La versione di Mori

Claudio Cerasa

“Io però l'avevo detto che quello lì non sa usare nemmeno un minchia di Photoshop…”. La prima persona in assoluto a suggerire ai magistrati della procura di Palermo una certa cautela nel valutare l'attendibilità delle parole utilizzate in questi anni dal testimone più famoso d'Italia – “quello lì”: ovvero Massimo Ciancimino, 48 anni, palermitano, figlio di don Vito Ciancimino, detto, per varie ragioni che approfondiremo in queste righe, “il pataccaro” – è stato senza dubbio il generale Mario Mori.

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    “Io però l'avevo detto che quello lì non sa usare nemmeno un minchia di Photoshop…”. La prima persona in assoluto a suggerire ai magistrati della procura di Palermo una certa cautela nel valutare l'attendibilità delle parole utilizzate in questi anni dal testimone più famoso d'Italia – “quello lì”: ovvero Massimo Ciancimino, 48 anni, palermitano, figlio di don Vito Ciancimino, detto, per varie ragioni che approfondiremo in queste righe, “il pataccaro” – è stato senza dubbio il generale Mario Mori.

    Negli ultimi due anni, l'ex capo del Raggruppamento operativo speciale dell'Arma dei carabinieri (insomma, i Ros: quelli che, per capirci, il 15 gennaio del 1993 arrestarono Salvatore Riina, il capo dei capi, il boss dei boss) ha studiato a lungo il profilo di Ciancimino Jr. e dalla prima volta che ha avuto a che fare con il figlio di don Vito non ha più cambiato idea. “Quel signore è un taroccatore di quarta categoria, è un truffatore da quattro soldi, è uno che non sa nemmeno fare un copiaeincolla come si deve. Mi stupisco che in una procura importante come quella di Palermo ci sia qualcuno che non riesca a distinguere una grande verità da una clamorosa patacca, e d'altra parte mi sorprende che in giro ci siano ancora così tanti pm che si comportano come non dovrebbero comportarsi, che non fanno le verifiche che dovrebbero fare, che non chiedono i riscontri che dovrebbero pretendere e che troppe volte, nel condurre le loro inchieste, si sono mossi proprio come quei cronisti distratti, diciamo così, che dovendo scrivere un articolo si preoccupano di raccattare solo quelle notizie, quelle voci e quelle testimonianze utili a raccontare non tanto una verità ma soltanto, mi verrebbe da dire esclusivamente, le proprie tesi precostituite. E per quanto mi riguarda, vedete, io credo che ormai sia chiaro cosa cercano di dimostrare, nel mio processo, i due pm della procura di Palermo”.

    “I due pm della procura di Palermo” si chiamano Antonino Ingroia e Antonino Di Matteo e sono i due magistrati che da due anni e mezzo guidano l'accusa nel processo in cui il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono indagati per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Un processo che era nato, sì, per dimostrare il presunto reato commesso da Mori e Obinu nel pomeriggio del 31 ottobre 1995 al bivio di Mezzojuso (bivio di un piccolo comune a pochi chilometri da Palermo in cui Mori e Obinu, secondo l'accusa, avrebbero accuratamente evitato di arrestare Bernardo Provenzano) ma che, tra una cosa e un'altra, tra un interrogatorio e un'intervista in prima serata, alla fine si è trasformato in qualcosa di diverso: anche grazie alle parole di quel Massimo Ciancimino che, nonostante sia finito in carcere due settimane fa per avere falsificato un documento del padre per calunniare l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro, il 10 maggio, data della prossima udienza del processo Mori, sarà regolarmente in aula a testimoniare contro il generale. E la nostra conversazione con Mori comincia proprio da qui.
    “Vedete – dice Mario Mori fissando un punto indefinito fuori da una delle finestre del suo ufficio che si affaccia sui giardini di piazza Venezia – ormai qui mi sembra evidente che in questo processo non si sta più ragionando attorno alla famosa accusa di favoreggiamento aggravato ma si sta cercando di fare un'operazione a mio avviso diversa. Si sta tentando di riscrivere in modo arbitrario un momento chiave della storia dell'Italia, si sta tentando in tutti i modi di dimostrare che i Ros furono al centro di una famigerata trattativa tra lo stato e la mafia e si sta tentando di sostenere che dietro la morte di Paolo Borsellino, in fondo fondo, c'era proprio il generale Mori. E io, credetemi, non ce la faccio più a vedere in giro tutte queste persone che cercano di falsificare la storia del nostro paese”. Mori si ferma un attimo, riprende fiato, si toglie di scatto la giacca, risponde a un paio di messaggini, poi si alza dalla sedia, inizia a rovistare in mezzo a un cumulo di documenti accatastati sul tavolo, accende il computer, infila una chiavetta sul retro del suo MacBook, apre un documento in Power Point, aspetta qualche istante, osserva il cronista nascondendo un impercettibile sorriso dietro i sottili baffi bianchi e alla fine, caricato il file, ci mostra alcune immagini.

