Er canaro della Repubblica
Si possono fare molte cose quando un uomo finisce in carcere. Rallegrarsene. Fregarsene. Esprimergli solidarietà. E' legittimo persino sperare che evada. Gli si possono scrivere lettere appassionate. Invaghirsene. Concupirlo. Una cosa sola non si può fare: guardarlo in gabbia e ghignare dando di gomito. Questo ha fatto ieri, su Repubblica, Vittorio Zucconi che così rende conto del detenuto del momento.
Si possono fare molte cose quando un uomo finisce in carcere. Rallegrarsene. Fregarsene. Esprimergli solidarietà. E' legittimo persino sperare che evada. Gli si possono scrivere lettere appassionate. Invaghirsene. Concupirlo. Una cosa sola non si può fare: guardarlo in gabbia e ghignare dando di gomito. Questo ha fatto ieri, su Repubblica, Vittorio Zucconi che così rende conto del detenuto del momento. Era il padrone del mondo? Ora il suo mondo si è ristretto a dodici metri quadrati. Apriva e chiudeva rubinetti da cui dipendevano salvezza e condanna di nazioni intere? Ora controlla soltanto il rubinetto del lavandino nella sua cella. Era l'habitué di ristoranti tre stelle? Ora gli servono un rancio che pare faccia particolarmente schifo anche per un carcere. Comunque non ha di che lamentarsi.
La sua cella al Block 12 non sarà proprio la suite da migliaia di dollari a notte del Sofitel ma è comunque una signora cella, individuale e con doccia. Vive dunque un grande privilegio rispetto alle condizioni di vita dei suoi quattordicimila compagni di sventura. Questa volta nemmeno la grande penna, nemmeno il ritmo incantatorio dell'affabulazione, possono compensare la sensazione di fastidio che lascia l'angustia dello sguardo, la meschinità evidente di chi fa il maramaldo con un uomo che non è più libero e non ha difesa. Non c'è onore né morale in questa libertà di tono, assolutamente impensabile prima della caduta.
Sconcerta la disinvoltura con cui ci si abbassa al livello delle maggioranze acrimoniose e risentite, il piacere evidente con cui si scompone un dramma fosco, terribile in coriandoli di colorata volgarità a uso e consumo degli indignati di professione e magari meno sensibili alla presunta violenza esercitata su una donna che ai vestiti su misura, alle macchine lussuose, alle suite “da tremila a notte” che poi non sono nemmeno euro, ma dollari. Dispiace questo acconciarsi a essere la punta di diamante, la firma illustre del blogger collettivo e becero, di questa massa di scoreggioni del sottosuolo, convinti che il direttore generale di un grande organismo internazionale debba alloggiare alla pensione Miramare. Che ricchi e potenti siano comunque mala pianta, da tenere sotto scacco e nel caso in manette.
Il carcere, qualsiasi carcere, è luogo disumano. La cella, qualsiasi cella, anche la più spaziosa, è una stia dove l'uomo viene ridotto a corpo e il corpo a numero. Per questo la spavalderia del tono, la ferocia della parola hanno forza e valore se usati contro un uomo che può difendersi, cioè libero. Per questo il rispetto è dovuto a chiunque sia detenuto anche per crimini efferati. Molto tempo fa qualcuno altro schernì l'uomo in gabbia. Di mestiere faceva toelette per cani. Lo chiamavano “er canaro della Magliana”: esile e mite, una sera rinchiuse in una gabbia del negozio l'ex pugile che da anni lo umiliava e brutalizzava. Lo fece a pezzi: ogni volta che gli staccava una parte del corpo aveva un ghigno. Zucconi non mutila né tortura. Ma infierisce. E ferisce.
Il Foglio sportivo - in corpore sano