto due diversi incontri, da lettrice e non da studiosa, con Liala. La prima volta fu verso la fine degli anni Ottanta, avevo tredici anni e un'amica di mia nonna le passava in blocco i Liala già letti, forse non proprio tutti gli ottantasette ma comunque qualche decina, copie che andavano restituite una alla volta durante le domeniche pomeriggio di scala quaranta, con occhiatine e sospiri fra mia nonna e le sue amiche.

    Ho avuto due diversi incontri, da lettrice e non da studiosa, con Liala. La prima volta fu verso la fine degli anni Ottanta, avevo tredici anni e un'amica di mia nonna le passava in blocco i Liala già letti, forse non proprio tutti gli ottantasette ma comunque qualche decina, copie che andavano restituite una alla volta durante le domeniche pomeriggio di scala quaranta, con occhiatine e sospiri fra mia nonna e le sue amiche. Non capivo il motivo di quei sospiri, non mi faceva struggere né il rombo degli aerei né la divisa da aviatore, e da adolescente con conformisti slanci anticonformistici, disprezzavo Liala di giorno e la divoravo di notte cercando i segreti di questa signora che consegna un giorno un libro ad Arnoldo Mondadori dicendogli: “L'ho scritto per non impazzire” (e lui le telegrafa venti giorni dopo la pubblicazione, sconvolto: “Il romanzo è esaurito”). Non credo di averci capito molto, oltre lo stupore ogni volta per quei nomi di uomini e donne che Liala prendeva dalle riviste di ippica (Beba, Coralla, Furio, Pervinca, Elma, Fanfan) e la percezione di un'ingiustizia profonda, insopportabile negli anni di “Who's that girl” con Madonna: gli aviatori potevano vivere tutte le avventure che volevano e potevano permettersi il divertimento prima e il disprezzo poi verso signorine generose come Frilly o Lery, le fanciulle dovevano conservarsi pure, bionde, accollate e con gli occhi bassi e fare persino attenzione alla moralità della propria madre. Una suprema fregatura.

    La storia del grande amore era appassionante e salvifica per i sogni spesso infranti delle lettrici, che grazie a Liala riuscivano a sopportare, astraendosene, mariti rozzi e poco eroici, ma raccontava che non sempre andava a finir bene: gli aviatori si schiantavano in volo, le fanciulle in principio devote anche, dopo aver vissuto un po' nel mondo e averne subito le lusinghe (e magari tradito il marito, incinta, con il suo migliore amico), le ragazze tentate da Hollywood finivano in fondo al lago, troppe colpe da espiare e troppo mal di cuore insomma, come in “Cime Tempestose”, con quel senso infinito di brughiera in cui gridare Heathcliff. Preferivo “Orgoglio e Pregiudizio” e “Il tempo delle mele”, e mi sembrava parecchio più saggia e moderna Colette, che più o meno negli stessi anni si esibiva a teatro nuda e ingioiellata (si sa che le francesi sono più avanti anche nelle voluttà, dev'essere per questo che non ingrassano), mentre Liala dopo la morte del suo bell'aviatore si chiuse nell'eremo dei bestseller e dei tailleur di lana a pied-de-poule. Sottovalutavo Liala e il melodramma: senza saper niente ero della corrente Camila Cederna, che la considerava “paraletteratura per manicure”, finché mi imbattei in un libretto di Aldo Busi che consiglio a tutti, “L'amore è una budella gentile”, con intervista a Liala in persona, nella sua villa di Varese, La cucciola. Intervista anticipata da questa frase di Stendhal, presa da “De l'Amour”: “Quel che fa giungere assai raramente le donne al sublime quando sono scrittrici, e dà grazia al loro biglietto più insignificante, è che non osano essere franche che a metà: esserlo completamente sarebbe come uscire senza cappellino”.

    Cominciavo a intuire qualcosa. Busi mandò rose e cioccolatini a Liala ormai ultranovantenne, le scrisse una lettera spiritosa (“crede davvero che alla Sua età si possa star peggio che alla mia? Suvvia, non continui a fare la ritrosa e si abbandoni allo spasso di conoscermi e di farsi conoscere! Sarà una ventata di freschezza per entrambi e io l'adorerò”) e Liala con civetteria accettò l'intervista che da decenni negava a tutti perché si sentiva schernita e incompresa. Le mancavano alcuni particolari della vita di Busi (o forse fingeva?), così durante tutto il tempo dell'intervista lo chiamò “bell'omone”, si stupì che non fosse sposato, civettò con lui, gli disse che aveva due gran belle spalle, “Oh come somiglia al mio pilota”, e lo mandò in confusione. Ero già pazza di lei, che diceva a Busi: “Se le bastano le mogli degli altri, almeno non le dovrà mai vedere in ciabatte e con i bigodini in testa, dottore, come i loro mariti”. Liala viveva con la cameriera Tilla e la figlia Primavera (l'altra figlia si chiama Serenella, due signore deliziose ed eleganti, che per tutto il tempo del convegno sono rimaste sedute in prima fila, attentissime, spesso scuotendo la testa e facendo precisazioni, soprattutto Primavera, ndr) devote da tutta la vita al culto di Liala. L'immagine di questo trio affabile e sfuggente era già un romanzo e Liala era spiritosissima, insolente, moralista soltanto per gioco e per letteratura: parlando di Italo Balbo, disse: “Gran bell'uomo non direi. Era, sì, uno che incuteva rispetto e reverenza, ma era bassettino, tracagnotto. Non so se era molto bravo nelle marce, so che ne fece una su Roma. Adesso che ci penso, faceva dei passettini così corti. Sapete, era basso di cavallo”.