    “Vedete – dice Mori allungando l'indice della mano destra verso lo schermo del suo pc – tutto comincia da qui”. “Qui” è una delle fotocopie consegnate in questi mesi da Massimo Ciancimino alla procura di Palermo ed è una di quelle pagine che – nonostante siano state certificate come “autentiche” dalla polizia scientifica del tribunale palermitano – l'ex comandante dei Ros considera, semplicemente, “l'esempio massimo della tecnica del taroccamento del signor Ciancimino”. In particolare, la fotocopia a cui Mori fa riferimento è una lettera che Vito Ciancimino avrebbe indirizzato nel 1993 a Marcello Dell'Utri e a Silvio Berlusconi, e che prima di essere inviata ai destinatari sarebbe stata inoltrata per conoscenza dallo stesso Ciancimino a Bernardo Provenzano. Una lettera – pubblicata a pagina 228 del libro scritto da Francesco La Licata e da Massimo Ciancimino un anno e mezzo fa (“Don Vito”, Feltrinelli) – che secondo Ciancimino Jr. testimonierebbe l'evidente presenza di un canale aperto dal papà Vito e dal boss Bernardo Provenzano con il futuro presidente del Consiglio e con uno dei suoi più stretti collaboratori, e che secondo Mori sarebbe invece una delle tante patacche rifilate dal figlio di don Vito.

    Lo sarebbe, dice Mori, per via di tutti quei punti in cui sono visibili i vari copiaeincolla fatti da Ciancimino, lo sarebbe per via di tutte quelle parti di testo malamente sovrapposte le une con le altre e lo sarebbe, insiste il generale, per la semplice ragione che quella lettera presentata da Massimo Ciancimino, in cui l'ex comandante dei Ros è citato in alcuni passaggi, non solo non è mai stata inviata a nessuno ma non è neppure dimostrabile che sia mai esista: “E' una grande patacca e appena i magistrati di Palermo saranno costretti ad ammetterlo non credo che ci faranno una bella figura. Così come una bella figura non credo che l'abbia fatta l'altro mio grande, grandissimo accusatore”. L'accusatore a cui fa riferimento Mori si chiama Michele Riccio, è un ex ufficiale dei carabinieri, è (insieme con Massimo Ciancimino) il principale testimone del processo contro Mori e come Ciancimino ha un passato controverso. Nella sua storia non esistono episodi paragonabili ai tredici candelotti di dinamite trovati qualche giorno fa nel giardino del figlio di don Vito, è vero, ma il passato di Riccio è comunque molto complicato. Riccio venne fatto arrestare da Mori a metà degli anni Novanta a seguito di un'indagine relativa alla famosa Operazione pantera: operazione durante la quale vennero sequestrati 288 chili di cocaina provenienti dalla Colombia nascosti in mezzo a una partita di 33 tonnellate di pesce congelato e durante la quale Riccio avrebbe occultato, per poi rivenderlo sottobanco, cinque chili di cocaina. Per quella storia, Riccio venne condannato in primo grado a 9 anni e mezzo e poi, in secondo grado, a 4 anni e 10 mesi. E fu proprio dopo quelle sentenze che Riccio – la cui condanna a 4 anni e 10 mesi è stata confermata dalla terza sezione penale della Cassazione giusto un mese e mezzo fa – nel 2001 chiese di essere sentito dal pm Nino Di Matteo su “gravi fatti riguardanti la mancata cattura di Provenzano”.

