L'asso del male
Il mondo musulmano tremò la mattina del 20 novembre del 1979 alla notizia della battaglia in corso dentro la sacra Grande moschea della Mecca. Le forze di sicurezza saudite stavano infatti cercando di stanare armi alla mano alcune decine di seguaci dell'ennesimo Messia, Juhayman ibn Muhammad al 'Utaybi, che si era proclamato Mahdi e intendeva abbattere la monarchia dei Saud. Durante la battaglia, la Moschea fu ovviamente chiusa, ma non per i grandi mezzi del cantiere che stava raddoppiando l'immenso edificio e che portavano sui fianchi la scritta Saudi Bin Laden Group.
Leggi il ritratto di Bin Laden che il Foglio fece nel 2001 e quello del 2000, esattamente un anno prima l'attacco alle Torri Gemelle
Il mondo musulmano tremò la mattina del 20 novembre del 1979 alla notizia della battaglia in corso dentro la sacra Grande moschea della Mecca. Le forze di sicurezza saudite stavano infatti cercando di stanare armi alla mano alcune decine di seguaci dell'ennesimo Messia, Juhayman ibn Muhammad al 'Utaybi, che si era proclamato Mahdi e intendeva abbattere la monarchia dei Saud. Durante la battaglia, la Moschea fu ovviamente chiusa, ma non per i grandi mezzi del cantiere che stava raddoppiando l'immenso edificio e che portavano sui fianchi la scritta Saudi Bin Laden Group. Il ventiseienne Osama, che si era molto impegnato nella ditta del padre nell'impresa di ampliamento dell'edificio più sacro al mondo per l'islam, rimase sconcertato dall'episodio e lo condannò. Ma non passò un decennio e quella prima, clamorosa, ribellione ai sauditi Custodi dei luoghi santi da parte di un erede degli Ikhwan, i guerrieri che avevano portato al potere la dinastia degli al Saud, quale era quel Mahdi, così come la complessa organizzazione di quell'immenso cantiere edile, diventarono i punti di riferimento estremi dell'esistenza di Osama bin Laden.
Nato il 10 marzo del 1957 da Hamida, nome di nascita A'alia Ghanem, giovane siriana di Latakia e da Mohammed bin Laden, geniale quanto analfabeta fondatore yemenita del gruppo di costruzione omonimo, Osama bin Laden è sempre vissuto in quella grande “non famiglia” musulmana, dai legami parentali diffusi, tipica dei tradizionalisti islamici danarosi, quale era suo padre. Osama infatti era il diciassettesimo su ben 52 o forse 53 figli, che Mohammed ebbe da una decina e più di mogli che, come Hamida, sposava, poi, avutine due o più figli, ripudiava (in modo da averne sempre non più di quattro contemporaneamente, in rispetto tanto formale, quanto ipocrita della sharia), per poi sposarle – costume molto yemenita – con i suoi collaboratori.
Ad Hamida, dopo il ripudio di poco posteriore alla nascita di Osama, era toccato sposare tal Mohammed al Attas, che del Saudi Bin Laden Group era un dirigente di primo piano e fu questa, in realtà, la figura paterna che Osama ebbe, assieme ai tre fratellastri e alla sorellastra. Dal padre vero, tranne le immense disponibilità di denaro e la collocazione sicura nell'impero di famiglia (una delle più grandi imprese di costruzioni del mondo che ha edificato buona parte di Riad e quasi tutte le opere pubbliche dell'Arabia Saudita), Osama ebbe ben poco, anche perché Mohammed bin Laden morì, potentissimo, nel 1967, quando lui aveva solo dieci anni. I suoi biografi, affascinati – et pour cause – dalle sue imprese, hanno sempre sottovalutato il peso che sulla formazione di Osama bin Laden ha avuto il training nella impresa di costruzione dei suoi due padri, quello naturale e quello d'adozione, e questo ha impedito di dare il giusto valore a un aspetto invece determinante in tutta la esperienza di al Qaida: la eccellente capacità di organizzare strutture molto complesse che acquisisce chi dirige immensi cantieri edili in cui operano migliaia di addetti che vanno impiegati secondo moduli cronologici interdipendenti molto complicati. E' questo, oltre alla insuperabile ferocia, il grande apporto che Osama bin Laden ha dato alla evoluzione del terrorismo moderno, ben più di quanto non abbia dato in termini ideologici, politici e ancor meno teologici: il superamento delle tradizionali strutture “conventuali” o per consorterie della tradizione islamica (la grande tradizione degli Ashashin del Vecchio della Montagna di Alamuth), così come delle asfittiche strutture piramidali a cellula del terrorismo occidentale. Osama ha infatti costruito con al Qaida una complessa rete di strutture a “arcipelago”, ognuna indipendente o interdipendente con le altre, senza rapporto gerarchico l'una con l'altra, ma solo “ispirate”, da una eccellente fonte progettuale (Osama e il suo quartier generale) in grado di fornire “format” complessi per sviluppare progetti innovativi di imprese terroristiche a ogni uso e consumo (grazie anche a Internet).
