Il mio agguato ad Abbottabad
Dicono che Abbottabad, la città dove è stato ucciso Osama bin Laden, sia un posto di villeggiatura. Negli anni Settanta non lo sembrava. Abbottabad è in verità abbastanza vicina a una stazione di villeggiatura, forse la più famosa e frequentata del Pakistan occidentale, Murree. Murree aveva un aspetto troppo europeo per attrarre gli europei.
Dicono che Abbottabad, la città dove è stato ucciso Osama bin Laden, sia un posto di villeggiatura. Negli anni Settanta non lo sembrava. Abbottabad è in verità abbastanza vicina a una stazione di villeggiatura, forse la più famosa e frequentata del Pakistan occidentale, Murree. Murree aveva un aspetto troppo europeo per attrarre gli europei. C'erano case, edifici pubblici e perfino una chiesa, in quello stile gotico senza età che gli inglesi hanno seminato in giro per l'India. Dagli inglesi Murree era stata fondata, alla metà dell'Ottocento, come sanatorium per i soldati impegnati sul difficile confine afghano. A nessuno, neanche a Colette e a me sarebbe venuto in mente da deviare sulla strada dell'India per andare a dare un'occhiata a Murree, se non per causa di forza maggiore. Le forze maggiori erano più di una. La principale era la guerra. Il Pakistan era in guerra con l'India. Un unico posto di frontiera veniva aperto il mercoledì, per gli stranieri.
Chiunque intendesse passare in India doveva presentarsi una settimana prima all'ambasciata svizzera di Islamabad per mettersi in lista. Islamabad era una sorta di città artificiale dove nessuno sarebbe rimasto per mezz'ora più del tempo necessario per sbrigare la pratica. Si poteva passare la settimana a Rawalpindi, se il caldo non fosse stato intollerabile, l'albergo scorante e la polizia piuttosto ansiosa di arrotondare lo stipendio con piccole angherie sui turisti. Per fortuna avevamo letto il romanzo di Rudyard Kipling “L'uomo che volle essere re”. Utilizzare quella settimana di sosta forzata per fare un salto in Kafiristan a controllare se quei famosi kafiri, ovvero i pagani discendenti dei signori del regno di Bactriana, esistevano ancora, ci parve una bella idea. Un'idea bellissima, ci dissero nella primaria agenzia turistica di Rawalpindi, ma sfortunatamente in quel momento irrealizzabile. Come forse sapevamo, il Pakistan era in guerra e capitava che il Kafiristan si trovasse in zona di operazioni. I voli commerciali erano stati sospesi. Se proprio non riuscivamo a sopportare il caldo di Rawalpindi potevamo raggiungere in macchina Murree, che non distava che una ventina di miglia dalla città. Ci saremmo trovati bene, giacché proprio a Murree si trasferivano d'estate gli inglesi residenti a Rawalpindi e dintorni.
La corsa in montagna fu piacevole, la strada era bella e mi permise di formulare il concetto secondo cui le conifere rendevano i paesaggi di montagna simili in tutte le latitudini. Se non fosse stato per qualche scimmia e una nettarina, un piccolo emulo locale dei colibrì americani, avremmo potuto credere di essere in Svizzera. Anche la cittadina, di cui non avevamo alcuna immagine mentale, si presentò come una stazione alpina d'estate. Le case erano di stile europeo e le strade brulicavano di gente vestita all'europea. Ci volle quasi mezz'ora perché la buona impressione svanisse. Quando al terzo albergo ci dissero che non c'erano stanze libere, città, luce, clima e villeggianti non ci sembrarono più così accoglienti. Di solito sulla strada dell'India c'era sempre qualche compagno di viaggio disposto ad aiutarti, a darti qualche indicazione, a suggerirti una sistemazione, ma a quanto pareva a Murree eravamo gli unici non pachistani. Non sapendo dove sbattere la testa, ci rivolgemmo con qualche timore alla polizia, la quale fu invece gentilissima, professionale, completamente diversa da quella che avevamo conosciuto a Rawalpindi. Un ufficiale fece qualche inutile telefonata, scusandosi tra l'una e l'altra per il clima torrido che riempiva alberghi e pensioni e per l'indelicatezza dei suoi connazionali che avevano occupato fino all'ultimo letto senza prevedere che avrebbero potuto arrivare in città degli ospiti. Alla fine si arrese: non prima però di averci consigliato di provare alla casa di vacanza degli ufficiali dell'esercito.