    “Vedete – dice Mori dando un colpo d'anca alla sua seggiola e rivolgendo di nuovo lo sguardo verso il suo interlocutore – io credo che, per come si sono messe le cose in questo processo, ho davvero la possibilità non solo di certificare la mia innocenza ma anche di dimostrare una volta per tutte che il grande teorema della trattativa stato-mafia, per come è stato presentato dai magistrati di Palermo, non ha né capo né coda”. E il ragionamento di Mori comincia ripercorrendo il senso di quegli incontri avuti tra il 1992 e il 1993 con l'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, papà di Massimo. “Diciamo che alla base delle accuse che mi rivolge il giovane Ciancimino c'è una cosa che è giusto che venga resa chiara nel miglior modo possibile. Per capirci: Massimo Ciancimino sostiene che Paolo Borsellino, una volta scoperto che io e don Vito avevamo iniziato a incontrarci per discutere di chissà quali misteriosi argomenti, si sarebbe opposto con tutta la sua forza alla nostra ‘trattativa', e che per questo sarebbe stato fatto fuori da Cosa nostra. Lo dico una volta per tutte e lo dimostrerò, se è necessario, in tutte le sedi opportune: si tratta di un falso storico clamoroso e surreale; ed è per questo che per il bene non solo mio ma anche di tutte le persone che hanno coraggiosamente combattuto in quegli anni contro la criminalità organizzata siciliana credo sia giunto il momento di dire davvero come sono andate le cose in quella tragica primavera del 1992”.

    Primo punto: gli incontri con don Vito. “Con Vito Ciancimino io mi sono effettivamente incontrato durante il 1992 ma al contrario di quanto sostiene Massimo Ciancimino i miei incontri non sono avvenuti prima della morte di Paolo Borsellino. Borsellino è morto il 19 luglio del 1992 e i miei incontri con l'ex sindaco di Palermo sono avvenuti in quattro date precise: 5 agosto 1992, 29 agosto 1992, primo ottobre 1992 e 18 ottobre 1992. Quattro date che sono testimoniate dalla mia agenda personale e che sono state confermate in più occasioni dallo stesso padre di Massimo Ciancimino. In due occasioni. La prima fu nel corso di una dichiarazione spontanea resa da Vito Ciancimino il 17 marzo 1993, proprio al pm Antonio Ingroia. La seconda fu nel corso di una perquisizione avvenuta il 17 febbraio 2005 nell'abitazione palermitana di Massimo Ciancimino, durante la quale i carabinieri ritrovarono un manoscritto di Vito Ciancimino in cui l'ex sindaco di Palermo aveva descritto i nostri incontri esattamente come ve li sto riportando in questo momento. E se mi permettete, credo sia surreale che, a contestare quelle date, ci siano lo stesso pm che nel 1993 interrogò don Vito, e che in quell'occasione non ebbe nulla da eccepire, e lo stesso figlio di don Vito che oggi sembra sostenere di conoscere la verità meglio di quanto la conoscesse il padre. Un po' curioso, non trovate?”.

    Secondo punto: il rapporto con Borsellino. “Un altro falso storico che qualcuno sta cercando di costruire riguarda il rapporto dei Ros con Paolo Borsellino. Ciancimino Jr. sostiene che il sottoscritto, e i suoi colleghi del Ros, vivessero in conflitto con il giudice di Palermo ma nel momento in cui i magistrati palermitani cercano di dimostrare una simile realtà è come se si dessero una zappa sui piedi: perché, e questo è la storia che lo dimostra, se negli anni a cavallo delle stragi di Capaci e via D'Amelio c'era qualcuno che aveva cattivi rapporti con Borsellino e, in parte, con Falcone quel qualcuno non erano i Ros ma era un pezzo della procura di Palermo”. Mario Mori prende fiato e racconta una storia che non è nuova ma che comunque, in questo contesto, può essere utile ricordare. “Con Falcone prima e con Borsellino poi, i Ros avevano iniziato a condurre delle indagini precise su un'inchiesta che la procura di Palermo cercò in tutti i modi di ostacolare: la famosa inchiesta Mafia e appalti. Un'inchiesta sul sistema di condizionamento degli appalti pubblici da parte di Cosa nostra nata nel 1989 il cui primo plico contenente l'informativa sull'indagine fu consegnato da me il 20 febbraio del 1991 al procuratore aggiunto di Palermo, Giovanni Falcone. E ricordo perfettamente che in quei mesi, fino a poche settimane prima dalla sua morte, Falcone mi diceva di agire con cautela, perché nell'ambiente della procura non tutti vedevano di buon occhio l'indagine, e alcuni la temevano: più o meno le stesse parole che qualche mese dopo avrebbe usato con me Paolo Borsellino”.

