Nel pentolone della Lega
Anche se nessuno al quartier generale lo ammette pubblicamente, la nomenclatura della Lega attende l'esito delle elezioni amministrative con il fiato sospeso. Umberto Bossi alza i toni, fa sapere al Cavaliere suo alleato che la Lega ha ormai in mano il paese, non perde occasione per manifestare apprezzamento per Giorgio Napolitano, la sua discesa a Bologna, in compagnia di un Giulio Tremonti quantomai in sintonia, è stata una prova di forza politica che ha atterrito non poco la sinistra locale.
Anche se nessuno al quartier generale lo ammette pubblicamente, la nomenclatura della Lega attende l'esito delle elezioni amministrative con il fiato sospeso. Umberto Bossi alza i toni, fa sapere al Cavaliere suo alleato che la Lega ha ormai in mano il paese, non perde occasione per manifestare apprezzamento per Giorgio Napolitano, la sua discesa a Bologna, in compagnia di un Giulio Tremonti quantomai in sintonia, è stata una prova di forza politica che ha atterrito non poco la sinistra locale. Segnali di un partito che, dopo i grandi nervosismi generati dalla guerra in Libia e dall'emergenza dei profughi, si sente rinfrancato. E il federalismo arrivato quasi al traguardo torna a scaldare i cuori di militanti e simpatizzanti. Ma ai vertici, sono consapevoli che il passaggio elettorale è il più delicato degli ultimi tempi. Scaltramente, Bossi non dice che il test è di carattere nazionale, ma sa che il balletto dei sondaggi cambia a seconda del vento che tira a Roma. E un po' preoccupa. E' stato un lungo inverno, che ha logorato l'immagine di una Lega ormai considerata dai suoi elettori troppo esitante e poco autonoma rispetto al Pdl. E costretta a fare scelte molto pragmatiche, per niente identitarie né demagogiche, nella gestione dell'ondata migratoria dal nord Africa sotto la guida di Roberto Maroni, ministro dell'Interno e regista del movimento. Se le cose possono andare bene nei territori di caccia e conquista, l'Emilia o la Toscana, i rischi sono sul sacro suolo padano, dove da molti anni il consenso leghista è radicato.
A cominciare dalla fatale Varese, dove è nato e cresciuto il movimento padano, punto nevralgico e simbolico del sistema di potere costruito dalla Lega nord. Qui il sindaco uscente, Attilio Fontana, sta conducendo una campagna elettorale dai ritmi militari e col tono sobrio del buon mministratore. Con il suo motto, “Varese merita Attilio Fontana”, cerca di convincere tutti, dai salotti bene della Varese ricca e intraprendente alle sagre dei militanti della base, a rieleggerlo. Nonostante tema di finire al ballottaggio per via della dispersione dei voti che ci potrebbe essere, visto che ci sono 18 liste e dieci aspiranti sindaci. Comprese una lista di indipendentisti fuoriusciti dalla Lega quando il Carroccio ha abbandonato il mantra secessionista, e altre due sostenute da due ex sindaci leghisti.
Eppure nel feudo fortificato di Varese la lega teme il ballottaggio. Nonostante Attilio Fontana, volto noto anche su scala nazionale di un maronismo sempre più in ascesa nel partito, sia un sindaco benvoluto, apprezzato dall'opposizione del Pd, consideri invece la sua partita già vinta in partenza: perché ha tenuto la barra dritta del bilancio, dopo aver sfidato per mesi il ministro dell'Economia Giulio Tremonti sui tagli lineari ai comuni, ed è riuscito a tenere in piedi la fragile e litigiosa alleanza con il Pdl, grazie soprattutto al sostegno dei locali ciellini. “Se prendessi un voto per ogni mano stretta, potrei avere una maggioranza bulgara”, scherza lui mentre corre da un'iniziativa all'altra. Un po' nervoso, certo, forse perché ha dovuto rinunciare all'appoggio diretto del ministro dell'Interno e gran varesino, Bobo Maroni, che avrebbe dovuto essere il capolista per il comune, ma poi ha fatto un passo indietro perché Bossi non ha voluto esporlo alla sentenza delle urne, vista la partita delicata che il titolare del Viminale sta giocando sul fronte dell'immigrazione (“anche se Maroni è riuscito a sottrarre il capo alla stretta del cerchio magico, che lo stava soffocando”, dicono tutti i soldati del ministro dell'Interno di stanza a Varese, contenti del recente rilancio dell'immagine del Carroccio, dovuto secondo loro anche alla sconfitta della cordata interna e avversa che aveva indebolito il fiuto politico di Bossi).
