Che c'hai da guardare?

Stefano Di Michele

In sostanza, ecco il fatto: alla Lei non fa piacere che si dia del tu a Dio. Vittorio Sgarbi a prendere confidenza non avrebbe fatto fatica – e perciò adesso, al centro della divina (appunto) scenografia preparata dall'architetto Calzavara, “è una basilica, è una basilica”, sbuffa, s'incazza, fa il misterioso, ride, sfotte. Ti abbraccia e ti allontana, ti insegue e ti abbandona.

    In sostanza, ecco il fatto: alla Lei non fa piacere che si dia del tu a Dio. Vittorio Sgarbi a prendere confidenza non avrebbe fatto fatica – e perciò adesso, al centro della divina (appunto) scenografia preparata dall'architetto Calzavara, “è una basilica, è una basilica”, sbuffa, s'incazza, fa il misterioso, ride, sfotte. Ti abbraccia e ti allontana, ti insegue e ti abbandona. Poi, e la notte è già scesa negli studios sulla via Tiburtina, l'occhio gli cade sulle scarpe dei presenti. Non avendo sottomano un Lorenzo Lotto da magnificare, non essendo la deliziosa prossima presentatrice Monica Marangoni, filiforme e paziente, di curve adeguatamente fornita – “è meravigliosa ed elegante, ma non ci sono i fianchi e non c'è il culo, allora mandiamo in onda il marito che il culo ce l'ha”, e si ride, perché è cosa scema e insensata fare gli offesi per uno sgarbo paradossale di Sgarbi, e del resto anche il consorte della stessa, più adeguatamente tondeggiante, si presenta agli astanti tendendo la mano e trentadue denti da photoshop, “piacere, sono il marito di Monica Marangoni”, e tutti lì a valutare la fresca annotazione estetica e posteriore – si passa alla disamina delle tomaie. Guarda quelle del cronista con lo stesso disappunto che potrebbe riservare a una vignetta di Vauro (“mi fa schifo”): “Che roba, si vede la tua origine proletaria…”. Belle le tue, sembrano quelle di Veltroni: e infatti sono di quei mocassini neri e un po' collegiali, che vent'anni fa alle scuole superiori tutti definivano “mocassini inglesi”. Passa a quelle di Mario Resca, “scarpe da funzionario”, esprime fermo disappunto davanti ad altre cinque o sei calzature, “la tua è da radical chic”, “è proprio da poveraccio”, poi si ferma estasiato davanti a quelle del dandy Peter Glidewell, “guarda la perfezione, guarda la bellezza, guarda il colore!” – e un'esortativa “capra!” ci starebbe pure – essendo la mirabile calzatura di cuoio rossiccio e manuale fattura, così che la scarpa di classe ha da essere tanto bella da apparire quasi brutta, ma così bella da non confondersi mai con una scarpa brutta. Per dire, quelle di Glidewell potrebbero apparentemente essere scambiate per certe calzature tipiche di agenti in borghese che scortano i politici – cuoio sul giallino in accordo cromatico con la cravatta, quadrato intaglio, lacci come corde – ma sarebbe solo cattivo effetto ottico di un quasi non vedente: nel caso in esame, l'applauso dalemiano non mancherebbe.

    E mentre Dio attende lo sdoganamento su RaiUno – saprà il vescovo di Noto, monsignor Staglianò, da Sgarbi in massima considerazione tenuto, fronteggiare quel Matthew Fox teologo delle 95 tesi? – la divina Irene Ghergo sospira e aspira a una porzione dei manufatti del McDonald's qui all'angolo, “andiamo a comprare le patatine fritte? è un'ora che penso alle patatine fritte”, e Tatti Sanguineti proditoriamente nasconde alla vista sgarbiana le sue scarpe (il più pregevole esemplare neorealista ancora in circolazione) e ha quasi un principio di abbiocco sugli spalti che da mercoledì 18 o da mercoledì 25, a Dio piacendo e alla Lei soddisfacendo, dovrebbero ospitare il fortunato pubblico. E Tatti, che fa Tatti? “Sta tutto il giorno chiuso in redazione a bestemmiare e a fare ricerche su Walter Chiari…”. Tatti ha l'aria di un fumetto, la barba bianca e l'occhio bambinesco e i calzoni a zompafosso alti sulla caviglia, ma è capace di formulare pragmatiche osservazioni. “Dopo trenta mesi a Mediaset – racconta – ho capito come funziona, e ho spiegato che la parola chiave è una: fica, fica, fica… Qui dov'è?”. Pare scarseggiasse, fino all'altro giorno. Così, rapido pattugliamento, repentino casting, felice selezione. Sempre a Dio piacendo, e alla Lei soddisfacendo. Al telefono, intanto, Sgarbi è con un giornalista dell'Osservatore Romano. “Ma l'Osservatore Romano è con noi?”. “L'Osservatore Romano è sempre con voi!”. Urla di giubilo di Sgarbi – che dice di parlare con circa dieci vescovi al giorno, elevando certo la conversazione ma restringendo le ore dedicate alla catechesi: “Sono devoto all'Osservatore Romano!”. Si guarda in giro in cerca di attruppamenti nella rinnovata devozione tra le tante stralunate facce circostanti: “Ecco, guarda, pure Resca… Lui è dovotissimo alla Madonna di Fatima, e legge sempre l'Osservatore…”.