Per inclinazione e posizione ideologica, una casa di riposo per soldati era l'ultimo luogo dove ci saremmo rivolti. Ma era anche l'ultimo luogo dove potevamo rivolgerci. Un portiere altezzoso ci fece salire al primo piano e bussò a una porta. Senza alzarsi dalla toilette, ci ricevette una donna europea sulla cinquantina, biondotinta, con i capelli in disordine, e una vestaglia stazzonata. Sembrava l'incarnazione dell'avventuriera europea arenata al tramonto della vita a Shanghai, poco prima dell'arrivo dei giapponesi, o dei comunisti di Mao, come se ne vedono nei film. Ci disse che non aveva posto, ma quando seppe che eravamo italiani lo trovò. Non mi ricordo come si chiamasse, ma ricordo bene la sua storia. Era yugoslava e musulmana, bosniaca immagino. Amava gli italiani perché aveva conosciuto il marito a Napoli durante la guerra. Cosa facesse lei a Napoli durante la guerra non lo disse e noi non cercammo di immaginarlo. Il marito invece era colonnello dell'esercito inglese. Era anche un khan di una provincia ai piedi dell'Himalaya. Così, quando si sposarono, la ragazza yugoslava che aveva conosciuto il khan per le strade di Napoli divenne begun, come dire principessa.
Con il marito partecipò nel 1947 alla fondazione del nuovo stato islamico del Pakistan, ebbe un figlio, visse appagata. Quando il marito morì, il governo le assegnò come pensione la direzione di quella casa di riposo per ufficiali. Vi trascorreva l'estate con la famiglia. Sempre con la famiglia, il resto dell'anno viveva a Lahore. La famiglia era composta dal figlio, un bel ragazzo alto che vestiva con eleganza all'europea e che sperava di venire a lavorare in Italia, asserendo di conoscere già la lingua, poiché sapeva dire buon giorno, buona sera e come sta, e da sua moglie che gli era cugina, essendo figlia della sorella della madre.
Al momento la moglie era forse la donna più desiderata di tutto il Pakistan nord-occidentale. Era bionda come la zia, come la zia era piuttosto formosa, qualità molto apprezzata nel subcontinente indiano, aveva un bel viso, era europea e musulmana. In attesa delle urì era quanto di meglio un uomo pachistano poteva sognare. I primi giorni in quello strano acquario isolato dal resto del paese trascorsero tranquilli. Era interessante vedere gli ufficiali pachistani muoversi a loro agio in quel presepe di gusto anglosassone e ottocentesco. Sono sicuro che pur di sentirsi a loro agio nella parte di gentlemen inglesi si sarebbero adattati a frequentare la chiesa. Era buffo scoprire che l'articolo più venduto nei negozi di souvenir era il classico frustino di giunco con il pomello di ottone con su lo stemma della Gran Bretagna che gli ufficiali inglesi solevano portare sotto braccio.
