A Londra c'è pure un matrimonio infelice. Chiedete a Cameron

Paola Peduzzi

Aprile 2011, Regno Unito. C'è un matrimonio apparentemente felice, nonostante la magrezza della sposa e la lista degli invitati bizzarra, nonostante quel ricevimento in piedi che fa un po' troppo austerità (siete i reali d'Inghilterra, diamine) e i precedenti non proprio rassicuranti. C'è un matrimonio che invece felice non è, nonostante l'iniziale luna di miele piena di effusioni e di promesse carezzevoli, perché è un'unione di convenienza e perché il patto prematrimoniale è stato abbondantemente violato dal più forte della coppia.

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    Aprile 2011, Regno Unito. C'è un matrimonio apparentemente felice, nonostante la magrezza della sposa e la lista degli invitati bizzarra, nonostante quel ricevimento in piedi che fa un po' troppo austerità (siete i reali d'Inghilterra, diamine) e i precedenti non proprio rassicuranti. C'è un matrimonio che invece felice non è, nonostante l'iniziale luna di miele piena di effusioni e di promesse carezzevoli, perché è un'unione di convenienza e perché il patto prematrimoniale è stato abbondantemente violato dal più forte della coppia: questo è il governo d'Inghilterra, la coabitazione (forzata) tra i conservatori del premier David Cameron e i liberaldemocratici del vicepremier Nick Clegg. Naturalmente in questi giorni di delirio monarchico, con Londra che aspetta con gli occhi a cuore la sua principessa Kate, il matrimonio felice vince su quello infelice (l'amore vince sempre, no?), ma è questione di giorni: i principi entreranno nei loro palazzi, i fiori appassiranno, i capelli cadranno (quelli di William sicuramente), la cenerentolite finirà e sotto gli occhi resterà soltanto quel che accade nell'esecutivo britannico, le liti, i pianti, forse la separazione. La resa dei conti è la settimana prossima.

    Il 5 maggio si vota per il referendum sul sistema elettorale. Sulla scheda ci sarà scritto: siete favorevoli all'introduzione dell'alternative vote, d'ispirazione australiana, che di fatto serve a dare rappresentatività ai partiti più piccoli (cioè conservatori e laburisti esclusi) con un'apertura al sistema proporzionale? I liberaldemocratici sono a favore del sì, per ovvie ragioni, i conservatori sono per lo più per il no, con eccezioni rilevanti, i laburisti sono spaccati, un po' sì e un po' no. Prevedibile? No. Perché questo referendum era l'unica condizione che i liberaldemocratici posero, un anno fa, per il loro ingresso nel governo conservatore. L'unica. Cedettero su tutto, sull'economia, sulle guerre, sull'Europa, ma in cambio chiesero una data certa per mettere mano a un sistema elettorale che penalizza i partiti “minori” (nel Regno Unito è in vigore uno dei sistemi più cristallini e brutali al mondo: maggioritario uninominale, “first-past-the-post”, chi vince prende tutto, “the winner takes all”). Non lo dissero, i liberaldemocratici, ma si aspettavano che i conservatori facessero campagna per il sì, per lealtà matrimoniale, o che perlomeno si astenessero dal sostenere il no, sempre per lealtà matrimoniale. Ma è passato del tempo, ci sono stati parecchi dissapori, i conservatori hanno fatto di tutto per emarginare i liberaldemocratici (riuscendoci), Nick Clegg non è più il “darling” dei media com'era un anno fa, e così Cameron ha deciso di tradire. Senza cautele, senza sotterfugi, senza nascondigli. Ha tradito sotto gli occhi di Clegg, inziando una campagna appassionata per il no al referendum. Per di più, il 5 maggio, ci sono anche alcune elezioni locali, che per i liberaldemocratici rappresentano un test per scoprire a che punto sono, nei cuori degli elettori, dopo un anno al governo (le attese non sono per niente rosee).

    I Lib-Dem non sono gli unici che si sentono presi in giro. Ci sono anche gli elettori. Gli inglesi non amano i referendum (non ce n'era uno dal 1975) e nella fattispecie non amano i referendum di cui non capiscono niente e che quindi considerano superflui. Gli spot pubblicitari, le dichiarazioni dei politici, le trasmissioni tv e radiofoniche sono a uso e consumo dei partiti e dei loro leader, gli inglesi non si appassionano. Il referendum avrebbe dovuto essere il pretesto per aprire un dibattito sulla democrazia britannica – così lo immaginavano i conservatori e i liberaldemocratici quando ancora si amavano –, avrebbe dovuto schierare due visioni del mondo contrapposte, il mercato (il primo vince tutto) contro il potere della maggioranza (l'alternative vote), l'eccezionalismo britannico contro il modello continentale europeo. Insomma, poteva essere interessante, ma è finito per essere uno strumento di tortura indiretta per il mondo della politica. E gli inglesi, che hanno il portafoglio vuoto e già sono costretti a sottostare alle regole dell'austerità, si sono scocciati, hanno iniziato a disinteressarsi, lasciando che gli opportunismi politici avessero la meglio sull'effettiva possibilità di rendere più rappresentativo – e quindi democratico – il sistema elettorale.

