A ciascuno il suo santo

Stefano Di Michele

Pure Wojtyla? Soprattutto Wojtyla. Avendo fatto un'infornata tale di santi e beati – che a volerli festeggiare tutti non basterebbe mettere insieme il calendario gregoriano e quello giuliano, quello cinese e quello maya – è logico e necessario che anche lui, dopo aver bordeggiato altari per tutta la sua vita, adesso vi salga sopra. Ha fatto molto, Giovanni Paolo II, con i suoi 1.338 beati e 482 santi. Non solo per la chiesa ma innanzi tutto per i fedeli. E non solo per i fedeli. Per il popolo tutto, non fosse la parola popolo parola da maneggiare con guardinga cautela.

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    “E' una vita che cerco riparo dalla santità” (Alda Merini).

    Pure Wojtyla? Soprattutto Wojtyla. Avendo fatto un'infornata tale di santi e beati – che a volerli festeggiare tutti non basterebbe mettere insieme il calendario gregoriano e quello giuliano, quello cinese e quello maya – è logico e necessario che anche lui, dopo aver bordeggiato altari per tutta la sua vita, adesso vi salga sopra. Ha fatto molto, Giovanni Paolo II, con i suoi 1.338 beati e 482 santi. Non solo per la chiesa – che anzi, un mezzo parapiglia, con rispetto parlando, anche se uno che ne capiva (pure troppo, così da essere rimosso dal suo incarico), come il superiore dei gesuiti Pedro Arrupe, ebbe a notare: “Un santo sarà sempre più utile alla chiesa di un'armata di gesuiti” – ma innanzi tutto per i fedeli. E non solo per i fedeli. Per il popolo tutto, non fosse la parola popolo parola da maneggiare con guardinga cautela. Più santi ci sono, e meglio stiamo tutti: col santo si piglia confidenza, si sta a tu per tu – come un Massimo Troisi davanti a san Gennaro, come la prostituta Cabiria davanti alla Madonna del Divino Amore, come Nino Manfredi davanti a sant'Eusebio “protettore dell'anima mia”.

    Consolano lo spirito, i santi, per chi abbisogna di consolazione, e sono pure iconograficamente simpatici (quasi tutti, proprio tutti tutti no). Certo, nella coglionaggine dei tempi, è più facile che uno abbia presente Lady Gaga piuttosto che “mira il tuo popolo, o bella Signora / che pien di giubilo oggi t'onora” – le processioni di certe sere di maggio, tra l'odore delle rose, le monache a bordo corteo, le candele tra le mani. Fosse pure e solo teatro – come direbbero gli scettici, come, ma con ammirazione, spiegava Paolo Poli – produce male? O non piuttosto appartenenza, e una sorta di memoria grata nel campo del nostro disordine quotidiano?

