Stampa pataccara

Marco Pedersini

“Quando mi senti in televisione tu fottitene” (Massimo Ciancimino, registrato durante una conversazione con un inquisito per 'ndrangheta, da un'intercettazione ambientale della squadra mobile di Reggio Calabria, Verona, novembre 2010). E' un giovedì sera di fine maggio e la centralissima via Maqueda, a Palermo, è chiusa al traffico. Manca poco alle nove, l'ora in cui, nell'aula magna della Facoltà di Giurisprudenza, si celebrerà il riscatto finale di Massimo Ciancimino.

    “Quando mi senti in televisione tu fottitene” (Massimo Ciancimino, registrato durante una conversazione con un inquisito per 'ndrangheta, da un'intercettazione ambientale della squadra mobile di Reggio Calabria, Verona, novembre 2010).

    E' un giovedì sera di fine maggio e la centralissima via Maqueda, a Palermo, è chiusa al traffico. Manca poco alle nove, l'ora in cui, nell'aula magna della Facoltà di Giurisprudenza, si celebrerà il riscatto finale di Massimo Ciancimino. Il figlio di don  Vito, l'ex sindaco mafioso di Palermo, siederà di fianco al parente di una delle vittime più eccellenti delle stragi di mafia: Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, ucciso nel luglio '92 insieme alla sua scorta nella strage di via D'Amelio. Il fratello del pm eroe della lotta alla mafia ha scelto di partecipare alla presentazione di “Don Vito” (Feltrinelli, 2010), il libro con cui Massimo Ciancimino intende raccontare il romanzo della vita del padre e le ombre della sua carriera politica, avvitata tra la relazione con gli ex compaesani Bernardo Provenzano e Salvatore Riina e misteriosi uomini dei servizi segreti. Ormai Massimo è una voce che si fa sentire, scrive libri, frequenta regolarmente le tribune televisive – “Annozero”, ad esempio, gli ha già dedicato tre puntate intere. Tra poco arriverà trionfale, nella via Maqueda chiusa a tutti soltanto per lui, e diventerà a pieno titolo un divo dell'antimafia. Lo precederà la scorta, che gli farà strada, tra un autografo e l'altro, all'interno dell'aula magna di Giurisprudenza, la facoltà dove hanno studiato Falcone, Borsellino e anche il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, che lo interroga da almeno due anni.
    Organizzano la serata l'associazione culturale Falcone e Borsellino e l'associazione culturale universitaria Unidonne. “Potrei provare imbarazzo a sedere accanto a uomini dello stato come gli ex ministri Martelli e Violante, che hanno aspettato diciassette anni e le rivelazioni di Massimo Ciancimino per ricordare che la trattativa tra mafia e stato ci fu – dice Salvatore Borsellino – Certo non mi imbarazza sedere accanto a Massimo Ciancimino. Potrei imbarazzarmi accanto al vicepresidente del Csm Nicola Mancino che continua a non ricordare di aver incontrato mio fratello prima della strage”. Sarebbe stato proprio Salvatore Borsellino a suggerire al figlio dell'ex sindaco lo slogan “meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Vito Ciancimino”.

    La sera del 20 maggio 2010, con il patrocinio dell'Università e la consacrazione di Salvatore Borsellino, stesso sangue della vittima di mafia, Massimo Ciancimino ripulisce il proprio nome, macchiato dall'onta delle complicità mafiose di don Vito. Niente male per uno condannato, tre anni prima, per riciclaggio del denaro sporco, accumulato dal padre. “E' buona cosa che il più piccolo dei Ciancimino, dopo un processo per riciclaggio e una condanna a tre anni, abbia deciso di parlare con i magistrati”, commenta l'inviato del Corriere della Sera, Felice Cavallaro.
    L'operazione era nata tre anni prima, negli ultimi mesi del 2007. Ciancimino jr, che era stato condannato il 10 marzo, in primo grado, a cinque anni e otto mesi, inizia a proporre alcuni documenti scottanti a giornali e tv. Il bagarinaggio di scoop pare essere una passione di famiglia: l'aveva già fatto il padre, che aveva offerto a più magistrati alcuni documenti che teneva in una cartellina in similpelle – li aveva offerti anche a Giovanni Falcone, che aveva gentilmente respinto le attenzioni.

