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Grazie a Roma
Lo confesso: anche io e i miei amici, due milanisti e due romanisti, vecchie pantegane da stadio, ci siamo mossi con una certa circospezione. Solo se si è “tigri” disposte a testuggine nell'angusto spicchio di Olimpico riservato agli ospiti ci si può permettere di essere esuberanti, strafottenti. Noi della quinta colonna no. Ci si guarda di sottecchi e si dà poca confidenza in giro.
Leggi Ultimo Stadio Per fare il cucchiaio devi essere Totti
Lo confesso: anche io e i miei amici, due milanisti e due romanisti, vecchie pantegane da stadio, ci siamo mossi con una certa circospezione. Solo se si è “tigri” disposte a testuggine nell'angusto spicchio di Olimpico riservato agli ospiti ci si può permettere di essere esuberanti, strafottenti. Noi della quinta colonna no. Ci si guarda di sottecchi e si dà poca confidenza in giro. Quando a partita iniziata padre e figlio arrivano in punta di piedi e si siedono proprio davanti a noi, il mio amico romanista mi dà di gomito “mi sa che 'sti due so' dei vostri”.
Seduto due sedie più in là, sulla destra, c'è uno che si vede che soffre ma senza esultare né imprecare, non muove pelo quando la palla bacia il palo o esce di un niente. Solo alla fine capisco che anche lui è rossonero, ci stringiamo la mano con moderazione. Sono cose da stadio: non c'è niente da fare resta sempre un po' di apprensione anche quando si affrontano squadre che avrebbero più di una ragione per essere cugine e la posta in gioco è tutto sommato modesta. E' vero che quando tendono le loro sciarpe e cantano a fronte alta il vendittiano “core de sta città”, che è comunque niente male, anzi è decisamente l'inno più bello del campionato, i romanisti fanno una certa impressione come si sentissero davvero padroni del destino altrui. Comunque non sabato sera e non certo del nostro. Contro le previsioni dei falsi profeti, contro gli iettatori d'autunno che alle prime difficoltà dimenticano chi siamo, da dove veniamo e come si lavora nella bottega del Diavolo, contro parte di noi stessi dunque e “altri” particolarmente loquaci dopo decenni di magra, abbiamo vinto. E che gli empi siano perdonati. In letizia. Grazie anzitutto a chi va in campo. E mette come si dice la faccia e la gamba. Il successo tempra.
Vincere fa diventare uomini fatti e finiti, aiuta a reggere le pressioni, stimola le ambizioni, aumenta l'autostima: da oggi non sono più “ragazzi”, ma di nuovo campioni. Grazie poi all'allenatore che ha saputo fare e disfare con realismo e personalità, è partito in salita ma ha tagliato il traguardo con due giornate di anticipo. Per le cronache ha fatto meglio del filosofo di Setùbal. Grazie alla società, ovviamente. E al presidente eterno. Cui dobbiamo gratitudine senza faglia e sentimenti forti. Ci ricorda un po' troppo spesso che ha fatto regali sontuosi e vorrebbe, come si dice, un giusto ritorno degli investimenti, magari in voti che fanno comodo in generale e oggi in particolare. Sarebbe stato meglio pensarlo ma non dirlo, un po' come la revoca del decreto sul nucleare per non far fare il referendum o le bombe a grappolo degli alleati sulla Libia. Il Milan è altro e altrove: non può fare da schermo a secondi fini né da specchio a vanità anche se legittime.
La Werke berlusconiana nel calcio sarà compiuta quando affiancheremo e magari supereremo la più straordinaria macchina da calcio del decennio: il Barcellona. E' tempo che anche noi si spanda attorno sbigottimento e meraviglia. Lo scudetto è stato solo un primo passo. In una bella serata di maggio.
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