    Mori, a questo proposito, rammenta un incontro che spesso i magistrati di Palermo, e i loro validissimi testimoni d'accusa, dimenticano e cancellano. “Nonostante oggi i Ciancimino e i Riccio cerchino di raccontare una verità diversa, la storia dimostra che non solo con Borsellino noi dei Ros non abbiamo avuto alcun problema ma che pochi giorni prima di essere ucciso il giudice Borsellino scelse di convocare me e il capitano De Donno nella caserma di Palermo per parlare dell'inchiesta Mafia e appalti: inchiesta che Borsellino considerava ‘uno strumento molto importante per individuare gli interessi profondi di Cosa nostra e gli ambienti esterni con cui essa si relazionava', e intorno alla quale chiese anche lui però di mantenere la massima riservatezza ‘in particolare con i colleghi della procura della Repubblica di Palermo'. Ebbene: pochi giorni dopo quell'incontro Borsellino fece la stessa fine che fecero molte persone che si occuparono di quell'inchiesta delicata: fu ucciso, proprio come Giovanni Falcone. E io non mi dimenticherò mai che il giorno dopo la sua uccisione la procura di Palermo chiese di archiviare la nostra inchiesta Mafia e appalti; e sarebbe bene che un giorno qualcuno tornasse su quella storia”.

    Terzo punto, e cuore di tutta la questione: il senso della trattativa. Ma ci fu davvero una trattativa? Ci fu davvero un tentativo dello stato di scendere a patti con la mafia? Ci fu davvero una lista di richieste presentate dai boss mafiosi ad alcuni rappresentanti dello stato? Mori sostiene di non poter escludere che una trattativa sia avvenuta in altra epoca ma dice anche che questa storia del patto tra stato e mafia, per quanto lo riguarda, proprio non sta in piedi. “Vedete – dice Mori mentre accompagna il suo ragionamento con un fitto gesticolare – solitamente chi parla di ‘trattativa' cerca di dimostrare che a un certo punto lo stato ha accettato di scendere a compromessi con la mafia offrendo chissà quali servigi ai boss di Cosa nostra in cambio di una non ben identificata ‘pace'. Ecco, non ho paura ad ammetterlo. Con Vito Ciancimino io ho fatto quello che un qualsiasi carabiniere di buon livello avrebbe fatto al posto mio. In quegli anni, lo ricorderete, la mafia aveva compiuto un salto di livello notevole, e anche la lotta alla criminalità avrebbe dovuto compiere un salto analogo. Così, insieme con il nucleo operativo dei Ros, in quei mesi scelsi di sollecitare un'attività ancora più adeguata che ci facesse prescindere dal solito confidente da quattro soldi, buono al massimo per indicare l'attività di un qualche uomo d'onore di terza categoria, e che puntasse invece a contattare soggetti in grado di fornire dati e spunti d'indagine qualificati: tali da consentire davvero un salto di qualità nelle indagini. Ci serviva insomma una buona fonte e mi resi conto che avremmo avuto l'occasione di trovarne una molto buona nel giugno del 1992, quando il capitano De Donno, sfruttando una serie di incontri casuali verificatisi nel corso di alcuni suoi viaggi da e per Palermo, incontrò e prese contatto con Massimo Ciancimino. E dopo aver stabilito con lui una corretta interlocuzione, De Donno riuscì ad avvicinarsi a poco a poco a don Vito, che in quegli anni svolgeva ancora una funzione di cerniera importante tra il mondo politico-imprenditoriale e l'ambito mafioso. Del nostro interesse a incontrare Vito Ciancimino ne parlai, fuori dall'ambiente dei Ros, il 22 luglio del 1992: quando fui convocato a Palazzo Chigi dalla dottoressa Fernanda Contri (all'epoca segretario generale pro tempore della presidenza del Consiglio dei ministri, ndr) che mi chiese una valutazione della situazione sullo stato delle indagini in corso in quei mesi: e alla Contri, tra le altre cose, accennai anche il tentativo di contattare, tramite il figlio, Vito Ciancimino”. Poco dopo quella riunione, Ciancimino senior si decise a incontrare il generale Mori e il capitano De Donno. E sul primo incontro con don Vito, Mori ricorda alcuni dettagli importanti che, se necessario, accennerà martedì prossimo durante l'udienza del suo processo.