    Quando Busi le chiese di Gabriele D'Annunzio, che coniò per lei il nome Liala (perché ci fosse sempre un'ala nel suo nome), rispose: “Da lui non ho preso niente, tranne che lui mi ha detto: ‘Mi raccomando! Imagine scrivetela sempre con una emme sola', e io scrivo imagine, imaginare, imaginifico, s'imagini lei, per quel che m'importa!”. Alla domanda: perché passo da Mondadori a Rizzoli, lei rispose: “Per soldi, perché sennò?”, e io decisi che dovevo assolutamente rileggere Liala (ripubblicata oggi da Sonzogno), a cui si rimproverava, oltre a niente femminismo, niente ironia, e sembrava invece di averne da vendere. “Che cosa ha insegnato alle donne italiane? A lavarsi”. Fu un grande insegnamento, per la verità, fu l'inizio del saper stare nel mondo, fu molto più utile di molti trattati sull'evoluzione femminile nel Novecento.

    Scrissero che Liala aveva un “umorismo inconsapevole”, ma era consapevolissimo. “Donna Delizia”, scritto nel 1944, ne è il manifesto. Donna Delizia è una famosissima attrice della rivista, in arte Lily Sibel, ha avuto una figlia a sedici anni, si cala l'età, ha avuto molti amanti ma cerca il vero amore, nel frattempo ha costruito un piccolo impero, ha preparato la dote alla figlia, ha amministrato con cura e con grazia il patrimonio, ha fatto studiare Pervinca in un collegio rinomato, di quelli con rette altissime e suore occhiute, ha perfino salvato dalla totale indigenza la migliore amica di Pervinca, di nobile e rispettabilissima famiglia alquanto decaduta (il cui mummificato moralismo falsamente borioso non impedirà di chiedere alla ragazza di incastrare un cugino ricco per farsi sposare, facendosi sorprendere sulle sue ginocchia o qualcosa di simile. La ragazza fugge da questi sepolcri imbiancati sul lastrico e va a rifugiarsi a Villa Delizia, in quella che per le mummie è naturalmente la casa del peccato e dell'immoralità, divertendosi un mondo e cominciando finalmente a vivere).

    Liala non amava parlare delle colleghe (quando Busi le chiese se avesse letto Oriana Fallaci, cominciò a tossire), e aveva la sua personale teoria, abbastanza saggia, sul fatto che le donne odiano le donne (“Le donne non si amano mica fra di loro, basta che arrivi un uomo e subito solidarizzano col maschio a scorno della migliore amicizia fra donne. Io, per esempio, non ho mai avuto amiche, lettrici a parte”), ma deve aver letto e amato “Chéri”, di Colette (pubblicato per la prima volta a puntate nel 1920), e ammirato Léa, donna di mondo e di buon gusto, parsimoniosa amministratrice dei propri beni, abbastanza saggia da capire, soffrendone, che l'amore dei ragazzi più giovani appassisce con l'appassire del collo, e che le illusioni si infrangono (aveva sempre in mente un comandamento assai saggio: non farsi mai cogliere discinta, col busto aperto, o in pantofole. “Nuda, piuttosto, e mai, però, in disordine”). Donna Delizia si fa invece molte illusioni, pensa di potere un giorno sposare l'aviatore biondo e venticinquenne, ma poi accetta con serenità il proprio destino, che la trasformerà, da artista dissoluta e chiacchierata, in tranquilla signora alto borghese. Quel che mi colpisce, in questo romanzo di Liala, è il doppio livello di lettura.