    Con i santi è sempre meglio abbondare, come santamente (appunto) ha fatto Giovanni Paolo II. C'è il rischio che qualcuno che doveva stare nel ripostiglio finisca sull'altare? Pazienza: se Dio, come assicurano, sa riconoscere i morti quando arrivano nell'aldilà, sapranno pure i fedeli vivi riconoscere nell'aldiquà i santi dagli imboscati. A scorrere l'elenco wojtyliano c'è da restare, insieme, stupiti e incerti. Lo stupore è dovuto alle grandi beatificazioni di massa (e gli spagnoli e i messicani e i vietnamiti e i coreani di un paio di secoli fa – ché a momenti uno non si ricorda neanche che esiste la Corea), e al linguaggio usato – come un semplice catechismo, come un racconto elementare – per riassumere le loro vite, “quel 15 agosto 1926, il sole allo zenit, la vita in fiore e il supremo amore di Cristo si unirono nel martirio di David”, anche quando sono, diciamo così, particolarmente complicate – quasi con un principio di soap opera o di operetta: “Sposa e madre di quattro figli, nacque nel 1215 circa in Moravia. Figlia di Pribyslav di Krizanov, burgravio di Brno, e di Sibilla, una nobildonna siciliana, venuta in Boemia come dama di corte di Cunegonda, nipote di Federico I Barbarossa, data in moglie al Re Ottocaro I Premysl (1197-1230). Zdislava sposò, a 17 anni, Havel, un signore del castello di Lemberk, vicino alla città di Jablonné, in Boemia…”. Oppure: “Agnese, figlia di Premysl Otakar I re di Boemia e della regina Costanza sorella di Andrea II re d'Ungheria, nacque a Praga nel 1211. Sin dall'infanzia fu coinvolta in progetti di fidanzamento, trattati indipendentemente dalla sua volontà, per speculazioni politiche e convenienze dinastiche…”. O tutt'altre vite – e passiamo al miglior neorealismo, come nel caso di Crispino da Viterbo, orfano e calzolaio, munito però di “piissima genitrice”, umilissimo frate cappuccino – tutta una vita di “umili e gravosi uffici di infermiere, cuciniere, ortolano e questuante”, pensa tu, ma intanto zitto zitto e bono bono fra Crispino da Viterbo s'è guadagnato l'altare, “come abbia potuto effondere tanta saggezza illuminante ed ispiratrice anche in questa fase di vita nascosta, non è facile comprenderlo” – senza manco un profilo su Facebook. O il racconto del martirio nel Giappone del Seicento: “Il condannato a morte veniva appeso ad un palo con il capo rivolto in basso e con tutto il busto dentro una fossa piena di sudiciume e rinchiusa con tavole di legno che stringevano il corpo all'altezza della cintola…”. L'incertezza nasce invece dalla convinzione, a fine lettura, che l'attuale penuria di figliolanza produrrà in futuro una considerevole penuria di elevati agli altari. Infatti, a scorrere le biografie, pare che la santità più facilmente attecchisca là dove la fratellanza – non evangelica, piuttosto familiare – abbonda. Così: “Suor Maria Faustina nacque il 25 agosto 1905, terza di dieci figli, da Marianna e Stanislao Kowalski, contadini del villaggio di Glogowiec…”. “Teresa Verzeri nasce il 31 luglio 1801 a Bergamo (Italia): è la primogenita di sette figli di Antonio Verzeri e della contessa Elena Pedrocca-Grumelli. Il fratello Girolamo diventerà Vescovo di Brescia…”. “27 marzo 1864. Nel piccolo paese di Pozzaglia Sabina, 800 metri di altitudine, nella bella zona geografica tra Rieti, Orvinio, Tivoli, nasce e viene battezzata Livia: seconda di undici figli!” (il punto esclamativo è sul testo: si saranno stupiti pure in Vaticano).

    “Giuseppe Moscati nacque il 25 luglio 1880 a Benevento, settimo tra i nove figli del magistrato Francesco Moscati e di Rosa De Luca, dei marchesi di Roseto…”. “Eustochia Calafato (al secolo Smeralda) nacque a Messina il 25 marzo 1434, quarta dei sei figli di Bernardo Cofino detto Calafato e Mascalda Romano, modesti lavoratori…”. Maddalena di Canossa… nasce a Verona il 1° marzo 1774 da nobile e ricca famiglia, terzogenita di sei fratelli…”. “Gianna Beretta nacque a Magenta (diocesi e provincia di Milano) il 4 ottobre 1922, decima di tredici figli dei coniugi Alberto Beretta e Maria De Micheli…”. “Erminio Filippo Pampuri, in religione fra Riccardo, decimo di undici figli, nacque il 2 agosto 1897 a Trivolzio (Pavia) da Innocenzo e Angela Campari, e fu battezzato il giorno seguente…”. “Arnoldo Janssen nacque il 5 novembre del 1837 a Goch, una piccola città della Bassa Renania (Germania). Secondo di dieci fratelli, imparò dal padre ad essere uomo di profonda religiosità…”, ecc. ecc. E dunque si capisce che adesso, a culle vuote, altari sguarniti si prospettano. Forse, da qui la celestiale attruppata del Pontefice polacco: ammassare adesso, ché la carestia è alle porte.