    “Il capitano De Donno – continua Mori – costruì in quei mesi una linea di contatto con don Vito e alla fine, dopo diversi mesi di studio approfondito, decidemmo di incontrarlo insieme e di iniziare a trattarlo con lo stesso approccio che avremmo seguito dinanzi a una possibile fonte confidenziale. Per quanto mi riguarda, l'oggetto di questi incontri era semplice: avere notizie ed informazioni su Cosa nostra e giungere alla collaborazione piena dell'ex sindaco di Palermo”. Poi, ricorda Mori, a un certo punto arrivò la svolta. “La svolta arrivò nel momento in cui Vito Ciancimino, dicendoci che aveva stabilito un contatto con ‘l'altra parte' e in cui ci disse che per poter costruire un rapporto di collaborazione con lui sarebbero state necessarie alcune precondizioni: incontrarsi da quel momento in poi soltanto all'estero e avere un occhio di riguardo per i suoi problemi giudiziari. Credo che Ciancimino ci abbia offerto quelle ‘precondizioni' per cautelarsi rispetto alla sua difficile situazione giudiziaria (don Vito era stato già arrestato nel 1984 da Giovanni Falcone e in quei giorni era in attesa di giudizio definitivo su quella vicenda, ndr) ma noi, comunque, decidemmo di rispondere in modo molto chiaro, e gli dicemmo ‘tu consegnaci Riina, Provenzano e tutti gli altri latitanti e noi ci impegniamo a trattare bene le loro famiglie'. Punto. Ricordo che Ciancimino non la prese bene e che, una volta ascoltato il nostro discorso, balzò in piedi e ci chiese se lo volevamo morto”.

    Dopo aver ricordato l'episodio, Mori ricomincia a frugare in mezzo ai suoi documenti e a un certo punto tira fuori un vecchio ritaglio di giornale. L'articolo è del 17 ottobre 2009 e il giornale è Repubblica. Il generale si schiarisce un attimo la gola e ci legge ad alta voce il titolo di quella pagina: “Terremoto per il papello. I capi del Ros sotto accusa”. Mori fa un sorriso, allarga le braccia, scuote la testa a destra e a sinistra, abbassa un po' lo sguardo e poi ricomincia a parlare. “Eccolo qui, il papello! Lo sappiamo tutti di cosa stiamo parlando, no? Massimo Ciancimino sostiene che nel corso di questa fantomatica trattativa tra stato e mafia fu consegnato a suo padre un documento di richieste formulate dalla parte mafiosa che egli avrebbe mostrato al sottoscritto. Ecco, lo ripeto, e sono disposto a ripeterlo all'infinito: questa affermazione è completamente inventata. Pensateci un attimo: se Vito Ciancimino mi avesse mostrato un qualsiasi documento che avrebbe potuto essere attribuito a esponenti mafiosi io, in quell'occasione, non avrei potuto fare altro che sequestrarlo immediatamente. Per una ragione semplice: sarebbe stata la prova provata del rapporto di Ciancimino con Cosa nostra, avrei avuto la possibilità di portare Ciancimino in galera e in quelle condizioni don Vito sarebbe stato probabilmente costretto a collaborare per evitare la detenzione. Insomma: avere quel papello tra le mani sarebbe stato un colpaccio ma invece, mi verrebbe da dire purtroppo a questo punto, quel papello io non l'ho davvero mai visto!”.

    A metà della nostra conversazione, il generale Mori arriva ad affrontare un tema delicato che riguarda le origini del cattivo rapporto esistente nel nostro paese tra una certa parte della magistratura siciliana e una certa parte delle forze dell'ordine italiane. Mori sostiene che la diffidenza nutrita da alcuni magistrati della procura di Palermo sia maturata negli anni a cavallo della stagione delle stragi mafiose, quando cioè, come ricorda il generale, “i pm palermitani abituati a comportarsi come se fossero dei magistrati-poliziotti si trovarono di fronte a delle forze dell'ordine speciali che iniziarono ad agire in maniera più autonoma rispetto ai diktat che arrivavano dalla procura di Palermo”. Come ammette Mori, tutto comincia il 3 dicembre del 1990, quando dalle ceneri del Nucleo speciale antiterrorismo creato intorno ai primi anni Settanta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, furono fondati i Ros. “E' vero – dice Mori – tutto nasce da lì. I Ros rappresentarono il simbolo di un salto di qualità investigativo, e quella eccessiva indipendenza e autonomia dagli ambienti della procura di certo non piaceva ad alcuni magistrati: e non c'è dubbio che la creazione stessa di un reparto operativo che aveva anche il diritto di portare a termine alcune operazioni coperte non venne ben visto da molti pm. Ed è da allora che credo si sia creato un grande equivoco. Mi verrebbe quasi da chiamarlo oggi, questo strano fenomeno qui, il frutto della sindrome Assange”.