Sia come sia, a Varese i leghisti, seppure preoccupati dalla possibile dispersione dei voti e dall'eventuale punizione elettorali dei militanti più ortodossi, irritati dall'eccessivo sostegno a Berlusconi e dalla sua gestione della questione libica, punta al sorpasso – fino a ora mai avvenuto – sul Pdl, o in ogni caso, nel gioco delle percentuali, a confermarsi il partito vincitore in città. Varese è una città simbolo per la Lega, ma anche un punto di osservazione illuminante per le sue dinamiche. Qui si intuiscono meglio, ad esempio, i contorni della strategia politica di Maroni, che è riuscito a fare una sintesi tra la Lega di lotta e quella di governo, l'anima politica e quella più localista e movimentista. Passaggio chiave della sua regia è stato l'arrivo del presidente della Repubblica per una visita di cortesia durante le celebrazioni dei 150 anni dall'Unità d'Italia, in marzo. I cittadini, leghisti compresi, lo hanno accolto con entusiasmo, memori della simpatia con cui Napolitano ha seguito tutto il corso della riforma del federalismo (ancora domenica a Bologna Bossi ha speso gratitudine per il presidente “vecchio e saggio”).
Agli osservatori più attenti non è sfuggito però che nella provincia di Varese la vera partita si gioca a Gallarate, dove la Lega, finora all'opposizione, corre da sola per strappare il comune al Pdl. Gallarate, a un passo da Malpensa, è un comune di 52 mila abitanti conosciuto per i suoi molti teatri, le ville dei calciatori del Milan, le industrie tessili sulla via del tramonto. E' qui che la Lega vuole tentare una strana alchimia, puntando su un cavallo di razza della scuderia del ministro Maroni, Giovanna Bianchi Clerici, esponente della borghesia locale, laurea in lingue orientali, consigliere d'amministrazione Rai, per arrivare al ballottaggio con il candidato rivale che di cognome fa Bossi, ma di nome Massimo, sostenuto dal coordinatore provinciale del Pdl, Nino Caianiello, che la Lega e il Pd locali chiamano amorevolmente “Satana” e contro il quale i leghisti hanno appeso uno striscione inequivocabile: “Fuori le mafie da Gallarate”, per via di alcune inchieste giudiziarie in cui è stato coinvolto, per la sua inclinazione agli affari, lui che è imprenditore, e anche per la sua assunzione come direttore generale di una società pubblica dopo una gara bandita da lui stesso, visto che di quella società era già presidente.