    Come per la squadra di calcio, il partito politico, il quiz preserale, il ricordo del primo amore, le canzoni di Sanremo – un santo di riferimento, uno deve sempre averlo. La meraviglia della grande opera wojtyliana è dunque nel migliorare l'assortimento, nel rifornire la fantasia, nel prestare l'esemplarità di certe esistenze alla necessità pratica della vita quotidiana (un po' come succedeva a Monica Vitti, precaria ballerina in “Polvere di stelle”, che inseguita a colpi di fucile da un signorotto che insieme ai suoi amici guitti aveva derubato di prosciutti e caciotte, scappava e con fervore invocava: “Santa Barbara, santa Beatrice, salvaci dal matto con la mitragliatrice…”). Ovviamente la questione non riguarda, con rispetto parlando, i santi di prima fila – i Francesco, gli Antonio, i Giuseppe, i Benedetto o gli Agostino, per non dire della Madonna o di Gesù: così universali, che l'occasione per una preghiera a loro rivolta si trova sempre. Ma per esempio, san Medardo, protettore degli ombrellai, è certo abbastanza settoriale, tutt'al più invocato dai bengalesi che emergono con i loro ombrelli, sui marciapiedi cittadini, al cadere delle prime gocce. Più o meno come san Venerio, protettore dei guardiani dei fari – insomma, non proprio folle di seguaci. O sant'Armando che tiene d'occhio i baristi – e si suppone pure la conseguente involuzione della categoria in barman. C'è chi invece deve avere il suo bel da fare. Come san Venenzio, protettore dei deputati (uno che l'immunità ce l'ha di suo e se la tiene): quale miracoloso intervento deve aver osato, quando gli si sono parati di fronte quelli del gruppo dei Responsabili, solo lui lo sa. C'è persino san Raimondo Nonnato che figura quale ausilio alle “accuse ingiuste”, che se la faccenda sulla miracolosa propensione arriva alle orecchie del Cav., come minimo gli fa erigere un santuario nel parco di Arcore. Perché non solo la fede accende certezze, ma anche la cronaca. E così, essendo abbinata santa Maria Maddalena a sostegno di parrucchieri e profumieri (e idraulici: mah…), non poteva Berlusconi, quella notte in questura, volendo saggiamente indirizzare la povera Ruby a un'attività di estetista, affidarla direttamente alla santa anziché alla Minetti?

    C'è una sorta di bellissima ironia, nel modo in cui la chiesa decide di appaiare il santo ai suoi protetti. Per dire, san Lorenzo non finì praticamente arrostito sopra una graticola per mano di un crudele imperatore pagano? Beh, è stato opportunamente elevato a protettore delle rosticcerie, supplì e crocchette e pollo alla diavola (ecco, appunto) – tutto cotto a puntino, come appunto esortava il santo martire ai suoi carnefici mentre rosolava: “Giratemi, perché da questa parte sono già cotto” – perché i santi sono pure spiritosi. E san Bartolomeo, non fu scorticato vivo? E di chi è diventato il santo protettore? Dei conciatori di pelli. C'è san Silverio, invece, teso alla protezione degli aragostai (casomai, farebbe meglio a darsi da fare con le aragoste), e san Genesio a quella degli attori, e buttando un occhio alla recente produzione cinematografica si capisce che è santo di manica larga. Gioco surreale, a volte gioco crudele. Con stupore, e indiscutibile ragione, ne scrisse Marguerite Yourcenar: “Le bestie dei boschi che cercano protezione presso san Biagio, la preghiera per gli animali di san Basilio di Cesarea o il cervo crocifero il quale converte sant'Uberto (una delle più crudeli ironie del folclore religioso è che questo santo sia diventato intanto il patrono dei cacciatori). O ancora i santi d'Irlanda o delle Ebridi che riportano a riva e curano alcuni aironi feriti, proteggono i cervi ormai senza scampo, e muoiono fraternizzando con un cavallo bianco”. Si capisce benissimo che, essendo sulla strada della santità, erano molto più intelligenti di certi che poi come santi li avrebbero venerati. Così, merita di sicuro l'acquisto il magnete, reperibile presso le meglio democratiche librerie, da mettere sopra la cuccia del gatto, di santa Gertrude di Nivelles, badessa e mistica, protettrice dei felini: infatti, magnificamente figura con apposita aureola in testa, impeccabile tonaca e gattone in braccio.

