Il Novecento raccontato da un legno storto
“Le biografie sono come le conchiglie: non dicono granchè del mollusco che le abitava”. Oscar Milosz diffidava ancora più delle autobiografie: segnato senza scampo dal “tragico senso del macabro tipico dei polacchi”, il poeta premio Nobel sopravvissuto al nazismo e sfuggito in canoa al comunismo per finire col lottare esterrefatto contro la “stupidità di un occidente” narcotizzato, si vedeva sempre come un “legno storto” invidioso di alberi più dritti.
“Le biografie sono come le conchiglie: non dicono granchè del mollusco che le abitava”. Oscar Milosz diffidava ancora più delle autobiografie: segnato senza scampo dal “tragico senso del macabro tipico dei polacchi”, il poeta premio Nobel sopravvissuto al nazismo e sfuggito in canoa al comunismo per finire col lottare esterrefatto contro la “stupidità di un occidente” narcotizzato, si vedeva sempre come un “legno storto” invidioso di alberi più dritti, un professore che “dava bei voti alle belle ragazze” e “più volte […] tentato di scoprirmi e ammettere che in realtà nulla mi importava fuorché del mio mal di denti”.
I detrattori lo hanno dipinto come “un uomo forte, scaltro, mentre io conosco la mia debolezza e tendo piuttosto a considerarmi un fascio di impulsi, un bambino ubriaco nella nebbia”. Per penetrare nel “tragicomico groviglio” della propria vita occorrerebbe “lo sguardo di Nostro Signore”. Eppure, ormai anziano, “trasformato in una casa aperta alle voci delle persone che ho conosciuto, anche solo attraverso racconti altrui o letture”, Milosz cerca comunque di stendere il proprio personale “Abbecedario” – tradotto adesso anche in Italia presso Adelphi a cura di Andrea Ceccherelli – un elenco alfabetico di “nomi e cognomi con apparente noncuranza”, e che cercano di contrastare la dolente “scomparsa di persone e di cose”. In esergo una citazione di Canetti: “Ogni vita appare ridicola quando la si conosce abbastanza bene. Ma quando la si conosce meglio appare tremendamente seria”.
Le voci comprendono espressioni come “A conti fatti” e la cavalleresca foresta di Brocélande, ma anche l'amico di studi che si unisce ai moti della Sorbona “così, tanto per fare casino” (per poi suicidarsi), l'ammirazione per Ignazio Silone, Dostoevskij e la sua profetica denuncia dell'“erosione della fede religiosa”, Hopper, Whitman, sino alla candida ammissione della voce “Economia. Non ne capisco nulla”. L'ironia talvolta è leggera, perché Rimbaud è una grande poeta, eppure il suo maledettismo “rimarrà a lungo un soggetto ideale per sceneggiati televisivi”, talvolta, quando si trova davanti la compiaciuta supponenza degli intellettuali a buon mercato, quelli che civettano “Il male assoluto? Caro signore, vuole davvero che crediamo nell'esistenza del diavolo?”, allora il sarcasmo è semplicemente senza pietà: è il caso della compagna di Sartre, Simone de Beavouir, una che “sta rapidamente scivolando nel paese delle noterelle in calce alla storia del tempo” e in cui “tutto era adesione alla moda intellettuale del momento. Una cretina.”
Nei corridoi dell'anima del poeta continua a echeggiare il lamento – “perché a me?” – di un compagno di scuola gravemente malato, questo perché “nel profondo di noi stessi, nella parte più intima del nostro essere, siamo convinti che dovremmo vivere in eterno. E percepiamo la nostra caducità, la nostra mortalità, come un sopruso”. La domanda sulla “crudeltà di Dio” non conosce soluzione, e “il libro di Giobbe resta sempre attuale”. Alla voce “Disgusto” si racconta di un distinto aristocratico che insultato da dei bolscevichi ubriachi, quando questi si mettono a sputargli nella minestra, estrae una pistola e si spara in bocca. Eppure nella “tragifarsa” dell'esistenza Milosz registra anche il “primo amore” per una ragazza, gli amici, i benefattori, il mistero per cui “ogni fiume ha la sua anima, che si rivela la prima volta che ne calchiamo le sponde”, e soprattutto l'inesausta “curiosità” per il mondo come “un infinito serbatoio di particolari”, alcuni dei quali costituiscono delle vere e proprie “benedizioni” capaci di tener testa tutta la vita al male e alla violenza: “L'infatuazione in giovanissima età è un sacramento, un'esperienza di cui rimane viva la memoria per tutta la vita. Considerate le mie molte ferite sarei dovuto diventare un pessimista assoluto, e solo quel precoce dono ricevuto dai cinque sensi può spiegare i miei estatici inni alla vita”. Anche per questo il poeta bambino-ubriaco nella nebbia, ammette ironico ma non troppo che “scampato a prove superiori alle mie forze, la decenza mi impone di credere in Dio. Per gratitudine”.
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