Una competizione elettorale importante, dove Giovanna Bianchi Clerici non è stata scelta per la storiella leghista che qui si racconta a ogni forestiero, secondo la quale sarebbe stata voluta dal Senatur, dopo essere andato dal suo dentista di Gallarate e qui aver ascoltato dalla voce del popolo il desiderio della riscossa contro il Pdl. Niente di tutto questo, bensì per una strategia molto più raffinata. Che ha trasformato Gallarate in una specie di laboratorio per creare un ogm, un organismo geneticamente modificato, che potrebbe essere il banco di prova di nuovi scenari nazionali e di una Lega post berlusconiana. Infatti la Lega qui corre da sola, alleata con Fli contro il Pdl, e se arrivasse al ballottaggio potrebbe puntare a un patto di desistenza con il Pd, come conferma al Foglio uno dei consiglieri regionali del Pd di Varese, Alessandro Alfieri, che con il parlamentare Daniele Marantelli rappresenta quella parte del Partito democratico più abile a intuire il valore della territorialità, più aperta nel dialogo sul federalismo e con una certa affinità elettiva con Maroni. Ed ecco perché Bossi in persona ha fatto già diverse visite improvvisate a Gallarate, per sostenere la sua candidata. Senza dimenticare che tutto questo sarebbe avvenuto – secondo la ricostruzione dei maroniani, che magari enfatizzano un po' i fatti – dopo che Marco Reguzzoni, il capocordata dell'avverso “Cerchio magico”, ha tentato un accordo suicida con i falchi del Pdl varesotto per cercare di costringere Attilio Fontana a correre da solo, a Varese, e a perdere le elezioni. Pensando di arrivare così alla resa dei conti con i suoi nemici interni e salire ancora più in alto verso l'olimpo degli dèi padani, ma che invece si è rivelata una mossa sbagliata (esattamente come quella di dichiarare con troppo anticipo che Bossi aveva trovato la quadra con il premier, tre giorni prima del voto sulla Libia) che lo ha fatto finire in panchina e ha permesso a Maroni di ristabilire gli antichi e più solidi sodalizi interni. Vero o verosimile che sia, fra Varese e Gallarate le elezioni saranno un triplo test per sondare il sistema immunitario del partito, definire gli assetti interni ai vertici dopo diversi scossoni e verificare la percorribilità di strade che potrebbero traghettare la Lega verso una nuova stagione politica.
In Veneto invece, dove non si vota in comuni importanti, ma si deve rieleggere il presidente della provincia di Treviso, l'atmosfera è completamente diversa. Poche alchimie, scarsi confronti elettorali a Treviso, feudo di competenza del governatore Luca Zaia, che da sempre duella con il signore scaligero Flavio Tosi. Il candidato è Leonardo Muraro, presidente uscente che teme di perdere però diversi punti, e al Foglio confida la sua preoccupazione per il disorientamento di una base irritata dalle scelte nazionali del partito. Anche se secondo i politologi locali il calo dei consensi – che potrebbe arrivare addirittura a un dimezzamento dei voti nella provincia – non influirà molto sull'esito elettorale complessivo perché, grazie alle ulteriori emorragie del Pdl e del Pd, la Lega trevigiana dovrebbe farcela a conservare le sue percentuali e il suo credito. Un bottino tutto da spendere nella lotta intestina che riemergerà dopo le elezioni, al congresso provinciale di Verona tra le varie anime del partito, e continuare al contempo a essere la cassaforte del consenso padano. Visto che è qui, in Veneto, che il Carroccio prende più voti a livello nazionale (alle regionali con Zaia candidato alla presidenza del Veneto l'anno scorso ha preso da sola il 48,5 per cento). Con buona pace dei suoi avversari, che non sono i candidati dell'opposizione, quelli sanno già di aver perso la battaglia in partenza, ma gli esponenti del Pdl: i seguaci del ministro Maurizio Sacconi, come il senatore Maurizio Castro, coordinatore del Pdl trevigiano, e quelli dell'ex governatore e ora ministro Gianfranco Galan, che vorrebbero vedere il cadavere di Luca Zaia arrivare sulle loro sponde, senza fare nulla, e perciò si aspettano un risultato catastrofico alle urne. “Muraro sembra un leader della Fiom”, azzarda il senatore Castro, per dire che il candidato batte la provincia palmo a palmo, da sindacalista del territorio, per recuperare il consenso che traballa.