    Dicono che i santi siano permalosi – da qui forse il famoso “scherza con i fanti, lascia stare i santi”. Però non danno – a scorrere le loro biografie, a pensare alle mille forme di devozione che li circondano – questa impressione. Permalosi a volte sono i preti – per eccesso di zelo, si suppone. Come quell'abate di Montevergine che qualche anno fa voleva impedire ai “femminielli”, che ogni 2 febbraio, da secoli, vanno a pregare la Madonna Nera, la Mamma Schiavona – che peraltro mai aveva dato segno di risentirsi per la colorata e allegra devozione, tra tamburi e tammurriate e tacchi da dieci centimetri. “State profanando il tempio di Dio, le vostre preghiere non sono gradite!”, urlò dall'altare. Perché con il santo (e persino con la Madonna) il rapporto è spesso diretto, amicale, persino un po' trasgressivo. E al santo non deve del tutto dispiacere – sennò la noia di tutta una vita, addirittura eterna, ai bordi di un altare, tra bisbigli e preghiere preconfezionate, può arrivare a toccare anche un cuore celestiale. Prendete san Pasquale Baylòn, mutato in san Pasquale Baylonne: per la chiesa è il patrono dei congressi eucaristici – impegno gravoso: di soddisfazione, ma di poca distrazione – e così a Napoli, dove il suo culto fu importato dalla dominazione spagnola, ha assunto tutt'altro significato. E infatti, signorine in età da marito e zitelle non rassegnate alla sorte, lo venerano e lo invocano in tutt'altro modo: “San Pasquale Baylonne / protettore delle donne, / fammi trovare marito, / bianco, rosso e colorito, / come te, tale e quale, / o glorioso san Pasquale!” (da qui l'apposito film, qualche decennio fa, con Lando Buzzanca). Il quale san Pasquale, inoltre, risulta pure essere l'inventore dello zabaione – poi uno dice, da peccatore a santo, che vengono certe associazioni d'idee… I santi sono, in genere, spiritosi e pazienti. E intelligenti: mica per caso in quattro, a quanto pare, sono posti a protezione della scuola – pattugliamento forse da rafforzare, dopo l'avvento della riforma Gelmini, mentre un san Vito protegge i danzatori: a momenti viene apparentato a “Ballando sotto le stelle” e volete che non abbia una certa prontezza di spirito?