    A perderci, finora, è stato soprattutto Nick Clegg. Poiché il teatro politico, in Inghilterra, è una cosa seria, da domani all'8 maggio, all'HighTide Festival sarà messo in scena un hip-hop musical sul dramma di Clegg dal titolo “Nicked”. Un commentatore del Guardian ha invitato il vicepremier ad andare a vederlo, perché è il miglior spot che si potesse fare sul suo anno al governo: un essere umano con cui simpatizzare (del resto si simpatizza sempre con i cornuti, poverini, salvo poi farsi ammaliare dai cornificatori e dalla loro spavalderia). La pièce ripercorre le negoziazioni per entrare nell'esecutivo, le liti con i compagni di partito, gli scontri all'interno dei conservatori e anche il Question Time (a ritmo di rap, gli organizzatori del festival dicono che è una delizia). In mezzo c'è Clegg, amletico ma genuino, che piano piano perde forza e coraggio e finisce per essere quello per cui Cameron l'ha scelto: un partner di minoranza, destinato a scomparire alla prima occasione buona. Magari il 5 di maggio.

    Gli elettori liberaldemocratici erano, per la maggior parte, contrari all'accordo con i conservatori. Non ci unisce nulla, dicevano. Metà del partito (metà che va ampliandosi di giorno in giorno e che ha già ben tre candidati leader per sostituire Clegg) non s'è mai convinta che il matrimonio di convenienza fosse la migliore opzione disponibile. Clegg pensò: se non si va al governo quando si fa un exploit elettorale come quello del maggio del 2010 allora si è condannati all'opposizione a vita, meglio rischiare e giocarsela piuttosto che stare anche questa volta fuori dal palazzo. Clegg, soprattutto, si fidò di Cameron. E inizialmente fece bene, perché il premier era (abbastanza) sincero: anche lui aveva dovuto lottare con il suo partito per accasarsi con i liberaldemocratici. Era piuttosto evidente che serviva soltanto una pezza per arrivare alla maggioranza, la condivisione di progetti, il programma comune – quell'orribile cosa chiamata piattaforma della coalizione – sarebbero arrivati dopo, con la consuetudine. Poi Cameron si è messo a giocare pesante, perché la situazione economica del paese non ammetteva tentennamenti e perché anche lui, ragazzo di buona famiglia che si gingilla con la politica, aveva e ha parecchio da dimostrare. E piano piano ha cacciato Clegg sempre più nell'angolo. Lo ha estromesso. L'apporto dei liberaldemocratici all'iniziativa di governo è diventato sempre più sbiadito, fino quasi a diventare irriconoscibile. Con un'aggravante: Clegg continua a metterci la faccia. Quando le proteste per strada contro i tagli di governo diventano mezze rivolte, non c'è distinzione tra Lib-Dem e Tory. E' il governo “colpevole” di una delle politiche d'austerità più rigide del Dopoguerra. Così Clegg è contestato da chi non voleva che andasse al governo con i Tory e da chi invece lo ritiene parte integrante e attiva di questo esecutivo con l'accetta in mano. Il risultato è che il Partito liberaldemocratico rischia di scomparire (rendendo quindi superfluo anche il referendum a favore del sistema proporzionale), a favore soprattutto dei laburisti – un elettore del Lib-Dem ha molto più in comune con uno del Labour che con uno dei Tory.

