Sotto a chi tocca al FMI

Il fronte frastagliato degli emergenti fa felice l'Europa

Stefano Cingolani

Europa contro il resto del mondo, e gli Stati Uniti in mezzo. Le dimissioni di Dominique Strauss-Kahn hanno aperto la corsa alla poltrona di direttore generale del Fondo monetario internazionale, e per la prima volta i fondatori sono sfidati dalle nuove potenze economiche. Queste hanno colto l'occasione per negare il diritto acquisito degli europei che dura dal 1946 (il primo direttore fu un belga, Camille Gutt), in base a un patto con gli americani i quali sono sempre stati interessati a controllare la Banca mondiale, nelle cui casse circolano dollari, non unità di conto come i diritti speciali di prelievo (composti da un basket di valute: dollaro, euro, yen e sterlina) emessi dal FMI.

    Europa contro il resto del mondo, e gli Stati Uniti in mezzo. Le dimissioni di Dominique Strauss-Kahn hanno aperto la corsa alla poltrona di direttore generale del Fondo monetario internazionale, e per la prima volta i fondatori sono sfidati dalle nuove potenze economiche. Queste hanno colto l'occasione per negare il diritto acquisito degli europei che dura dal 1946 (il primo direttore fu un belga, Camille Gutt), in base a un patto con gli americani i quali sono sempre stati interessati a controllare la Banca mondiale, nelle cui casse circolano dollari, non unità di conto come i diritti speciali di prelievo (composti da un basket di valute: dollaro, euro, yen e sterlina) emessi dal FMI. Ma le cose sono cambiate e non da adesso. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, ha detto chiaro e tondo che quel posto va agli europei non per un privilegio post coloniale (come si sente dire dagli esponenti dei paesi in via di sviluppo), ma perché pagano le quote maggiori, quindi sono gli azionisti di riferimento. Ragionamento impeccabile, anche se le quote sono versate dai singoli paesi, non dall'Unione: al primo posto ci sono gli Stati Uniti con il 17 per cento, poi Giappone con 6, Regno Unito, Francia e Germania con 4,9, Italia e Arabia Saudita con poco più del 3. Tuttavia, Barroso pensa a fare squadra presentando un candidato a nome della Ue.

    E' d'accordo anche Christine Lagarde, ministro francese delle Finanze, in pole position, sponsorizzata dal New York Times e da ieri sera sostenuta apertamente anche da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, ben vista dagli americani (ha lavorato dieci anni a Chicago in uno dei principali gabinetti d'affari, Baker & McKenzie), nominata dal Financial Times miglior ministro delle Finanze dell'Eurolandia nel 2009. Sulla sua candidatura giocano variabili politiche legate agli equilibri del governo Fillon, e giudiziarie per un arbitrato deciso, quando faceva l'avvocato, a favore del controverso Bernard Tapie. Se non sarà lei, il nome europeo più accreditato è Axel Weber, ex governatore della Bundesbank, oltre quello di Jean-Claude Trichet. Il ministro delle Finanze turco, Mehmet Simsek, vuole che cambino i criteri di scelta. E di fatto spinge per il suo predecessore Kemal Dervis. S'è già offerto il brasiliano Guido Mantega, anche lui ministro dell'Economia. La Cina chiede che i paesi in via di sviluppo abbiano una rappresentanza più ampia al vertice. Zhu Min è diventato consigliere speciale di DSK, ma l'ex terzo mondo non fa quadrato attorno a lui. I Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sono una costruzione economico-concettuale, non un blocco di interessi e valori comuni. I conflitti emersi dentro il G20 lo dimostrano. I nuovi arrivati possono per ora attendere, ha detto ieri in sostanza una gelida Angela Merkel. Un processo si è messo in moto, spiega lo storico dell'economia Barry Eichengreen citato dal Wall Street Journal, tuttavia “né Cina né Stati Uniti avranno la capacità di gestire i problemi dell'economia globale da soli, e non avranno nemmeno la possibilità di dettarne i termini”. Quindi, l'Europa è pienamente in pista.

    Con la crisi del 2008-2010 il ruolo del FMI è diventato più vasto e incisivo, anche grazie a DSK il quale voleva trasformarlo nel braccio esecutivo della nuova governance multipolare. Il Fondo, che per la maggior parte della sua esistenza s'è occupato dei paesi poveri, oggi deve gestire i debiti dei ricchi, degli europei (a cominciare da Grecia, Portogallo, Irlanda). Gli Stati Uniti non accetteranno mai di concordare l'aggiustamento dei propri squilibri con il FMI, tuttavia il deficit con la Cina, fonte strutturale della crisi mondiale, può essere affrontato solo su basi multinazionali e, sulla carta, ricade nei compiti del Fondo. La lotta per la successione, dunque, s'inserisce in un delicatissimo processo, perché è in gioco la sovranità degli stati. Ecco perché non basta un tecnico o un banchiere centrale, ci vuole una figura ad alto tasso di esperienza internazionale e con grandi capacità politiche. Nel caso cinese c'è un problema in più. Il Fondo è basato sull'accettazione dei principi dell'economia liberale. Nonostante tutti i cambiamenti, non risulta che la Cina si sia ancora incamminata su questa strada. Davvero l'America è disposta ad ammainare la bandiera?