Con quel bastoncino sotto braccio molti giovani ufficiali pachistani camminavano su e giù per la via principale della città, la stessa via che fino al 1947 era stata vietata ai loro genitori. Era interessante incontrare ogni tanto signori che non vestivano all'europea, ma con grande eleganza accoppiavano una bustina di astrakan a completi grigi di taglio perfetto, con la giacca che arrivava alle ginocchia. Ci dissero, ma non ce n'era bisogno, che quei signori erano gli aristocratici dei dintorni. La cosa più piacevole, era quella di essere accompagnati ovvero la possibilità di andare dovunque senza il timore di fare la cosa sbagliata, di essere in pericolo. Eravamo così tranquilli, ci sentivamo così protetti che non ci allarmammo neppure quando, accompagnati, capitammo di nuovo nella terra delle tribù. Di tutto il viaggio in oriente due erano le tratte in cui bisognava comportarsi secondo regole precise: il lungo tratto di strada sterrata in Turchia, da Erzurum al confine con l'Iran e la discesa del Khyber Pass, dal confine afghano fino a Peshawar. Il Khyber, si diceva, doveva essere percorso di giorno, senza fermarsi e soprattutto senza lasciarsi andare a fotografare i fieri cavalieri patani e soprattutto le loro donne che a volto scoperto e in abiti coloratissimi trotterellavano a piedi accanto al cavallo.
Il secondo giorno, a cena, la nostra ospite ci comunicò che l'indomani saremmo andati in gita ad Abbottabad. Per essere più liberi, per goderci meglio la giornata non avremmo preso la loro Mercedes con l'autista, ma la nostra macchina, una Volkswagen decappottabile. Non avevamo la più pallida idea di dove Abbottabad fosse, ma non pensammo neppure di obiettare: in oriente l'ospite è un po' prigioniero, costretto a sottostare alle premure del padrone di casa. Ad Abbottabad madre e figlio dovevano incontrarsi con un avvocato che gestiva le loro proprietà nella zona, noi avremmo avuto la possibilità di goderci la passeggiata. Sulla strada poco trafficata lungo il fiume capitava spesso di incontrare animali selvatici. Il figlio, un po' mitomane, sosteneva di avere incontrato una volta un leopardo in pieno giorno. Incontrammo a casa sua il governatore della provincia, ma per strada non vedemmo né animali nè persone, se si eccettuano due coppie di soldati con l'aria trasandata che per due volte sollevarono una stanga per lasciarci passare, senza fare domande, senza controllare alcunché. Non c'era dubbio tuttavia che stavamo ritornando nella tribeland, ma la cosa non ci allarmò, essendo noi in compagnia di pratici locali. Abbottabad ci accolse con un vasto mercato a destra della strada. Era un mercato fisso, con i classici stand coperti, fatti di materiale improvvisato. Non avevamo il coraggio di chiedere di visitarlo, non volevamo fare i turisti, ma ci immaginavamo che fosse pieno di meraviglie. Non si raccontava che da quelle parti capitava di trovare al mercato interi orci di monete d'argento dei tempi del regno di Battriana, o che si vendessero al prezzo del metallo monete d'oro dei regno kushana? In nostro soccorso venne la nuora-nipote, che insistette parecchio perché ci fermassimo. Al mercato non ci furono più dubbi: eravamo in terra di patani, gli uomini che “portano il fucile e sanno usarlo”. Molti dei venditori portavano il classico berretto di feltro, arrotolato come un copricapo rinascimentale, e tenevano appoggiato sul fondo della loro baracchetta il fucile. Mi sentivo così tranquillo di passeggiare con pachistani fra gli astuti afghani che cedetti alla tentazione di esaudire un vecchio desiderio. Non solo mi comperai un loro berretto, ma me lo infilai in testa come per dire: ragazzi eccomi, non ho più paura di voi, sono dei vostri.
Il mercato traboccava di roba, ma non della roba che piaceva a me. C'era tutto quello che il contrabbando internazionale poteva offrire. Sorprendeva che certi marchingegni superflui persino in occidente potessero fare tanta strada per essere venduti in un mercato in mezzo al nulla. C'erano molte armi, perfino una mitragliatrice, che non mi pareva però troppo moderna, per quello che posso intendermi io di armi. D'altronde non erano copie di vecchi modelli anche i fucili prodotti dai laboratori artigianali locali? Fui costretto a sorbirmi una quantità di pezze di vistosi tessuti made in Japan, troppo lucidi e troppo sfrigolanti per assomigliare anche da lontano alla seta. La giovane sposa ne desiderava alcuni, ma di uno in particolare non sembrava potere fare a meno. Costava poche rupie, ma aveva già avuto un vestito nuovo la settimana prima.
