Il discorso

Pronto il piano Marshall di Obama per il medio oriente

Gli ufficiali della Casa Bianca non si sbilanciano sulla terminologia, perché “sarà il pubblico a decidere se l'analogia con il piano Marshall può funzionare”, dicono al briefing con i cronisti, ma la sostanza del discorso che Barack Obama ha fatto al dipartimento di stato è chiara: “Nel giro di alcuni anni” un miliardo di dollari pioverà sull'Egitto sotto forma di condono del debito per sostenere le imprese, più un altro miliardo per le infrastrutture e sostenere il mercato del lavoro. Anche la Tunisia riceverà sostanziosi aiuti americani.

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    Gli ufficiali della Casa Bianca non si sbilanciano sulla terminologia, perché “sarà il pubblico a decidere se l'analogia con il piano Marshall può funzionare”, dicono al briefing con i cronisti, ma la sostanza del discorso che Barack Obama ha fatto al dipartimento di stato è chiara: “Nel giro di alcuni anni” un miliardo di dollari pioverà sull'Egitto sotto forma di condono del debito per sostenere le imprese, più un altro miliardo per le infrastrutture e sostenere il mercato del lavoro. Anche la Tunisia, l'altro paese che la primavera araba ha già fatto parzialmente germogliare, riceverà sostanziosi aiuti americani. “Pensiamo che queste iniziative aiuteranno l'Egitto e la Tunisia ad affrontare la doppia sfida della trasformazione economica e della democratizzazione”, ha detto un ufficiale dell'Amministrazione.

    Gli uomini del presidente hanno anticipato ai giornalisti soltanto la parte in prosa del discorso, lasciando alla viva voce del presidente il compito di suggerire i contorni poetici dell'approccio americano al mondo arabo in fermento. La manovra economica a beneficio di Egitto e Tunisia, i paesi della rivoluzione “buona”, potrebbe fare da “modello per strategie simili”, anche se l'ultima cosa che la Casa Bianca vuole è “dare l'idea che nell'Amministrazione si coltivi l'idea che una politica unica possa risolvere scenari differenti”, come spiega al Foglio.it una fonte del dipartimento di stato. Non ci sarà dunque l'enfasi del “nuovo inizio” annunciato al Cairo poco meno di due anni fa. Al suo posto dovrebbe prevalere l'approccio morbido e generalista consigliato una parte dell'entourage di Obama, quella capitanata dal vicepresidente, Joe Biden, seguito dal consigliere per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, e dal consigliere per il medio oriente, Dennis Ross. Dall'altra parte della barricata, invece, c'è Hillary Clinton, che ha fatto pressione perché Obama includesse nel discorso passaggi più specifici sui singoli scenari, e magari qualche accenno per dare ai ribelli sparsi per i regimi mediorientali l'idea che l'America è dalla loro parte. “Non sarà un discorso fatto per infiammare le speranze dei ribelli”, dice al Foglio.it un'altra fonte di Foggy Bottom coinvolta nel complesso lavoro di preparazione del testo.

    Obama deve anche affrontare il grattacapo supremo del processo di pace fra israeliani e palestinesi, il punto oscuro e inevitabile del discorso di oggi. La settimana scorsa il presidente ha accettato le dimissioni (a microfoni spenti i diplomatici dicono “licenziato”) di George Mitchell, il negoziatore del processo di pace che in due anni ha visto azzerati nella realtà tutti i propositi di “reset” lanciati da Obama. Mitchell non aveva molti fan a Foggy Bottom: “Non ha fatto assolutamente nulla da quando i dialoghi diretti sono crollati l'anno scorso. Ha 77 anni ed era il momento che se ne andasse”, dice un diplomatico. L'ex negoziatore Aaron David Miller è più indulgente con il senatore: “Dovendo quantificare direi che lui ha soltanto il 20 per cento della colpa, il resto è da attribuire ai leader israeliani e palestinesi, che non accettano di prendersi nessun rischio per raggiungere un accordo. E Mitchell, che è un uomo onesto, ha deciso di dare le dimissioni”, dice.

    Venerdì arriva a Washington il premier israeliano, Bibi Netanyahu, a sua volte reduce dagli scontri sui confini e dalla bozza di accordo per l'unità palestinese firmato da Hamas e Fatah, “un regalo enorme per il partito dello status quo”, spiega Miller. “Sono più che scettico sui negoziati – continua – non ci sono possibilità al momento di sedersi seriamente attorno a un tavolo ed è anche colpa dell'Amministrazione, che non ha una strategia comprensiva. Fa spostamenti tattici, ma non fa una vera pressione per un accordo”.

    Quella fra Netanyahu e Obama poi è una storia fatta di dispettose attese nei corridoi della Casa Bianca, di accordi con data di scadenza e richieste non esaudite, A complicare tutto è stata anche la primavera araba (“per gli israeliani è un problema enorme”, dice Miller) e l'instabilità che questa ha portato in paesi amici come l'Egitto e che potrebbe aggravare la posizione della Siria, facendola sprofondare definitivamente nell'orbita iraniana. In vista dell'incontro con Netanyahu (che metterà sul tavolo anche le violenze di Nakba come prova degli effetti nefasti del fermento arabo) Obama tende due mani alla preoccupazione di Israele: le sanzioni al governo siriano e gli aiuti economici all'Egitto, per dare almeno l'impressione che l'America stia facendo di tutto per evitare che la transizione del Cairo si trasformi in una confusione molto produttiva per i nemici di Israele.

    Che cosa chiede in cambio Washington? In una bozza provvisoria del discorso ottenuta dal quotidiano israeliano Yedioth Ahornot si dice che Obama proporrà di tornare ai confini del 1967, ma la circostanza è stata smentita in modo deciso dall'ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, ed è osteggiata anche da Dennis Ross, il diretto beneficiario, in termini di influenza diplomatica, della dipartita di Mitchell. La contropartita, dunque, è il terreno su cui si verificherà quanto è credibile un “reset” dei negoziati. Non è chiaro infine se sulla Siria Obama si sbilancerà quanto il vicepresidente, per cui ogni governo che si accanisce sul proprio popolo dovrebbe essere rimosso. Su Washington staziona l'ombra di una lobby molto potente che coltiva gli interessi di Damasco e quando gli ufficiali di Obama vengono interrogati su questo hanno buon gioco a tenere tutti sulle spine: “Di questo parla solo il presidente”.