La struttura della complicatissima sequenza di attentati dell'11 settembre 2001, così come l'espansione successiva dei nuclei di al Qaida in tutto il mondo musulmano, dall'Indonesia al Marocco, ha questa indubitabile matrice professionale. Anche perché, secondo Gilles Kepel, in realtà, al Qaida significa solo “Database”, per indicare appunto l'innovativo programma che Osama ha messo a punto per strutturare i rapporti tra le varie cellule.
Ben più debole, s'è detto, la formazione e la stessa struttura culturale e teologica di Osama, che iniziò a Gedda, in un liceo in cui forte era l'influenza di insegnanti egiziani e siriani appartenenti ai Fratelli musulmani che re Faisal dell'Arabia Saudita aveva ospitato in massa nei primi anni Sessanta per offrire un riparo dalle persecuzioni scatenate da Nasser. In particolare, racconterà lo stesso Osama, in quel liceo ebbe una grande influenza su di lui il professore di Educazione fisica siriano che lo affascinò con i suoi racconti sulle best practices del fondamentalismo (inclusa la favola edificante del bimbo che ammazza il padre perché “miscredente”). A quattordici anni, nel 1961, una parentesi occidentale, l'unica, un viaggio prima a Beirut e poi a Oxford assieme a due dei suoi tanti fratelli, documentato da una serie di fotografie in cui appare come uno dei tanti old boy, un po' imbranati, che i ricchi arabi mandavano in giro per l'oriente e per l'Europa, ma di cui non resta nessuna traccia sulla formazione (tranne dicerie varie, ma mai dimostrate, su alcuni suoi stravizi vuoi con bevande, vuoi con ragazze, che sicuramente sono però stati ben praticati da molti dei suoi fratelli, alcuni dei quali hanno vissuto da perfetti occidentali).
A diciassette anni, il suo primo matrimonio (combinato, naturalmente) con una ragazza siriana: Najwa Ghanem, sua cugina da parte di madre, che gli darà molti figli (pare una decina sui 25-30 che lui avrebbe avuto, secondo la Cnn, complessivamente dalle sue quattro mogli), e che dopo il 2005 decise di mettere a reddito tanta e tale parentela, pubblicando un libro, “Growing Up bin Laden” (con i cui proventi comprò una bella casa a Latakia in Siria nel 2010), scritto assieme al figlio Omar che ha poi profittato della scabrosa parentela per fare soldi organizzando “corse di cavalli per la pace” e per farsi pagare lauti gettoni di presenza per apparire in varie trasmissioni televisive (con grande fastidio e scandalo degli altri fratelli, alcuni dei quali sono invece stati a fianco del padre, altri hanno fatto vari mestieri, uno è un affermato pubblicitario). Poco si sa delle altre mogli di Osama, si sospetta che una sia in Iran – Teheran anni fa ha confermato l'ingresso nel paese di uno dei figli di Bin Laden insieme “a qualcuno legato alla famiglia” – mentre un'altra, di origine saudita, sarebbe tornata in patria e la quarta sarebbe rimasta al suo fianco.
Contemporaneamente al matrimonio, la vera svolta nella formazione di Osama: nella Università Abdulaziz ibn Saud di Gedda la frequentazione dei corsi dell'egiziano Mohammed Qutb e del giordano-palestinese Abdullah Azzam. Il primo era fratello di Sayyid Qutb, impiccato da Nasser, e ideologo di riferimento dell'ala estremista dei Fratelli musulmani (che assassinò Anwar el Sadat nel 1981). Da lui Osama apprese l'odio oltre il limite dell'idiosincrasia verso i costumi dell'occidente (in particolare i “liberi costumi” delle donne occidentali) e una lezione politica tanto semplice, quanto basilare: un vero musulmano non solo può, ma deve uccidere il faraone, soprattutto quando questi si mascheri da falso musulmano. Qutb ha avuto infatti la capacità di elaborare una proposta facilmente comprensibile e apparentemente risolutiva per il dilemma che colpì, a iniziare dal XX secolo, tanti giovani come Osama, sudditi di nazioni apparentemente fedeli al Corano, ma che in realtà sono dominate da élite che conducono una vita scandalosa, come quella dei 6 mila principi della corte saudita. Come fece Maometto, quando distrusse gli idòla pagani venerati alla Mecca (il “regno dell'Ignoranza”), i veri musulmani – sosteneva Qutb – devono abbattere i nuovi idoli del potere, uccidere i regnanti falsi-musulmani e instaurare i principi di vita degli anziani (salaf, da qui salafiti) come si fece durante il governo dei primi quattro Califfi, i “ben guidati”, alla morte del Profeta. Abdullah Azzam, professore di Giurisprudenza islamica, come i due Qutb affiliato ai Fratelli musulmani, aggiunse a questa semplice indicazione programmatica il proprio eccellente fascino personale, la propria capacità di convinzione e soprattutto l'esempio: fu tra i primi a trasferirsi in Afghanistan per combattere l'invasione dei “senza Dio” sovietici e da lì a chiamare a sé intere leve di giovani sauditi.
