L'amour fou
L’amore folle era fare le valigie e andarsene in albergo, quando Yves Saint Laurent tornava all’alba strafatto e dopo pochi minuti usciva di nuovo con altri uomini
L’amore folle era fare le valigie e andarsene in albergo, quando Yves Saint Laurent tornava all’alba strafatto e dopo pochi minuti usciva di nuovo con altri uomini. Ma l’albergo era sempre nei paraggi, al massimo Pierre Bergé si spingeva fino al Plaza e stava via un mese: “Non sono mai riuscito ad andare più lontano della fine della sua strada, era difficile per me separarmi da Yves”.
Per cinquant’anni di amour fou Pierre Bergé ha cucinato, fatto la spesa, trovato i soldi, messo in fila le modelle prima delle sfilate, parlato con gli agenti immobiliari, badato alle cose terrene, mentre Yves Saint Laurent sprigionava genio e nevrosi, vestiva Laetitia Casta di fiori e capelli, si faceva fotografare da Andy Warhol senza occhiali da vista. Dal 1958, quando si conobbero al funerale di Christian Dior, decidendo quasi subito di vivere insieme, i loro ruoli non si sono mai confusi: Bergé non avrebbe mai chiesto a Yves di cucinare un uovo o di pagare una bolletta, Yves diceva a Bergé, innamorato dei romanzi di Gustave Flaubert: “Basta con questa Bovary, diventi pazzo!”, poi sorrideva in quel modo miope e timido e scivolava di nuovo via nell’altro mondo (“Marcel Proust mi aveva insegnato che la magnifica e lamentosa famiglia di nevrotici è il sale della terra”, disse Saint Laurent, per vestire meglio la propria depressione).
“L’amour fou” è il documentario di quella vita folle e perfino tranquilla (oggi in libreria per Feltrinelli Cinema, con un libro che contiene estratti delle “Lettres à Yves”, che Pierre Bergé continuò a scrivergli fin dopo la morte, nel 2008) ed è anche il film sull’asta del secolo, in cui Bergé ha venduto tutta la collezione d’arte che loro due avevano creato insieme (più di settecento quadri, cifre sobrie come ventisei milioni di euro per un oggetto). “Non credo in niente, non credo all’anima, né alla mia né a quella di queste cose: i becchini dell’arte stanno per arrivare, cominciano le esequie della nostra collezione”, dice Bergé con sguardo prosciugato, poi parla dell’uomo “a cui ho chiuso gli occhi”.
Una musa di Yves, Loulou de la Falaise, racconta che era il 1968 quando li incontrò, lei aveva ventun anni: “I miei genitori erano divorziati, e comunque era la prima volta che incontravo una coppia che stava davvero insieme”. Erano una vera solida coppia, con enormi crisi, messinscene, teatralità, liti furibonde, alberghi in fondo alla strada, ma senza possibilità di lasciarsi. “Ho sperimentato molte forme di angoscia, molte forme di inferno, ho conosciuto la falsa amicizia dei tranquillanti e degli stupefacenti, la prigione della depressione e quella delle case di cura”, raccontò Saint Laurent dicendo addio al suo mestiere, e in tutta questa impossibilità di stare bene (lui stava bene solo due volte l’anno, la sera dopo le sfilate, quando sbuffando usciva a prendersi le ovazioni, ma già il giorno dopo la contentezza svaniva), Pierre Bergé era sempre lì, ad accudire l’infelicità, a metterla in ordine.
Però c’è, in questo film, un vecchio video quasi allegro in cui a Yves Saint Laurent giovanissimo (divenne famoso a 21 anni) viene fatto il solito questionario di Proust. La qualità che preferisci in un uomo? I peli. Il tuo sogno di felicità? Un grande letto pieno. La più grande disgrazia? Essere calvo. Come vorresti morire? In un grande letto pieno. E ride da solo, mentre Bergé probabilmente lo guarda da dietro la telecamera, e dice: basta, adesso basta, fatelo riposare.
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