    Una nave dei folli? Una zattera della medusa? Quattro amici più quattro al bar (ci fosse un bar, qui dentro) che cazzeggiano sull'orlo di un abisso? Tra notte e giorno, il buio che afferra l'alba e l'alba che precipita nella tarda mattinata, Sgarbi sta. E telefona e telefona e parla e parla e s'infuria e riprende a ridere. Fa l'incazzato, magari è incazzato, ma ha l'aria di chi si sta anche divertendo parecchio. Un grande della televisione come Carlo Freccero dice che “Sgarbi riesce molto bene non quando ha carta bianca, ma quando la carta bianca se la prende”. E perciò va a finire che la Lei – tra lo scarso timor di Dio imputato alla nuova trasmissione e l'eccessivo timor del Vaticano a viale Mazzini – farà per lui almeno un po' di quello che Masi ha fatto per Santoro: sana opposizione, felice ostacolo, mediatica dissociazione. E dunque siamo al giorno dopo, giovedì. Conferenza stampa con qualche difficoltà – tra Sgarbi che vuole e la Rai che forse non sa. I cronisti tenuti in attesa fuori dagli studios di via Tiburtina, in divertita compagnia del bracciantato dei figuranti e di quelli che devono fare i provini per “Affari tuoi” – la trasmissione dei pacchi. Arrivano a ondate: le signore con fresca cotonatura, i maschi con composta dignità di provincia. “Noi siamo quelli della Toscana…”. “Voi alle quindici e trenta… Adesso il Lazio…”. Un gruppo entra, l'altro resta sotto il sole. “C'è mio figlio, lo posso…”. “No, entrano solo quelli invitati” – e l'impaziente pischello resta parcheggiato e triste sul marciapiede tiburtino, tra le bancarelle dei cinesi e il chioschetto dei giornaletti usati. Tutti dentro, dietro a Sgarbi. Conferenza al centro della bellissima scenografia di Calzavara, “un posto dell'anima” – che riproduce la “Scuola di Atene” di Raffaello, tanto bella e tanto fastosa che lo stesso Cavaliere se ne meravigliò – una cosa da firmarci un trattato internazionale, altro che l'antico abbellimento che organizzò a Pratica di Mare: “Vittorio, questa scenografia è troppo costosa. A Mediaset non te l'avrei fatta fare…” – e pensa se Vespa potesse permettersi un plastico così, ci sarebbe da fare dibattiti per ogni accoppamento, da Remo in poi. Per un paio d'ore il conduttore ricapitola, scompone, ricompone. Il programma avrebbe dovuto intitolarsi “Il mio canto libero” – esattamente come la canzone di Battisti. Ma non si può, per una storia di diritti che appartengono alla vedova del grande Lucio, “potrebbe farci causa”. Si è provato con “Il mio canto è libero”, ma si è deciso di lasciar perdere. Come per i gatti di Eliot, pure per una trasmissione di Sgarbi trovare un nome è faccenda complicata. A lungo si è vagato, tra “Fahrenheit” e “Hannibal”, “Al di là del bene e del male”, persino “Libero”, che francamente, senza “il mio canto” a fianco, è disgraziatamente evocativo. Addirittura un titolo dell'Unità, “Ci tocca anche Sgarbi”, era stato vagliato in un momento di più accesa disperazione. Ora si sta esaminando la possibilità di ricorrere alla grandezza di Stanislaw Lec: si chiama “Pensieri spettinati”, la sua irrinunciabile raccolta di aforismi. “C'è quello, splendido, che dice: ‘Tutti gli dei furono immortali', e come sottotitolo…”. Perché, casomai, c'è un'ulteriore alternativa. “Sapete qual è l'anagramma del mio nome, di Vittorio Sgarbi? Or vi sbigottirà…”.