    Lo racconta lo stesso Ciancimino jr, rispondendo a una domanda del pm Sergio De Montis, al processo per la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro: “Quando venni raggiunto da un'indagine anomala, perché riguardava soltanto me e nessuno dei miei quattro fratelli, pensai di rivolgermi a Enrico Mentana, che era al Tg5. Lo incontrai all'aeroporto a Roma e lui mi diede il numero della sua segretaria. Poi però non si fece più sentire. Così mi rivolsi a Belpietro”. Mentana conferma: “Fui il primo a essere contattato, a fine 2007, ma lasciai cadere”. Conferma anche Belpietro, che su Libero scrive:

    “Ciancimino si era rivolto a me nel 2007. Prima d'allora non l'avevo mai visto, ma lui aveva pregato la mia segreteria di fissargli un appuntamento: in cambio avrebbe rivelato cose interessanti. Capii subito che il suo problema era il tesoro accumulato dal padre negli anni in cui era in società con la mafia e poi nascosto in Svizzera o Lussemburgo. Massimo avrebbe voluto poterne disporre a piacimento per dedicarsi alla bella vita e invece un paio di pm in gonnella lo avevano pizzicato mentre si comprava uno yacht e oltre a farlo condannare gli avevano imposto il confino e ritirato pure il passaporto”.

    Massimo Ciancimino cerca le attenzioni
    anche di Francesco “Ciccio” La Licata, un giornalista che si è formato con anni di cronaca nera per l'Ora nella Palermo degli anni Settanta.

    “Ho incontrato Massimo Ciancimino all'inizio del 2008 – scrive La Licata nell'introduzione del libro “Don Vito”, di cui sarebbe diventato co-autore – Mi venne a trovare alla redazione della Stampa, a Roma, e aveva tanta voglia di parlare delle sue ‘disgrazie', cioè dei suoi guai giudiziari. Era finito in carcere, a suo dire, per il solo fatto di essere il figlio di don Vito, il sindaco mafioso di Palermo. Incurante del mio scetticismo sulle sue reali motivazioni ‘collaborative' e sulle riserve legate al nome che porta, cominciò a raccontarmi la sua vita spericolata accanto al padre. Non nascondo che riuscì ad accendere un lampo nella mia testa. La sua storia era di per sé un romanzo: la mafia, i servizi segreti, la politica corrotta, la Sicilia. Gli spiegai però che, prima di pensare a un libro, sarebbe stato corretto ‘liberarsi' di tanto fardello nella sede giusta: la magistratura. Onestamente non pensavo che ciò sarebbe avvenuto”.

    L'unico a dare un po' di credito a Ciancimino jr, alla fine, sarà Belpietro, all'epoca direttore di Panorama, che segnala la storia a un suo giornalista, Gianluigi Nuzzi – noto anche per il suo “Vaticano S.p.A.” (Chiarelettere, 2009). “La direzione mi ha chiesto di andare a vedere se c'era qualcosa di interessante – ricorda Nuzzi – Io c'ho fatto una lunga chiacchierata e, vista la quantità di materiale e le rivelazioni clamorose, ho deciso di fare un'intervista”. L'articolo di Nuzzi, pubblicato il 19 dicembre, è caricato a polvere pirica: Massimo Ciancimino parla di trattativa tra stato e mafia, lancia accuse pesanti al capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, lascia intendere di custodire molte altre rivelazioni da sballo, ma che nessuno l'ha mai interrogato.
    Non ci vorrà tanto: il 7 aprile 2008 i magistrati palermitani Antonino Di Matteo e Antonio Ingroia lo prendono sotto la propria ala e lo sottopongono al primo di una lunga serie di interrogatori. La Licata sorveglia da vicino l'evoluzione del caso, al quale, a metà luglio, dedica un articolo, “L'importanza di chiamarsi Ciancimino”. “Oggi il giovane Massimo è come un pesce senza acquario”, scrive sulla Stampa, riportando i lamenti del novello testimone, che a questo stadio rivendica ancora di essere “completamente scagionato da ogni sospetto di mafiosità” – in effetti verrà iscritto tra gli indagati per mafia, inchiesta 11.609/08, soltanto a fine ottobre 2010. Quello descritto da La Licata è un “Massimo sotto scorta: addio barche, addio Ferrari. Il ragazzo che impazzava per discoteche, alla Cuba e al Brasil, i migliori anni della sua vita, poi sospettato di pericolosità sociale potrebbe finire in una delle grandi iatture palermitane: la vita sotto scorta”.
    Pochi giorni prima, nell'interrogatorio del 9 luglio 2008, Ciancimino jr aveva fatto per la prima volta il nome del senatore Marcello Dell'Utri (Pdl, allora Forza Italia). Ma le sue confessioni detonano soltanto l'estate successiva, quando salta fuori il nome del presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi. La storia diventa un tormentone estivo: getta un'ombra mafiosa sulla genesi del governo, ci sarebbe un assegno misterioso del Cav. da 35 milioni di lire che permetterebbe alla mafia di tenere in scacco il premier, ci sarebbero documenti compromettenti custoditi all'estero ma che Ciancimino jr promette di portare al più presto ai magistrati, una volta sbrigate due inezie burocratiche. Per i media, Massimo Ciancimino si dimostra un amante lascivo. Lo ammette anche il pm che lo sta interrogando, Antonio Ingroia, nel suo “Nel labirinto degli dei” (Il saggiatore, 2010):