Osama si impegnò in Afghanistan sempre forte delle caratteristiche, oltre che delle immense disponibilità, della “ditta di famiglia”. Col beneplacito del principe Turki bin Faisal, responsabile del Mukhabarat, i servizi segreti sauditi, a cui gli Stati Uniti (in piena crisi dopo i colpi subiti prima in Vietnam e subito dopo in Iran) avevano affidato il supporto della resistenza afghana, il giovane rampollo dei Bin Laden nel 1979 diventò uno dei responsabili del Maktab al Khidamat (Mak), l'organizzazione che convogliava denaro, armi e combattenti dall'Arabia Saudita per la guerra afghana. Compito che il ventiduenne Osama, il quale non proseguì gli studi ma aveva già esperienza nell'impresa di famiglia, affrontò con entusiasmo e con grande efficienza, eccitato anche dalla fatwa emessa dall'amico Azzam (di lì a poco morirà combattendo i sovietici) che obbligava al jihad in terra afghana tutti i musulmani.
Nei primi anni Ottanta, come spiega Gilles Kepel, l'impegno armato in Afganistan era tanto di moda tra i principi sauditi che si organizzavano delle specie di “settimane bianche del jihad”. I rampolli delle famiglie nobiliari del Golfo si facevano depositare da elicotteri, a proprie spese, Suv e armamenti sui più impervi monti afghani e per alcune settimane partecipavano ai frisson della guerriglia antisovietica, salvo poi tornarsene in patria, agli agi di sempre, dopo poco. In questo contesto, Osama non solo centralizzò e controllò il flusso di enormi capitali, ma entrò anche in contatto e in amicizia con i figli della crème de la crème delle famiglie saudite e degli Emirati, un retaggio di conoscenze che gli sarà utile negli anni della clandestinità. Terminata nel 1989 con una vittoria l'esperienza afghana, Osama offrì la propria rete di contatti armati alla corte saudita per difendere il regno dalla minaccia portata dall'invasione del Kuwait da parte di un Saddam Hussein che palesemente mirava in realtà a Riad. E qui avvenne la rottura, perché re Fahad optò invece per l'alleanza con gli Stati Uniti e quindi Osama e i suoi mujaheddin – con buona parte degli ulema sauditi – fecero di questa decisione un motivo di scandalo e di oltraggio all'islam. Lo stesso scandalo che aveva portato 60 anni prima, nel 1929, alla rivolta degli Ikhwan contro l'alleanza di Abdulaziz ibn Saud con l'Inghilterra. Con quell'atto blasfemo di un'alleanza con “crociati ed ebrei” per combattere un musulmano sulla terra dell'islam, secondo gli insegnamenti di Qutb e Azzam, il re saudita e la sua corte si erano dimostrati “falsi musulmani”, e quindi andavano abbattuti. Tesi, si badi bene, condivisa da un ampia platea – incluso Yasser Arafat – che Hassan al Turabi, ideologo sudanese, convocò a convegno a Kartoum; a questo seguì l'ospitalità concessa dal governo sudanese allo stesso Osama che ricambiò generosamente, costruendo un'autostrada e cercando di uccidere nel 1996 Hosni Mubarak in visita nel paese: il presidente egiziano scampò per puro caso alla morte.