    “Non so esattamente cosa capiterà il 18 maggio. Ma io ho un impegno, la mia idea è di mandare in onda lo studio…”, fa il perfido, Sgarbi. “Non mi sento né gradito né rispettato. Fin da sempre si era parlato di diretta e da sempre si è detto Dio nella prima puntata”. Perché, ecco, non c'è solo la questione del titolo.

    La questione è Dio – sempre è Dio, la questione. Lorenza Lei vorrebbe far virare la prima puntata su qualcosa di più rassicurante, tipo la bellezza (tema di un'altra puntata, insieme a “libertà e giustizia”, “la donna”, “il vero e il falso”, oltre a una sulla Biennale veneziana). E poi la questione è anche la diretta: pare che in Rai preferiscano far registrare prima il programma. “Vorrei dire di sì per gentilezza, vorrei dire di no per dignità… Vorrei fare un po' la vittima”. Come Santoro, dice. “Perché non registrano prima anche lui? Loro sono delle vittime, io sono lo stronzo…”. Carlo Vulpio – di cui si fantastica intorno a un monologo sul tema mica poco ardimentoso di Dio e la diossina – ne è sicuro: “A noi non ci si vuole far andare in onda”. Non si vede, e se ne duole Sgarbi, né il direttore generale né il direttore di rete, Mauro Mazza, né il presidente della Rai, Paolo Garimberti. “E io soffro di sindrome dell'abbandono, quindi più persone sono con me e più io sto bene”. E allora, che si fa? “Dovremmo registrare martedì 17, per andare in onda il 18, ma io per ragioni scaramantiche di martedì 17 non comincio nulla”. Il 25, allora? “Non sono sicuro di farlo”. Ah, quando c'era Masi! Ah, il beato Masi! Ah, quando c'era lui, cara Lei! E appunto, “ho la sensazione che sentano questo programma come imposto dall'alto, da Masi”. Sempre con Masi ha discusso Sgarbi, e sempre con lui, assicura, bene si è trovato. E nella prima puntata lo vorrebbe come ospite – tra il vescovo, “che è venuto qui, ha fatto delle prove”, e il teologo, il temibile Fox, che però il prelato, teologicamente parlando, assicura di potersi mangiare in un boccone, e dunque “c'è forse una pecorella più smarrita di una volpe? E noi, per ricondurla nel gregge, abbiamo chiamato un vescovo” – il venerato e baffuto ex direttore generale. “Ero felice che ci fosse una figura eretica e pericolosa come la sua. Pare che nelle ultime ore sia addirittura diventato buddista”. E s'infervora, Sgarbi, quando il Giornalista Democratico di un grande Giornale Democratico molto evidenzia il disappunto per la poco paradisiaca apparizione del Masi stesso in trasmissione: “Masi non ci è imposto! Masi è un mio divertimento! Mi voglio divertire con Masi vestito da Zorro!”.

    Nell'attesa: a) di risolvere la questione di Dio, “molte spie, qui dentro, raccontano come pericoloso ciò che è solo avventura dello spirito”, b) di trovare un titolo decente alla trasmissione, c) di vedere come finirà questa faccenda della differita, Vittorio Sgarbi procede, a suo modo, alla presentazione della truppa imbarcata per questa ormai bizzarra avventura, da Vulpio “che non andava bene perché Gasparri non lo vuole”, a “Irene Ghergo che come regista proponeva Gianni Boncompagni, e invece abbiamo scelto un ciccione che si chiama Di Blasi” – e il paziente e ben piazzato Riccardo Di Blasi, un cappellino alla Steven Spielberg calato sugli occhi, sempre lo implora, “per favore, non chiamarmi ciccione, che poi le maestranze non mi ubbidiscono più”, e quello, “sì, ciccione”.

    Ci sono i giornalisti Luigi Mascheroni, Angelo Crespi, “presidente di ogni fondazione italiana cui dà il suo inutile contributo”, a Giacomo Amadori, elegantemente abbigliato come se dovesse andare a recuperare il rais nel deserto libico, a Glidewell, “gran rompicazzo”. Fino al divino Sanguineti, “manda cattivo odore, si lava poco: l'abbiamo annusato, poi l'abbiamo preso con noi”. E le donne, le donne che scarseggiavano, “non siamo particolarmente ricchi di donne”, almeno una possibilità di essere cristianamente indirizzati – prima che proprio Tatti ponesse mano al problema.

