Cosa rimproverano i gesuiti al Vaticano sulla beatificazione di Wojtyla
Nel mondo del cattolicesimo americano ci sono diverse voci contrarie alla stretta sui tempi voluta dal Vaticano per portare Giovanni Paolo II alla beatificazione. Tra queste i gesuiti i quali, sulla prestigiosa rivista America, non mancano di argomentare non solo le luci ma anche le ombre che si sono proiettate nei ventisei anni e mezzo di pontificato wojtyliano. Ma, scrive in queste ore su America James Martin, adesso basta.
Nel mondo del cattolicesimo americano ci sono diverse voci contrarie alla stretta sui tempi voluta dal Vaticano per portare Giovanni Paolo II alla beatificazione. Tra queste i gesuiti i quali, sulla prestigiosa rivista America, non mancano di argomentare non solo le luci ma anche le ombre che si sono proiettate nei ventisei anni e mezzo di pontificato wojtyliano. Ma, scrive in queste ore su America James Martin, adesso basta. Martin non è una voce qualunque. Le sue idee l'hanno portato a essere spesso in feroce contrasto con Roma. Basti ricordare l'endorsement per i sacerdoti omosessuali quando, un anno fa, il segretario di stato vaticano Tarcisio Bertone durante un viaggio in Cile legò il problema della pedofilia nel clero a quello dell'omosessualità.
“Sono un cattolico liberale ma sono anche un ammiratore del beato Giovanni Paolo II nonostante lui non sia stato un grande fan di noi gesuiti” scrive. Perché è vero, “ci sono state lamentele per un pontificato non esente da errori”. Tra questi “il sostegno dato per lungo tempo a Maciel Degollado”, il fondatore dei Legionari di Cristo protagonista di una vita privata problematica. Più volte “si è scritto del fatto che velocizzando il processo si è data l'impressione di voler favorire un candidato sugli altri”. Ma, dice Martin, “io che ho avuto differenti visioni da Wojtyla – chi non ha mai avuto contrasti col proprio “capo”? –, riconosco che un miracolo è avvenuto per sua intercessione e che, dunque, Dio ha messo la sua firma sulla beatificazione”.
Gli attriti tra i gesuiti e Wojtyla ebbero il loro apogeo nella “rimozione senza precedenti nel 1981 di padre Pedro Arrupe, l'amato superiore generale di noi tutti gesuiti”, scrive Martin. Venne sospettato di “aver lavorato in favore della teologia della liberazione”, ma fu semplicemente mal consigliato tanto che poi “cambiò il suo punto di vista su noi. Poco prima che morisse incontrò Arrupe” il quale, “per la cronaca, era davvero un santo”.
Non è un mistero che Wojtyla ad Arrupe preferì Josemaría Escrivá. Entrambi spagnoli, uno basco e l'altro aragonese, avevano sensibilità diverse. Wojtyla amava l'Opus Dei e il suo carisma mentre, si dice, il nome di Pedro Arrupe lo infastidiva. Se qualcuno lo pronunciava in sua presenza faceva capire che era meglio cambiare argomento. Di questa insofferenza fu testimone, tra gli altri, padre Giuseppe Pittau. Il quale ha più volte ricordato come il solo accenno ad Arrupe bastasse per “rendere nervoso” Wojtyla. Pittau era l'uomo di fiducia di Wojtyla tra i gesuiti. Era un conservatore ma di vedute aperte, moderno. Furono queste qualità che convinsero il Papa a sceglierlo per traghettare i gesuiti del liberal Arrupe su sponde più vicine a sé. Tanto che quando i gesuiti scelsero come loro capo l'olandese Peter-Hans Kolvenbach il più per Wojtyla era stato fatto: Arrupe non aveva più in mano la Compagnia.
Secondo Martin la beatificazione deve spazzare via questi attriti anche perché “i santi, tutti i santi, sono uomini e come tali non possono essere perfetti”. Sbaglia dunque il Vaticano che da tempo cerca di staccare Wojtyla dal suo pontificato: “Impossibile staccare l'uomo dalle sue azioni” e per questo Wojtyla va beatificato “nonostante gli errori commessi”.
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