    Il generale fa su e giù con la testa e prova a spiegare meglio il riferimento all'inventore di Wikileaks. “Sindrome Assange, se mi è concessa questa espressione, significa che in nome di una specie di dittatura della trasparenza sembra diventato ormai proibito portare avanti, come spesso succede a chi si muove all'interno del mondo dell'intelligence, delle operazioni segrete. Come se tutti facessero finta di ignorare che la conduzione delle guerre richiede il mantenimento di un qualche segreto. Come se tutti facessero finta di ignorare che, qualche volta, per combattere la criminalità organizzata, è necessario anche agire ai margini della legalità. Come se tutti facessero finta di dimenticare che per legge è previsto che l'ufficiale di polizia giudiziaria, se lo ritiene opportuno, può non rivelare le proprie fonti informative. E come se tutti insomma facessero finta di ignorare che per combattere la criminalità è più importante creare un contatto con qualcuno della parte avversa piuttosto che servirsi in modo deliberato di una persona che non sa nemmeno utilizzare un programma per falsificare le fotografie”. E sul caso Ciancimino Jr., Mori ha ancora qualcosa da dire. Sul metodo delle patacche, sì, ma anche, e in parte, sul metodo Ingroia. “Sinceramente, trovo scandaloso che un testimone d'accusa possa diventare credibile per un magistrato solo nella misura in cui il collaboratore di giustizia dice le cose che vorrebbe sentirsi dire un pm. I testimoni, così come i pentiti, non possono essere considerati gli unici portatori di una Verità assoluta. Sono strumenti importanti per le indagini, ci mancherebbe, ma sono comunque strumenti con cui non si può fare a meno di tenere la guardia alta. E in questo senso mi auguro che gli errori commessi da Ciancimino Jr. non vengano ripetuti con altri personaggi come Giovanni Brusca: personaggi le cui parole andrebbero valutate con attenzione e che non possono essere considerati portatori di chissà quali verità solo quando fanno comodo ai pm o ai giornalisti”.

    Alla fine della nostra conversazione, il generale prova a offrire una sua risposta a una domanda che non può non essere passata nella testa di tutte le persone che in questi anni hanno avuto un minimo a che fare con le deposizioni di Massimo Ciancimino e con la trasformazione di un testimone di giustizia in una specie di indiscussa, e indiscutibile, “icona dell'antimafia”, come da definizione dello stesso Ingroia.

    E Mori, su questo punto, sembra davvero molto deciso. “Trovo preoccupante il modo in cui le parole di Ciancimino Jr., in questi anni, sono state accompagnate troppo spesso da fughe di notizie e da preannunci sensazionalistici che hanno trovato spesso ospitalità nei giornali e in alcune apparizioni televisive – apparizioni naturalmente ben orchestrate e finalizzate a indurre nell'opinione pubblica convincimenti che i fatti e gli esiti processuali non hanno assolutamente ratificato. Perché, vedete, qui c'è un aspetto importante che credo sia giusto sottolineare per dare un senso a questo mio sfogo. Mi rendo conto che chi ascolterà le mie parole potrebbe pensare che questa è soltanto la verità di un semplice imputato e mi rendo conto che potrebbe anche credere che questa storia rappresenta un punto di vista parziale. E' legittimo pensarlo, ci mancherebbe, ma allora vorrei offrire uno spunto di riflessione a chi avrà modo di leggere questa nostra chiacchierata. Pensateci un attimo. Ecco. Perché mai quando c'è un processo le due verità processuali – quella della difesa e quella dell'accusa – vengono trattate sui giornali in modo così poco proporzionato? Perché mai quando c'è un processo i giornali tendono a raccontare la storia di quel processo solo offrendo il punto di vista di chi conduce quelle indagini? E perché mai il sistema mediatico-giudiziario tende a rappresentare le ragioni della pubblica accusa come se fossero le ragioni giuste mentre tende a tratteggiare le ragioni della difesa come se fossero quelle di chi fosse per forza dalla parte del Male? Me lo sono chiesto molte volte, in questi mesi, e alla fine l'unica risposta convincente che sono riuscito a darmi si trova in quell'esempio che vi ho fatto prima. L'esempio del magistrato che si comporta come un cattivo giornalista, e che pur di dimostrare che le sue idee precostituite sono quelle giuste sarebbe pronto a fare davvero qualsiasi cosa. Anche, per dirne una, di servirsi di uno che non sa neppure utilizzare un minchia di Photoshop”.

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    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.