    Certe sere, qui in questi studi, con struttura architettonica deliziosamente anni Cinquanta – e la Ghergo che sfoglia una rivista seduta sotto le frasche, all'ombra, potrebbe persino apparire come una sora Pina che si addottrina su Intimità o Grand Hotel – si fanno le due, le tre, le cinque del mattino. Notte prima della conferenza stampa. “Che fai, già te ne vai?”, domanda Sgarbi, inquieto all'idea di addormentarsi senza prima aver visto l'alba salire sulla via Tiburtina. Voleva la Minetti, all'inizio, ma il suo precedente (storico) regista, Filippo Martinez, ne bocciò il labbro superiore troppo grande. La Marangoni prova scarpe e vestiti al centro della Scuola di Atene. “Ferma”. “Ferma seria o ferma sorridente?”. “Ferma come vuoi, basta che stai ferma”. “Vuoi che mi faccio mora?”. “No”. Come fu per la storica battuta di Andreotti, quando andò in Cina da ministro degli Esteri con Craxi capo del governo e uno sproposito di amici di Bettino, “andiamo in Cina con Craxi e i suoi cari”, pure qui si sta, sospesi e attruppati, “andiamo in onda con Sgarbi e i suoi cari”. C'è pure il mitico Orlandino, quello che muto assisteva alle sfuriate di “Sgarbi quotidiani”, che con ostinazione ricerca il quadro che compariva dietro la sua testa durante quella eruttiva trasmissione. C'è in studio la sorella di Belén – nel senso della Rodriguez. C'è l'attrice Metis Di Meo. Metis? “Aggettivo che i greci preferivano dare a Ulisse – spiega sorridendo – per distinguere l'astuzia dall'intelligenza pratica”. Sgarbi ammira l'abito di Glidewell, dopo averne rimirato le calzature, e Glidewell dettaglia, “a Londra c'ho un tight del 1908 del fratello di mio nonno, e Mario D'Urso ha un abito del 1901, e una giacca del 1911” – e si capisce che l'eleganza è roba che sfiora l'antiquariato, “tu taci, irrimediabile proletario!”.

    E se Dio – a Dio piacendo, ma alla Lei spiacendo – non dovesse mostrarsi, qui tra le statue di cartapesta della scuola ateniese in versione sgarbiana, che si fa? Dio per Dio, per esempio Carlo Freccero ha un'alternativa: Berlusconi. “Un Berlusconi degli anni Ottanta, capace persino di condurre, di fare spettacolo, di gestire l'intera situazione”. E propone anche altro, Freccero a Sgarbi: una puntata sul puritanesimo, sul perbenismo, con Fede e Mora e Minetti. E una sulla cultura, “dal 1994 ad oggi, con tutti ma proprio tutti i ministri, da Bondi a Rutelli, dalla Melandri a Urbani, da Veltroni a Galan”. Nella notte che s'avanza, negli studi di via Tiburtina, tutti dicono di non sapere come andrà. “Se hai troppa libertà non hai successo, un programma di successo deve essere censurato”, è il teorema di Freccero. Un'altra lamentazione si leva: “Ma le pizze, stasera, non le portano?”. Sgarbi intanto è passato alle scarpe della Marangoni – solo per dire che troppo alte risultano, con quel rinforzo sotto la suola che a momenti manco il Cavaliere. “Cinque mesi di preparazione con Masi, abbiamo cominciato a vederci che praticamente eravamo bambini, mai nascosto il tema della prima puntata, per tre mesi e mezzo con lui ho parlato solo di Dio” – certo gravoso impegno, persino televisivamente parlando. “Io parlo di Dio, altrimenti non faccio la trasmissione. Ma scherziamo, qui siamo tutti battezzati… Mica come il tuo direttore, che è un ateo devoto, noi qui siamo devoti devoti, ecco… Che io sia parte della chiesa lo sanno anche le pietre…”.

    Notte. Giorno. Interno studios. Dio è ancora sospeso, Lorenza Lei si è risentita, dice Sgarbi, perché la loro conversazione si è svolta in vivavoce, “ma io lo faccio sempre perché sono sordo all'orecchio sinistro, e non si sentiva niente delle sue parole: quando telefono si sente solo io che urlo”. Strana persino la conferenza stampa: su un programma Rai, senza che la Rai sia presente (a parte un capostruttura). “Ho ricevuto un sms del direttore di rete Mazza, che dice che per la conferenza attende indicazioni dal direttore generale”. Tutti attendono indicazioni dal direttore generale. Dio, è noto, per sua natura è molto paziente. Sgarbi, è risaputo, molto meno. Nonostante tutta la teologia praticata con Masi.