Il fatto è che a Treviso c'è ancora la prima versione della Lega, quella più ideologica, dura e pura, e che meno capisce le strategie legate al governo. Leghisti vecchia maniera che a Muraro, così almeno ci ha detto lui stesso, chiedono una cosa sola: respingere gli immigrati per continuare ad essere “padroni a casa nostra”. Ed ecco perché il candidato alla presidenza della provincia, il cui motto elettorale è “Solo fatti”, timoroso di perdere i voti dei militanti delle sezioni, si è inventato la lista “Razza Piave” che non ha un significato xenofobo, ma vuole evocare la razza robusta dei cavalli bianchi che una volta venivano allevati sulla riva sinistra del Piave, e da lì i soldati così soprannominati che resistettero alla fatica della Prima guerra mondiale. Insomma per rilanciare l'idea identitaria dei veneti, capaci di affrontare e vincere qualsiasi difficoltà. E infatti Muraro spera che sia proprio la lista civica Razza Piave a recuperare quei punti che potrebbe perdere la Liga veneta. A Treviso, dove secondo gli avversari la Lega ha fatto un'occupazione militare di poltrone e cariche “senza avere quadri adeguati”, vige una consuetudine di sapore bolscevico che cancella velocemente qualsiasi dissenso, ma non può fare nulla contro il voto democratico, che invece potrebbe punire non tanto la capacità amministrativa della provincia di Treviso, che ha vissuto di rendita sulla precedente gestione di Zaia, quanto la scarsa capacità di autodeterminazione politica.
Le amministrative a Treviso sono però anche un test da interpretare come una pagella per i dodici mesi da governatore di Zaia, che continua ad avere un grande ascendente, se si dà ascolto al sondaggio di Renato Mannheimer apparso pochi giorni fa sul Corriere e che lo colloca in cima alla lista dei governatori più apprezzati. Anche se industriali e categorie produttive accusano il governatore di immobilismo, come è emerso al festival dedicato all'economia e alla cultura del nordest della settimana scorsa, “Far viaggiare le idee”, organizzato dall'editore di Nordesteuropa, Filiberto Zovico, dove “si è respirata un'atmosfera diversa rispetto a quella dell'anno scorso”, spiega Zovico al Foglio. “L'anno scorso c'era un'enorme aspettativa nei confronti di Zaia, mentre oggi il motto “prima il Veneto” si è perso per essere sostituito da un'attesa diversa, quella di un nordest che resista alla crisi economica e guardi a un contesto internazionale, rifiutando di relegarsi all'interno della comunità territoriale”, aggiunge Zovico, che ha promosso e ottenuto la candidatura del Nordest a capitale della cultura europea per il 2019.
Zaia, che ha dovuto affrontare molte sfide (e catastrofi ambientali come l'alluvione), non ha però speso molte energie per questa campagna elettorale fatta in sordina. Troppo concentrato a vincere soprattutto la battaglia per far quadrare i conti di una sanità regionale ereditata con un grosso deficit, che è riuscito a colmare. Con buona pace dell'opposizione che lo accusa di aver chiuso il bilancio con alcuni aggiustamenti di contabilità. Come spiega Diego Bottacin, consigliere regionale del movimento politico Verso nord, che non perdona alla Lega la sua incapacità di fare riforme: “Zaia è riuscito a impedire di perpetuare il criterio assistenzialista della deprivazione socio-economica durante la ripartizione dei fondi sanitari della Conferenza stato-regioni e ad assicurare 300 milioni di euro in più al Veneto”, spiega Bottacin al Foglio, “ma non è stato capace di riformare il sistema con un'azione chirurgica, impopolare, coraggiosa. Così come non è riuscito a incentivare l'economia locale. Mentre la sua battaglia autonomista, che puntava sull'approvazione di uno nuovo statuto regionale, è rimasta per ora sulla carta”. Eppure secondo gli Zaia boy, come l'avvocato e consulente del governatore sul federalismo a geometria variabile, Massimo Malvestio, “Zaia ha una sua strategia che darà risultati a medio termine. E cioè sta cercando di governare il veneto leghista, stando fuori dalle beghe del partito, per essere il governatore di tutti i veneti. E sta prendendo le misure dell'arte del comando gradualmente, senza forzature”.
Per ora dunque Zaia preferisce stare a guardare, mentre anche qui, da Verona a Venezia, si creano nuovi assetti che riflettono ciò che accade nei vertici del partito in Via Bellerio, a Milano. Ed è per questo che mentre a Treviso sono nervosi davanti a ogni nuova dichiarazione pragmatica del ministro Maroni sugli sbarchi a Lampedusa, che mette in discussione certezze ataviche e monolitiche dei militanti. Basta uscire dal capoluogo, andare per esempio a Montebelluna dove il candidato sindaco Marzio Favero – assessore alla Cultura della provincia di Treviso, filosofeggia sul concetto di “Agropolis” come esempio veneto di federalismo urbano e sociale – si è fatto presentare ai cittadini proprio dal non veneto Roberto Maroni. Il ministro dell'Interno infatti sta cercando di ribaltare gli equilibri anche in Veneto e, attraverso l'asse politico privilegiato con Flavio Tosi, prova a fare sponda con quella parte della Liga Veneta che sa guardare oltre gli orizzonti tradizionali. Con buona pace dei cavalli Razza Piave, che però sono quelli che dovranno affrontare il responso della pancia, o meglio del mal di pancia, leghista.
Tornando in Lombardia, non bisogna dimenticare Mantova, dove la Lega in coalizione con il Pdl punta a strappare la provincia al centrosinistra, che l'anno scorso ha già perso l'amministrazione della città. A Mantova il candidato è un parlamentare, Giovanni Fava, imprenditore non adorato dai pretoriani di Bossi, che non apprezzano il suo sodalizio con Flavio Tosi, che è stato membro della commissione parlamentare Bicamerale sul ciclo dei rifiuti, e che sta sta facendo una campagna elettorale molto aggressiva, puntando quasi esclusivamente sui temi ambientalisti. A Mantova la Lega spera di arrivare al ballottaggio per recuperare l'ultima roccaforte rossa in Lombardia, e riportare una vittoria simbolica importante, visto che fu proprio a Mantova che nel 1993 la Lega ottenne un record di consensi (e una giunta monocolore) che trasformò per un periodo la città dei Gonzaga nella capitale simbolica della Padania. Inoltre la vittoria completerebbe l'elenco delle province lombarde più importanti in mano alla Lega, dopo quelle di Lodi, Bergamo e Brescia. Anche se Giovanni Fava deve affrontare, come Attilio Fontana, il rischio della dispersione dei voti che ci potrebbe essere per via dei dieci candidati e delle diciotto liste, compresa una indipendentista di leghisti fuoriusciti.
Ma è a Milano che la nomenclatura leghista guarda di più, anche se nel derby Moratti-Pisapia, il Carroccio non ha interpretato il ruolo di attore protagonista e ha tenuto un basso profilo. O meglio un approccio fluido. Da un lato affidandosi all'intraprendenza di un altro maroniano, l'iperattivo Matteo Salvini, indicato come probabile vicesindaco (con benedizione verbale di Berlusconi qualche giorno fa), che da mesi fa una serrata campagna per aumentare il consenso in città, ribaltando l'idea di una Lega confinata nell'hinterland. Dall'altro, riservandosi di attribuire a Silvio Berlusconi la responsabilità di un eventuale, sebbene non probabile, insuccesso, che rimetterebbe in gioco, così fa capire Bossi, gli orizzonti dell'alleanza. Un gioco con una variabile indipendente, il voto della base leghista, che oltre a essere stanca di Berlusconi non ama certo la Moratti. E magari, nel caso di ballottaggio, potrebbe anche andare al lago e stare a guardare come finisce il derby da una distanza di sicurezza. Per ora c'è una sola certezza: la compagine governativa della triade Bossi-Maroni-Calderoli ha rilanciato un'idea di compattezza istituzionale. Ecco perché sulla Padania continua ad apparire la foto di Bossi e dei suoi due colonnelli a mani congiunte, manco fossero cavalieri della tavola rotonda di re Artù.
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