In Sudan, grazie alla rete fondamentalista di al Turabi e all'apporto del suo braccio destro Ayman al Zawahiri (ricco rampollo di una famiglia egiziana, allievo di Qutb e complice nell'assassinio di Sadat), al Qaida fece il salto di qualità in due direzioni: definì la sua piattaforma politica esposta nella dichiarazione del “Jihad contro crociati ed ebrei” del 1998, in cui incluse nel Dar al islam da riconquistare persino l'Andalusia, e internazionalizzò la scacchiera delle proprie iniziative jihadiste, a partire dal primo attentato alle Twin Towers del 1993. Là dove l'aspetto centrale era proprio l'abbattimento di un “idolo” del culto “pagano” dell'occidente, sulle orme di quanto aveva fatto Maometto alla Mecca nel 622 d. C. La successione degli attentati successivi è nota e straordinariamente composita: dalle ambasciate di Dar es Salaam e Nairobi del 1998, all'attacco alla Us Cole ad Aden nel 2000, alle Twin Towers nel 2001, per poi proseguire con gli attentati di Bali, Riad, Madrid, Londra, e decine di altri sino all'ultimo della settimana scorsa di Marrakech. Strategia terroristica con lo scopo primario dichiarato di “riconquistare all'islam la custodia dei Luoghi santi” (e quindi di abbattere la dinastia dei sauditi), e di colpire l'occidente e Israele per impedire ai regimi dei “falsi musulmani” di mantenersi al potere grazie al suo apporto economico, politico e militare. La liberazione della Palestina, in questo disegno strategico (checché se ne pensi in occidente) è sempre venuta al quarto o quinto posto. La risoluzione del contenzioso israelo-palestinese, per la galassia di al Qaida, non avrebbe minimamente comportato un cambiamento di strategia, né una flessione di iniziativa terroristica.
Nota è anche la eccellente attitudine del figlio di uno dei più grandi palazzinari del globo di inventare un look a suo modo popolare, assolutamente televisivo. Dopo la decisione di George W. Bush di attaccare il santuario afghano in cui si era rifugiato in seguito all'allontanamento dal Sudan nel 1996 (dove stranamente il principe saudita Turki, suo ex sponsor, che pure si era fatto consegnare il terrorista Carlos, non ne aveva ottenuto l'estradizione), Osama bin Laden scelse un percorso carsico. Poi, clamorosamente, riapparve, tramite al Jazeera, profetico, in una grotta (e la grotta, nelle mistica musulmana è fondamentale, perché sede della prima Rivelazione dell'arcangelo Gabriele a Maometto), kalashnikov al collo, occhi ispirati, barba tanto lunga quanto rettangolare, turbante impeccabile e Corano alla mano. E' stata questa sua, la prima rappresentazione iconografica in format televisivo di un topos fondamentale della politeia musulmana: l'Hijira. Egira, allontanamento dalla Mecca politeista nel 622 d. C. verso la pòlis del retto governo (Medina significa, appunto pòlis, il nome della città era Yutrb) è il discrimine da cui l'islam data l'inizio del tempo dell'uomo. Hijira erano le colonie che gli Ikhwan di Abdulaziz ibn Saud, avevano fondato nel Neged, per poi ribellarsi al re che li sconfisse e perseguitò e nel cui nome i nipoti degli Ikhwan superstiti entreranno in al Qaida. Osama mise in scena dunque la prima Hijira quale format televisivo: ieratico, lento nel cantilenare, il dito levato al cielo la trasformò in un cult. Decine sono i suoi messaggi da allora in poi, con non monocordi variazioni tematiche (inclusi il rimprovero a Obama di avere tradito il Protocollo di Kyoto e una divagazione sui titoli subprime), come decine gli attentati e gli sgozzamenti televisivi di “cani infedeli” (a iniziare da quello del giornalista del Wsj Daniel Pearl nel gennaio 2002) da parte di accoliti da lui istigati alla ferocia più bieca.
Meno nota la sua capacità di tessere alleanze tanto discrete, quanto strategiche. Non solo quella palese con i talebani del Mullah Omar, non solo quella con i terroristi iracheni del macellaio sgozzatore al Zarkawi, ma anche quella di insospettabili personaggi della corte saudita, e soprattutto quella con i vertici militari del Pakistan. Era stato lo stesso Perwez Musharraf, nel 1999, a concordare con al Qaida gli attentati in Kashmir, per far deflagrare una nuova guerra indo-pachistana. Dopo l'11 settembre, Musharraf, ha tradito l'alleanza che aveva intessuto con Osama e licenziato i generali Ahmed Mahmood, capo dell'Isi, Muhammad Aziz Khan e Muzaffar Usmani, che negli anni precedenti avevano facilitato la presa del potere a Kabul dei talebani. Ma l'appoggio dei tre generali e dei loro fiduciari non è evidentemente mai venuto meno a un Osama che era ormai tanto sicuro – sbagliando – di non poter essere tradito, da decidere di abbandonare la sua mistica grotta per andare infine a morire in un condominio, sia pure superblindato.
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