    “Massimo Ciancimino non è certo attaccato alla cultura paterna dell'omertà. Il suo problema è, semmai, l'opposto: quello di parlare troppo, preferibilmente con i giornalisti, specie dei suoi interrogatori, per i quali è tenuto a rispettare la segretezza. Un imputato-testimone che scrive libri imbastiti con il contenuto delle sue dichiarazioni. E' molto ‘americano' Massimo Ciancimino, uomo dei media e per i media, nel bene e nel male”.

    In un interrogatorio, a metà luglio 2009, persino Ingroia e Di Matteo arrivano a dirgli che sta per passare il segno. La Repubblica, il giorno prima, ha pubblicato una sua intervista intitolata “Ciancimino jr: ‘Ho tutte le carte segrete che spiegano il patto tra mafia e stato'”. Ciancimino nega finché può, dice che il giornalista Francesco Viviano si è inventato tutto, poi ripara su un “sì, sì, ho parlato proprio col dottore Abbate (Lirio, ndr), cioè col dottore Abbate ci ho scherzato, c'ho parlato, ma non è che ho fatto intervista…”. I verbali degli interrogatori sono lettissimi, tanto che il settimanale siciliano S ne pubblicherà un libro antologico.
    Il salto di qualità avviene la sera dell'8 ottobre del 2009, ad “Annozero”. Si inizia sul tema della bocciatura del cosiddetto lodo Alfano da parte della Corte costituzionale, con l'ormai tradizionale duello fra Ghedini (Pdl) e Di Pietro (Idv). Ma giusto un quarto d'ora, e poi si passa a un'intervista di Sandro Ruotolo a Massimo Ciancimino. “Suo padre e Provenzano si vedevano spesso?”. “Sì, si vedevano spesso”. “Ha visto Riina anche lei a casa?”. “Sì ho visto Riina”. Poi Massimo Ciancimino, in studio, commenta l'intervista a Massimo Ciancimino appena trasmessa, e riparla di incontri tra suo padre e il boss mafioso Bernardo Provenzano fino al 2002. I brani dell'intervista iniziale vengono mostrati a più riprese, ma purtroppo l'attualità politica tende a trascinare Di Pietro e Ghedini su altri temi. Ciancimino jr fa però in tempo ad attaccare l'ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino e l'ex ministro dell'Interno Virginio Rognoni. L'arte maieutica della levatrice Sandro Ruotolo è quella collaudata: “Il signor Franco è dei servizi segreti?”. “Sì, e il signor Franco risponde a mio padre che i carabinieri non sono così ingenui e sprovveduti, ma che c'erano due soggetti informati e costantemente tenuti al corrente di quelle che erano le fasi della trattativa, e nel caso in grado di poter attuare le richieste. Il ministro dell'Interno Mancino e un altro soggetto politico”. “Rognoni?”. “Sì”'. “Quindi suo padre sa questo dal signor Franco?”. “… che sono informati, cosa che non entusiasma mio padre per niente”. “E si fida del signor Franco?”. “Ne parla anche con i Carabinieri e loro stessi gli confermano la stessa cosa”. “Il colonnello Mori?”. “Sì, il colonnello Mori”.
    Il supertestimone tornerà a sedersi nello studio di “Annozero” il 10 dicembre. Un'altra puntata cucita tutta attorno a lui, dal titolo “Minchiate”. La vera chiave della strategia comunicativa si ritrova invece in un'altra puntata, quella del 13 maggio 2010. Ciancimino jr deve promuovere il libro “Don Vito”, che è appena uscito, e si lancia nei migliori numeri del suo repertorio: Dell'Utri che “tiene per le palle” Berlusconi, il terrore del giovane Massimo che gira per Palermo con i documenti che svelano dov'è il covo di Riina, la figura del padre ingigantita fino al livello di grande orchestratore di Cosa nostra. Una selezione dei brani più intriganti del libro viene messa in scena in una fiction ad hoc. Si inizia con un'intervista di Sandro Ruotolo al fratello di Massimo, Giovanni Ciancimino, che racconta di un episodio che illustra i rapporti tra il padre e i mafiosi corleonesi. Poi si passa a Massimo, intervistato da Santoro secondo un copione ormai ordinario: il giornalista lancia la domanda in maniera allusiva e pressante, Ciancimino jr abbocca all'esca e dice quello che deve dire. Ne è un esempio la discussione sul numero di telefono che permetterebbe di dare un nome al signor Franco (o Carlo), il fantomatico agente dei servizi che avrebbe condotto la trattativa fra stato e mafia: “In questo telefonino che ci potrebbe dare la conferma dell'esistenza del signor Carlo o signor Franco, c'è una memoria ricca di numeri?”, domanda Santoro. “C'è una memoria ricca di numeri in grado di poter risalire a quelle che erano le utenze in mano a questa gente, non solo del signor Franco ma anche a soggetti a lui legati”. “Soggetti istituzionali?”. Ciancimino si impappina e Santoro incalza: “Importanti?”. Gli ascoltatori, questa volta, vanno a letto con la promessa di Massimo Ciancimino: “Presto si saprà chi è il signor Franco”.