    Nel primo livello c'è la condanna morale di Lily Sibel, che indossa, nelle prime pagine, un prendisole aderentissimo e spaccato fino all'inguine, scopre le gambe passati i trent'anni, civetta senza ritegno, balla e canta sul palco, si consola con un altro aviatore se il primo la rifiuta, è in competizione inconsapevole con la figlia per l'accalappiaggio di un fidanzato, assolve ai suoi doveri di madre preferibilmente da lontano e nelle descrizioni e nei pensieri dei due giovani e presuntuosi piloti viene descritta in modo non galante: sudiciume, nausea, noia, “schifo di quella donna che gli si era offerta ridendo, di tutto quel sudicio che aleggiava intorno a Pervinca, pessima fama”, e la peggior definizione al mondo: “Quelle non sono amanti. Sono il cestino da viaggio che si compera a una stazione per satollare lo stomaco; sono, qualche volta, la buona colazione di vagone ristorante, con l'antipasto, il gelato e una specie di caffè”. Sono i giudizi degli uomini citrulli, si trovano in tutti i libri di Liala questi maschi con aspirazioni eroiche ma bacchettoni senza scampo, e toccherà a due ragazze appena diciottenni farsi beffe dei loro pregiudizi.

    La lettera che Vanna, l'amica povera di Pervinca, spedisce al suo ex futuro sposo (che non la vuole più sposare poiché ha saputo che lei si accompagna alla figlia di Lily Sibel) è un capolavoro di insolenza e di leggerezza: “Egregio signor Bertè, mi spiace dover scrivere Bertè, che essendo anche il mio nome, vorrei pronunciare senza aver schifo. Tengo poi a dirvi che sono ben felice di essermi rifugiata a Villa Delizia: se non lo avessi fatto, voi forse avreste continuato a corteggiarmi, dandomi così quel vivo senso di nausea che non sapevo reprimere. Inoltre, poiché sono in età di poterlo fare, vi comunico che rimarrò a Villa Delizia forse per sempre, perché è divinamente stare nella casa di Lily Sibel, perché la figlia di Lily Sibel oltre a essere bella, è cara, generosa, buona, onesta. Più onesta di voi e di tutte le beghine pronte a scandalizzarsi come voi”. Questa è la seconda lettura, che forse avrà scontentato qualche lettrice saldamente aggrappata al secolo precedente, o troppo anziana per gioire di un cambiamento che non poteva più riguardarla, ma incontenibile, ironica, beffarda. E questa: Che cosa vuol dire essere Lily Sibel? “Vuol dire essere donne diverse dalle altre, e poiché alle mummie le donne diverse dalle altre non piacciono, ecco perché dentro le loro bende pietrificate le suddette mummie si agiterebbero gridando allo scandalo”.

    Liala cerca di contenere la propria vitalità e di dare totalmente alle lettrici quel che chiedono, tanto da non cambiare quasi mai canovaccio per non scontentarle, perché “la gente vuole il comfort, ha già troppi problemi: la droga, le tasse, il lavoro, i cuccioletti che sporcano in casa…”, ma qualche volta, dopo aver fatto morire fanciulle nei laghi e nelle tempeste di neve, esplode di rivincita e le salva, decide che è il turno degli uomini di soffrire. L'aviatore di Pervinca è talmente stupido e bacchettone da non decidersi a sposarla perché è figlia di Lily Sibel, e pagherà la sua cretinaggine. Mentre le tre ragazze (Pervinca, Vanna e Lily) non beghine si avvieranno verso una luminosa, allegra e naturalmente agiata esistenza, ognuna a modo suo (nei romanzi di Liala le preoccupazioni economiche, se esistono, si risolvono in poche sentite pagine).

    Liala fingeva di non accorgersi del femminismo, non aveva alcuna voglia di infilare messaggi nei suoi romanzi, e a chi le chiedeva se il mondo fosse il suo o quello di Pier Paolo Pasolini rispondeva: “Senza pensare di peccare d'immodestia, direi che per un quarto è di Pasolini, ma per tre quarti è ancora il mio”. Mostrando però curiosità, e quasi una segreta solidarietà, verso il nuovo mondo in arrivo, che non le leverà nemmeno una copia venduta. Aldo Busi ha scritto di Liala: “Da perfetta dama di corte, si è mantenuta fedele al suo Principe Azzurro, al suo Ideale per quel che era ed è rimasto. Ogni nuovo istante è stato ripudiato per preferirgli la sua copia retrodatata”. Dopo la morte del suo aviatore, infatti, Liala si è cristallizzata (e monumentalizzata) nel ricordo, secondo Busi e secondo tutti, senza alterarlo con nuove esperienze di vita, e traendone il maggior profitto possibile.

    Scriveva a macchina, prendeva il tè, mandava la domestica dal macellaio con l'autista, usciva a comprare un gioiello, leggeva le lettere delle sue fan. Sarebbe scandaloso e bellissimo se anche questa fosse soltanto la prima lettura. Del resto una scrittrice non può esser franca se non a metà. Se lo fosse, sarebbe come uscire senza cappellino.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.