Se i principi educativi di famiglia fossero stati meno rigidi, la giornata sarebbe andata in tutt'altro modo. Da quel momento la giovane sposa mise la piva e non proferì parola. Come una bambina si rifiutò perfino di salutare l'avvocato che era un bell'uomo giovane e elegante, con la sua bustina d'astrakan e l'abito grigio di buon taglio dell'upper class pachistana. Noi eravamo un po' disturbati perché non riuscivamo a goderci una città dove difficilmente un occidentale aveva occasione di mettere piede. Di regola le città in oriente sono brutte, perfino squallide con la loro architetture sommarie, provvisorie, senza alcuna grazia all'esterno. Abbottabad non faceva eccezione. Più che a Murree, che si trovava a poche decine di miglia di distanza, assomigliava a molte città afghane a centinaia di miglia in linea d'aria, oltre le montagne. C'erano frotte di bambini che assaggiavano in modo preoccupante la resistenza di ogni particolare della carrozzeria della macchina e cercavano un mezzo per aprire il cofano, molti uomini portavano il solito fucile, il solito pistolone. C'erano mullah e non ricordo di avere visto nessuno vestito all'occidentale. Mi mise di buon umore quello che mi parve un miraggio. Trainato da un cavallo patito, passò un carretto. Portava una decina di vecchi tutti vestiti in marrone, tutti con quello straccetto arrotolato in testa che in Afghanistan fa la funzione di turbante, tutti con la barba grigia, tutti, e non volevo credere ai miei occhi, con un trombone sul grembo, un trombone inteso non come strumento musicale, ma come schioppo con la bocca della canna a tromba. Non sapevo a chi chiedere chi fossero, da dove provenissero quelle armi improbabili. Ormai eravamo tutti nervosi. Quando l'avvocato ci invitò a restare per la notte, rifiutammo. Rifiutò per tutti la capobranco, ma ne fui felice. Al colore grigio locale preferivo la sicurezza della casa di riposo per soldati. Partimmo per arrivare prima del tramonto. Ma passando davanti al mercato la giovane sposa ritrovò la parola: se non le avessero comperato la stoffa che voleva sarebbe partita per la Yugoslava per non tornare mai più. Ci si fermò al mercato e si contrattò a lungo, per poche rupie. Sette facevano un dollaro, mi pare, al cambio legale. Eravamo appena montati in macchina, rallegrati dal buon umore della giovane ricattatrice quando, come succede a quelle latitudini, il sole calò di colpo. La strada non era lunga, ma era dissestata. Infatti forse a neppure un miglio da Abbottabad la trovammo attraversata da sassi. Vecchia abitudine orientale di usare i sassi come triangolo e poi lasciarli lì, pensammo, mentre Colette che era alla guida scendeva a liberare la strada.
I nostri ospiti erano ammutoliti. Infatti Colette stava per togliere l'ultimo sasso quando da un cespuglio uscì un tipo con un berretto identico al mio e tirò una fucilata. Credo che avesse mirato a Colette. Credo che avesse una cattiva mira. Credo che avesse un fucile a un colpo, perché Colette riuscì a rimettere in moto. Il cacciatore perdette l'occasione della sua vita: tre donne da vendere, una macchina in buono stato, denaro e una macchina fotografica di marca, lo avrebbero fatto da quelle parti un uomo ricco. Quando finalmente a Murree andammo in processione a denunciare il fatto alla polizia, il solito ufficiale cortese ci spiegò che non poteva farci nulla, che da quelle parti di notte non entrava neppure l'esercito. Non lo sapevamo?
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