    L'unica salvezza per Clegg è data dal fatto che il Partito laburista sta attraversando una delle fasi più buie della sua storia recente. La guerra fratricida che ha espresso la leadership di Ed Miliband è il simbolo di un partito diviso, risentito, sfasciato. Senza un'idea. Tanto che non riesce nemmeno a giocare il (semplice) ruolo del “terzo che gode” tra i due litiganti. Quel che è accaduto sulla campagna referendaria è indicativo. Ed Miliband è a favore del sì, dice che vuole lavorare assieme ai liberaldemocratici per rendere il sistema politico britannico più vicino agli elettori (intanto se riesce a rubare consensi ai Lib-Dem tanto meglio). Si è schierato fin da subito dalla parte del sì (per la cronaca: anche suo fratello David è per il sì) e ha chiesto ai suoi compagni laburisti di seguirlo. Ma poiché non sempre i leader veri sono quelli che prendono più voti nei consessi di partito, molti non lo hanno ascoltato. Alcuni pezzi grossi come John Prescott e David Blunkett hanno detto di essere per il no e hanno iniziato a raccontare gli effetti devastanti che l'alternative vote porterebbe al Regno Unito (sono stati pubblicati articoli memorabili su questo tema, tutti i mali del mondo erano elencati, mancava giusto uno scenario splatter da “Il signore delle mosche”, ma forse non ci hanno pensato). Mentre il partito si contorceva nelle sue divisioni, a tutto vantaggio dei conservatori, è arrivato Lord Mandelson a mettere in riga i compagni litigiosi – lui, re delle liti, poi dice la nemesi – con un'intervista all'Independent: siete matti?, ha chiesto l'ex ministro ed ex architetto del New Labour blairiano, volete capire che l'unico modo per colpire davvero i conservatori e avere una chance politica è votare sì al referendum? Pragmatico come sempre, Mandelson non ha fatto tanti giri di parole sulla democrazia o la rappresentatività, ha semplicemente reso pubblico un banale calcolo politico. Per l'immagine del suo partito ormai è tardi: il brutto spettacolo è già andato in onda. Per l'elettorato laburista invece no, e così Clegg ha ricominciato a sperare.

    I sondaggi in realtà non lasciano molti dubbi. Il no è avanti di almeno una decina di punti percentuali, ma è anche vero che l'esito del referendum è meno prevedibile di una tornata elettorale, un po' perché ce ne sono stati pochi e un po' perché i partiti sono talmente spaccati che la fedeltà alla propria parte politica può essere facilmente violata. Ma i conservatori – che già stapparono sciaguratamente nel 2009 champagne al congresso di partito pensando che avrebbero stravinto le elezioni dell'anno successivo, cosa che non accadde – comunque ridono. Anzi, fanno un po' i bulli. Cameron soprattutto, ma anche il suo compare George Osborne, cancelliere dello Scacchiere, i due ragazzacci del governo. Benedict Brogan, uno dei commentatori politici più vicini ai conservatori (era uscito il suo nome come capo della comunicazione del governo) ha scritto ieri sul Telegraph che “l'inutile referendum” è servito almeno a tirare fuori il conservatore che c'è in Cameron. La parte più di destra del partito, quella contraria all'alleanza con i liberaldemocratici, ha sempre pensato che il premier non fosse abbastanza Tory, che cedesse troppo verso il centro e verso la sinistra e lo ha spesso criticato, anche in modo duro. Ora a Westminster i conservatori gioscono: finalmente Cameron ha detto qualcosa di destra (e ci si augura che non alludano a quel “calm down, dear” ripetuto in modo un po' sprezzante due giorni fa alla laburista Angela Eagle alla Camera dei Comuni, tra le risate generali, soprattutto di Osborne: i giornali ieri discutevano del loro premier sessista, ma forse è stato soltanto maleducato e bullo, forte dei maschiacci che aveva intorno – eccetto il vitreo Clegg – e si spera che la moglie Samantha alla sera lo abbia redarguito per benino). La popolarità di Cameron non è che sia granché, e con il piano di tagli che sta via via entrando in vigore non è destinata a migliorare, ma lui si sente rinvigorito da un sostegno del partito che finora non ha conosciuto e in parte dalla debolezza del suo partner.
    Sono già pronte le carte del divorzio? Non è detto. C'è stato un momento in cui la convivenza è parsa insostenibile: il tradimento era appena stato consumato in tutta la sua sguaiata inevitabilità, non si intravvedeva alcun rimedio. Ma poi qualcosa è cambiato. Tutto dipende dal futuro di Nick Clegg. Se lui resiste all'ira del suo partito, se supera il boicottaggio dei suoi stessi ministri, se sopravvive al suo posto alle minacce dei vari aspiranti leader che addirittura dicono di voler citare in giudizio i conservatori per il tradimento, allora è probabile che la coalizione resti in piedi. Per quanto amareggiato e incattivito, Clegg è disposto a perdonare Cameron, non soltanto perché sono abbastanza affini, ma soprattutto perché non ha un'altra casa dove andare. Con il record negativo nelle urne, un'elezione anticipata non è affatto conveniente (comunque non lo è nemmeno per i conservatori, a guardare i sondaggi). Se invece il golpe ai danni di Clegg di cui si parla da mesi dovesse davvero andare in porto, allora il divorzio sarebbe più vicino e i Lib-Dem potrebbero giocare, nell'eventuale campagna elettorale, la carta della dignità: cornuti sì, mazziati no.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi