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Alla fine potrebbe essere tutta colpa della zia Concetta. Interrogatorio di Massimo Ciancimino del 22 aprile scorso: il superteste dell'indagine sulla trattativa deve spiegare come gli sarebbe arrivato il famoso biglietto taroccato in cui si accusava Gianni De Gennaro.
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Alla fine potrebbe essere tutta colpa della zia Concetta. Interrogatorio di Massimo Ciancimino del 22 aprile scorso: il superteste dell'indagine sulla trattativa deve spiegare come gli sarebbe arrivato il famoso biglietto taroccato in cui si accusava Gianni De Gennaro di essere vicino all'ambiente del “signor Franco”, dunque di essere un traditore dello stato. Da dove veniva quel pizzino? “Non lo so, non lo so, glielo giuro sulla vita di mio figlio, non lo dovessi vedere più!”. Domanda del pm Nino Di Matteo: “Quindi lei riceve anonimamente dei documenti e li porta…”. Ciancimino: “Dentro di me ero convinto che me li possano avere mandati pure i miei fratelli o mia zia Concetta”.
“Quindi ora – interviene il pm Paolo Guido – verbalizzo che questi documenti le possono essere stati mandati dai suoi fratelli o da sua zia Concetta…”. Ciancimino: “No, potrebbero, ho detto. Non è che ho certezze”. Diciotto giorni dopo la zia Concetta non c'è più, non ci sono più nemmeno altre persone indicate il 22 aprile, un tale Zanghì, ex uomo di don Vito, e spunta un altro suggeritore, un puparo, un “Mister X”, così chiamato per non rivelarne il nome, anche se Ciancimino Jr., interrogato ieri al processo Mori, ne indica tutti i contorni e i dettagli: “Mi diede anche il biglietto da visita”. Era un carabiniere, autista dell'ex generale dei carabinieri Giacinto Paolantonio, divenuto comandante dei vigili urbani di Palermo. Paolantonio è morto nel 1991, a 91 anni. La figlia giura che due dei suoi autisti morirono prima di lui e il terzo successivamente. Tuttavia l'uomo sarebbe in via di identificazione. Sarebbe stato lui a mandare a Ciancimino figlio i documenti scritti da Ciancimino padre, uno dei quali, palesemente contraffatto, ha indotto i pm di Palermo a procedere al fermo del superteste, con l'accusa di calunnia aggravata nei confronti di De Gennaro.
Tornato in aula per ribadire e precisare alcune dichiarazioni nei confronti del generale Mario Mori, il figlio di don Vito si è trovato di fronte a un fuoco di fila di domande. Domande che in alcuni casi contano più delle sue risposte. Quando il teste dice di avere centellinato documenti e dichiarazioni, consegnati a rate ai magistrati, il presidente, Mario Fontana, esprime i suoi dubbi: “Ma scusi, lei non ha esitato a coinvolgere personaggi di altissimo rilievo istituzionale…”. Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, Luciano Violante, De Gennaro. Ieri persino il presidente della Repubblica. Perché – dice in aula il superteste – il puparo gli avrebbe detto che ci sarebbe stata “una telefonata personale di Napolitano alla procura di Caltanissetta, per la mia iscrizione per calunnia nei confronti di De Gennaro. E le intercettazioni delle mie conversazioni di Verona (quelle in cui diceva di essere un'icona dell'antimafia, ndr) uscirono per una manovra di De Gennaro tramite lo Sco”.
Il puparo aveva preannunciato anche l'eliminazione “in maniera esemplare” di Ciancimino. Che avrebbe ricevuto “50 candelotti di dinamite a casa, con un biglietto contenente minacce, l'invito a pagare 750 mila euro al superlatitante Messina Denaro, una foto di mio figlio con la scorta…”. Eppure a casa sua di candelotti ne furono trovati solo 13. E gli altri? “Ho chiesto un favore a un amico, li ha buttati lui…”.
Più delle risposte contano certe domande. Le domande che, appena il 22 aprile, erano state poste dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal pm Paolo Guido. Una per tutte, posta da Ingroia: “Lei si sta rovinando non dicendo la verità. Ormai comincia a diventare un poco faticoso crederle, capirà!”. Altra questione, posta da Paolo Guido: “E' finito il tempo del ragionamento, signor Ciancimino, non c'è più tempo. Lo vede in che condizione si trova in questo momento? Lei si trova in un carcere! Ha capito?”. Dalla zia Concetta e Zanghì si passa a un sussulto di verità, forse. Accompagnato da un singhiozzo. “L'ho fatto io”. Incalzato dalle domande, poi negherà di avere falsificato lui la carta. Chiamerà in causa il puparo. Parlerà ancora di gravissime minacce subite. Tornerà a singhiozzare, escluderà di avere commesso lui i falsi. Ora tira in ballo il puparo.
Ripete di non avere parlato perché temeva di beccarsi una calunnia. “Non è che mio padre era il vangelo assoluto o che parlava ex cathedra… Io in fondo dovevo solo scrivere un libro. Non è che racconto verità assolute, io dico solo quello che raccontava mio padre. Porto magari dei documenti di cui non conosco l'autenticità”. Il presidente del tribunale mette in dubbio quelle che la procura considera pietre miliari, l'attendibilità del papello, la lista delle richieste che Totò Riina avrebbe presentato allo stato.
Il presidente del tribunale pone altri dubbi: “Ma come mai suo padre lo teneva a casa, nonostante tutte le sue cautele?”. E poi il giudice Mario Fontana insiste su un punto: “Lei ha detto, in una conversazione intercettata, di essere un'icona dell'antimafia e che se ne potevano fregare di quello che diceva in televisione?”. E' il colloquio che il figlio di don Vito ebbe a Verona, dopo essere sfuggito alla scorta, con un commercialista indagato perché ritenuto vicino alla 'ndrangheta. I pm dicono che la cosa non è processuale. “I giornali li leggiamo tutti. Al tribunale interessa. “Risponda”, taglia corto il presidente. Risposta: “No, non è vero, non l'ho detto”.
E' sulla dinamite che salta però – per fortuna in senso solo virtuale – la credibilità di Ciancimino Jr. “Temevo che mi levassero mio figlio, che mia moglie mi lasciasse”. E così la dinamite rimase in giardino. Poteva saltare accidentalmente, per un autoinnesco.
Il presidente chiude in maniera gelida: “Non è merce che se uno gira la trova, la dinamite… è un fatto molto grave. Non doveva dirlo immediatamente?”. La risposta è un ritornello: “Temevo che mi levassero mio figlio…”. Resta comunque il fatto che la procura palermitana non ha ancora spiccato nei confronti di Ciancimino Jr. l'ordine di cattura per la detenzione di un arsenale così pericoloso. E questo è un dettaglio sul quale si sono soffermati a lungo i vertici di Via Arenula, sede del ministero della Giustizia, con il preciso obiettivo di verificare se esistono le condizioni per inviare a Palermo una ispezione.
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