    I santi lasciano fare. Non sembrano tipi da Sodoma e Gomorra (nel senso di castigatori di), non stanno accigliati a rimirare il peccatore, la famosa fulminata tra capo e collo tante volte minacciata, in fondo non si è mai vista. Lasciano fare perché, come insegnano le stesse biografie di alcuni di quelli creati da Giovanni Paolo II, sono stati anch'essi peccatori o innamorati o vili o avidi o indifferenti. Insomma, o se la sono spassata o se la sono vista brutta. E così, come potrebbero pretendere che ai loro piedi arrivi tutta una folla precisa e purificata e inquadrata, pretigna e bigotta, praticamente già pronta per l'imbarco finale verso il regno dei cieli? E allora che ci stanno a fare, loro, tra i ceri e la penombra? Hanno gran cuore (sempre certi: certi altri avevano il cuore duro in vita, e il cuore duro devono essersi portati in morte), buona vista e buone orecchie. Così da accogliere con un sorriso certi canti popolari che ne lodano la grandezza – ce n'era uno, dedicato al santuario di Pompei, che più o meno faceva: “A Pompei città dei pagani / la lussuria ed il male regnavano / bestemmiavano in nome di Dio / tra le orge vivevano là…” – che quel richiamo alle orge, nel peccatore non del tutto redento, poteva far sorgere immediata considerazione per la pagana Pompei. Alla fine, il nostro rapporto personale – perché il rapporto con il santo è personale: il prete parla e parla, quello sta zitto e ascolta – viene magnificamente illustrato da certe canzoni, e dall'intera artistica attività, di Gigione e Jo Donatello, che spopolano nelle piazze del centrosud e nelle tivù locali, sagre di paese e feste patronali, mirabile trash italico, che sul palco sanno benissimo alternare “Te piace 'o biscotto” a “Padre Pio”, “Lecca lecca” a “Caro Papa”, “Te sei mangiata sta banana” a “Madonnina dai riccioli d'oro”, “Il gelatino” (eco alla banana di sopra) a “Santa Rita”, “Giovanna Minigonna” a “Madonna di Pompei”: a qualcuno, non escluso qualche parroco, può apparire scandalo; ma a quasi tutti, compresi molti parroci, appare comune, persino banalissima vita. Non è forse la pazienza, la maggior virtù dei santi?
    Che certo, ognuno si porta poi dietro il suo – nonostante l'invio in massa del bollettino di san Gaspare del Bufalo o quello di sant'Antonio. Quelli dell'Abruzzo mai schiodano da san Gabriele dell'Addolorata, morto giovanetto – e ogni bimbo appena nato viene al giovane frate passionista affidato, la piccola foto sull'Eco di San Gabriele, l'annuale pellegrinaggio degli immigrati che ritornano. Ci sono le cose che restano: il vecchio frate che passava per la questua, qualche pugno di grano, un cartoccio di noci, un Paternoster sull'aia… Da qualche altra parte, invece, si scopre un inaspettato “San Nicandro Fans Club” su Facebook – forse le stesse identiche cose, solo in un altro luogo. I santi sono parte del paesaggio che ognuno di noi si porta dentro – anche quando non crede più o crede di non credere o crede che credere sia una solenne sciocchezza. Operano ben più profondamente della teologia o dei dogmi, i santi: sono memoria incancellabile. Come le vecchie stampe devozionali che man mano finiscono in cantina, sostituite da orrendi quadri d'argento in rilievo, che infestano le cresime e i matrimoni. Sempre Madonne o Cristi, si capisce. Ma di luce fredda.

    A far santi, soprattutto a livello quasi industriale come ha fatto Giovanni Paolo II, si può sempre sbagliare – più con qualche re o qualche prelato, comunque, che con fra Crispino che stava nell'orto o i torturati nei campi di sterminio. I santi devono avere pazienza, i fedeli devono avere pazienza, i Papi devono avere occhio, sennò una beata Quartina, come quella che la famiglia del marchese del Grillo voleva elevare agli altare (non il marchese, anzi sospettava che l'ava portasse un po' sfiga), in qualche cappella laterale potrebbe sempre ritrovarsi. “Ci sono più santi che nicchie”, si lamentava già nel 1833 Balzac: ma i santi si fanno e le nicchie si scavano. E la miracolosa poesia di un appellativo come quello di Madonna della Soledad – Madonna della solitudine – che si può rintracciare in una chiesa di Palermo vale anche un paio di indegni sfuggiti al vaglio iniziale: quando forse l'Avvocato del Diavolo non sa fare bene il suo lavoro, o quando forse il diavolo si spaccia direttamente per santo. Adesso che pure il Papa, che tanti di loro ha instradato verso il cielo, si avvicina al traguardo supremo della santità (essere beati è un po' come essere in promozione: prima o poi il titolo massimo arriva), potrà verificare la bontà del suo operato. Ma questi sono fatti celesti. Avendoci regalato nuovi santi, Wojtyla ci ha pure regalato nuove possibilità di stupore. Della maggior parte di loro nessuno di noi ricorderà nemmeno il nome, ma Lassù devono tenere buona contabilità – e non sono fatti nostri. Ma che la santità sia diventata una cosa di massa, ecco, questo consola non poco, nei tempi dei disordini e delle paure. Persino chi dei santi non si fida, non fidandosi dei santificatori. Perché è faccenda anche molto terrena, questa. “Anche la santità è una tentazione”, sosteneva Jean Anouilh in “Becket e il suo re”. Forse per questo somiglia così tanto all'uomo. Che nell'attesa fa ressa intorno al colonnato a caccia del vino, “liquoroso, dotto”, da messa, del magnete con san Michele Arcangelo o del rosario del Papa. O s'affolla nelle librerie di via della Conciliazione. Dove però, prima di sant'Anselmo, viene più alla mano un libro di Corrado Augias.

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