L'idolatria dei sondaggi tra vecchie sezioni e nuovi devoti

Francesco Cundari

Un'intera pagina del Corriere della Sera affidava domenica a tre celebri sondaggisti l'analisi di “Tutte le mosse giuste e i punti deboli nella corsa dei leader”. Una scelta dettata forse dall'idea che in quel momento, nel giorno dell'apertura delle urne, fosse meglio lasciar parlare la voce asettica e indiscutibile della scienza. In quella pagina, tra i punti deboli di Pier Luigi Bersani, per fare un esempio, era indicato il seguente: “Non crede nei sondaggi".

    Un'intera pagina del Corriere della Sera affidava domenica a tre celebri sondaggisti l'analisi di “Tutte le mosse giuste e i punti deboli nella corsa dei leader”. Una scelta dettata forse dall'idea che in quel momento, nel giorno dell'apertura delle urne, fosse meglio lasciar parlare la voce asettica e indiscutibile della scienza. In quella pagina, tra i punti deboli di Pier Luigi Bersani, per fare un esempio, era indicato il seguente: “Non crede nei sondaggi, dovrebbe fare come De Gaulle che li consultava ogni lunedì e ogni venerdì”.

    In verità non c'è partito che non riceva regolarmente i sondaggi del proprio istituto di riferimento. Anche qui, la politica ha seguito l'economia: si è finanziarizzata. E' scivolata inesorabilmente nella realtà virtuale, con la straordinaria ipertrofia della comunicazione e del marketing a danno della produzione degli stessi beni da reclamizzare. L'esito ultimo, e logicamente inevitabile, è la necessità di vendere il niente: in economia come in politica. Un sistema completamente autoreferenziale, in cui tutto si basa sulla comunicazione istantanea, e ogni decisione è dettata dall'ultima variazione dell'indice di gradimento, della televisione o della borsa.

    In questo gioco, gli istituti di sondaggi stanno ai partiti come le società di rating alle società quotate. Da un lato, giornali, telegiornali e talk-show appaltano loro lo spazio dell'analisi politica, spazio in cui valutazioni sempre più ampie e discrezionali vengono fornite con il crisma della scienza, se non direttamente come voce del popolo. Dall'altro lato, tutti i partiti si servono regolarmente degli stessi analisti che sui giornali li giudicano, misurano e ammoniscono. E spesso fanno altrettanto diversi aspiranti leader dello stesso partito o della stessa coalizione, ciascuno per proprio conto e magari di nascosto l'uno dall'altro.
    Anche questo è un effetto delle riforme istituzionali degli anni Novanta, e in particolare dei meccanismi di elezione diretta: non c'è oscuro sindaco di provincia che non si senta chiamato dal paese a ben più alte responsabilità, e non consulti allo scopo i relativi sondaggi. Clienti preziosi ai quali non si fanno mancare riservatamente consigli e valutazioni, insieme con la regolare dose di narcotico demoscopico richiesta dal loro ipertrofico ego, sempre bisognoso di nuove conferme e di più forti emozioni.
    Per uscire da questo sistema, per prima cosa, occorrerebbe uno studio sull'ideologia demoscopica. Uno studio attento sulla formazione, la cultura politica, la visione del mondo di questi nuovi sacerdoti della volontà popolare, che nessuno ha eletto e che tuttavia esercitano ormai un potere enorme, inversamente proporzionale a quello dei partiti ai quali prestano le loro analisi e i loro consigli. Difficile però che consiglino ai partiti di cambiare strada, cambiare modello, cominciando magari proprio con il fare a meno di loro.

    Un tempo, quando le sezioni si chiamavano ancora sezioni, appena chiuse le urne cominciava l'andirivieni dei rappresentanti di lista con i dati dell'affluenza. Il segretario compilava diligentemente una grande mappa, e se l'affluenza nei seggi della Garbatella era più bassa del solito – e più alta, poniamo, a Collina Fleming o alla Balduina – capiva subito che ci sarebbe stato poco da festeggiare.

    Anche nelle redazioni dei giornali c'è sempre un certo andirivieni, in questi momenti. Un minuto dopo la chiusura delle urne, arriva sempre qualcuno che ha parlato con il Quirinale o con il Vaticano, c'è sempre un sondaggio segreto che circola alla Banca d'Italia, alla Farnesina o alla Cia, da cui si evincono le stesse scemenze che si dicevano il giorno prima al bar, in televisione e su tutti i giornali. A volte finisce secondo le previsioni, altre no. Ma la fideistica certezza di chi entra a passo spedito in redazione un minuto dopo la chiusura dei seggi, sicuro delle proprie fonti e del proprio fiuto, non verrà meno mai, nei secoli dei secoli. E poi c'è sempre il leader politico più esperto e insospettabile, che dopo qualche ora, pure lui, ci casca. Magari solo per sfinimento, nel cuore della notte, ormai esangue, dopo essersi trattenuto per tutto il giorno. Comincia a gridare che lo aveva sempre detto, che lo sapeva che finiva così, che aveva i suoi sondaggi che lo dicevano da giorni e giorni. E poi, invece, niente. E gli tocca pure scusarsi, magari con quegli stessi sondaggisti che lo hanno menato per il naso un'intera campagna elettorale. E valli a riprendere, adesso, tutti quelli che ti sono venuti incontro una giornata intera, con quel sorriso idiota allargato su tutta la faccia, giusto un minuto dopo la chiusura dei seggi. Quante volte, per lo stesso motivo, i giornali sono usciti la mattina dopo annunciando in prima pagina il vincitore sbagliato.

    All'epoca, in sezione, arrivavano le stesse persone, le stesse voci e gli stessi sondaggi, esattamente nello stesso momento: tra la chiusura dei seggi e i primi exit poll minimamente attendibili. A quei tempi la chiamavamo “l'ora dei cialtroni”.