    Giusto il tempo di presenziare all'“Infedele” di Gad Lerner (ottobre 2010) e Ciancimino jr, il 25 novembre, torna ad “Annozero” per piangere in diretta non appena la madre, intervistata da Sandro Ruotolo, accenna alle minacce nei confronti del piccolo Vito Andrea, figlio di Massimo. Il tema della serata è la condanna in Appello del senatore Marcello Dell'Utri. Il figlio di don Vito è lì per raccontare a suo modo la nemesi di Dell'Utri: è Massimo Ciancimino a dire che l'ex manager di Publitalia ha “scavalcato” il padre nel ruolo di mediatore della trattativa con i mafiosi, così come a rivelare a singhiozzo i “pizzini” in cui si fa riferimento a un misterioso senatore – Dell'Utri, all'epoca dei fatti, non ricopriva ancora quella carica, ma poco importa.

    Forse sui criptici “pizzini”, letti più volte, con grande trasporto, da alcuni attori durante la trasmissione, occorreva andare più cauti. Forse si poteva quantomeno accennare al fatto che, almeno da un mese, su quei dattiloscritti c'erano perplessità pesanti. Non era necessario citare la deposizione con la quale, a fine settembre, l'ex comandante del Ros dei carabinieri Mario Mori aveva spiegato ai giudici quant'era facile fabbricare documenti di questo tipo (“Con la tecnologia attuale la fotocopia di qualsiasi atto è una realtà virtuale”, aveva detto Mori). Sarebbe bastato citare l'articolo di Giovanni Bianconi, pubblicato il 27 ottobre a pagina 20 del Corriere della Sera:

    “Gli esami della scientifica non sono stati in grado di indicare l'attribuzione dei manoscritti (le comparazioni con le calligrafie dei principali boss hanno dato tutte esito negativo) e hanno escluso che i ‘pizzini' dattiloscritti consegnati da Massimo agli inquirenti (quasi sempre in fotocopia) provengano dalle macchine da scrivere trovate in possesso di Provenzano”.

    Il percorso del divo dell'antimafia non trova ostacoli, gli autografi non diminuiscono, le richieste di intervista nemmeno e allora è arrivato il momento per un'altra fatica letteraria. E infatti, il giorno prima dell'arresto di Massimo Ciancimino, già diretto verso una Pasqua a Saint-Tropez, esce “Il quarto livello”, libro-intervista scritto da Maurizio Torrealta. Il tocco vincente è nella prefazione, scritta, con molta cautela, da Antonio Ingroia, il pm che indaga da tre anni su Ciancimino jr e che, poco dopo la pubblicazione, lo arresterà, perché la scientifica ha dimostrato nel frattempo che l'elenco dei protagonisti della presunta trattativa stato-mafia, è stato taroccato dal figlio dell'ex sindaco di Palermo. Un vero peccato per Torrealta, che ne aveva fatto il perno del libro, e per Ciancimino jr, fresco di autoincensazione al Festival del giornalismo di Perugia – lo stessa edizione cui partecipano Roberto Saviano e Scalfari.

    Il caporedattore di RaiNews24 si è trasformato, con questo libro, nel paradigma dei giornalisti che hanno cavalcato le storie di Massimo Ciancimino: conosce il mestiere, sa mettere i condizionali dove servono, premette che “non è il compito di un giornalista sposare le tesi di alcuno, tantomeno quando la loro formulazione è talvolta imprecisa e frammentaria”. Ma intanto si serve della lista redatta dai Ciancimino come scheletro a cui appendere tutti i misteri d'Italia, dal tentato golpe Borghese all'enigmatica struttura paramilitare Gladio. Seminando interrogativi irrisolti, intrecci cabalistici, coincidenze evocative. Vale a dire, per usare le parole spese ieri dal procuratore di Torino, Gian Carlo Caselli, a difesa dei pm di Palermo, “la tecnica di presentare come verità anche le tesi più assurde”.