Come ti silenzio lo scandalo di stato delle calunnie avallate da pm comizianti e media

Giuseppe Sottile

Per uscire dalla galera e dalla palude di discredito nella quale è di colpo precipitato, Massimo Ciancimino non trova altra via se non quella di coprire e riverniciare le sue patacche con altre bugie. Il catalogo degli esempi possibili è senza fine. Non sa come giustificare la calunnia all'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro? Nessuna preoccupazione. Il pataccaro infila la mano nel pozzo nero della sua fantasia e tira fuori un improbabile “Mister X”.

    Per uscire dalla galera e dalla palude di discredito nella quale è di colpo precipitato, Massimo Ciancimino non trova altra via se non quella di coprire e riverniciare le sue patacche con altre bugie. Il catalogo degli esempi possibili è senza fine. Non sa come giustificare la calunnia all'ex capo della polizia, Gianni De Gennaro? Nessuna preoccupazione. Il pataccaro infila la mano nel pozzo nero della sua fantasia e tira fuori un improbabile “Mister X”: che, ovviamente non esiste ma intanto serve a gettare fumo negli occhi di chi vorrebbe vederci chiaro. Non sa come giustificare i tredici candelotti di dinamite, dotati di miccia e detonatore, che teneva ben nascosti nel giardino di casa? Nessun problema. Massimuccio si inventa un misterioso boss che nottetempo bussa alla sua casa e gli consegna, a titolo di avvertimento, il pacco scellerato con dentro una santabarbara capace di far esplodere un palazzo intero e provocare una strage. Ovviamente, in via Torrearsa, non ha bussato nessun mafioso: le telecamere di sorveglianza lo avrebbero registrato e la scorta non avrebbe potuto non vedere. Ma al magliaro di Palermo la bugia serviva per alzare un polverone e nascondere le sue magagne. In parte c'è riuscito. A un mese dal ritrovamento dei candelotti i suoi magistrati di riferimento stanno ancora lì a disquisire se incriminarlo o no, se vale la pena di processarlo per direttissima, se applicare anche nei suoi confronti il rigore che il codice assegna a chiunque venga trovato con una pistola arrugginita sotto il letto: il mandato di cattura.

    I magistrati di riferimento sono Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, meglio conosciuti come i pm comizianti di Palermo. Sono stati loro che, per tre anni, lo hanno gestito  fino a trasformarlo, parole di Ingroia, in una “icona dell'antimafia”. E sono stati loro che gli hanno consentito di “mascariare” impunemente i più alti vertici dello stato, dal capo del governo a un ex ministro di centrosinistra, dal prefetto De Gennaro al generale Mario Mori, il capo dei Ros che, nel gennaio del 1993, riuscì a catturare Totò Riina, sanguinario boss dei corleonesi. Fino a Giorgio Napolitano contro il quale Massimuccio ha lanciato addirittura l'accusa di avere tramato sottobanco con i magistrati di Caltanissetta per spingerli a prendere le distanze da lui e a incriminarlo per calunnia.

    In un paese normale, un così grande scandalo di stato avrebbe dovuto suscitare  un'impressionante serie di inchieste e di interrogativi. E avrebbe anche dovuto provocare una  ventata di sana indignazione – va tanto di moda oggi l'indignazione – nei puritani che in questa stagione confusa girano per piazze e palasharp o in quelle forze “sinceramente democratiche” alle quali, teoricamente, dovrebbe stare molto a cuore l'equilibrio dei poteri e la rispettabilità dell'ordine giudiziario. Invece niente. Zitti e muti. Dal ministero di Giustizia, che sembrava lì lì per inviare gli ispettori, al presidente della commissione parlamentare antimafia, Giuseppe Pisanu, il quale  anziché avvalersi dei suoi poteri ha preferito affidare la pratica a un guitto manettaro che non ha trovato di meglio che esibirsi con un motto complice e minaccioso: “Nessuno tocchi Ingroia”. Certo, è intervenuto il comitato di presidenza del Consiglio superiore della magistratura, mosso da un disagio che la sensibilità di Napolitano, da presidente del Csm, non poteva non avvertire. Ma la patata calda è poi rotolata nelle mani della prima commissione disciplinare, composta a maggioranza da magistrati, che non sa più che cosa fare: prima ascolta il procuratore della direzionale nazionale antimafia, Piero Grasso, quello che voleva fare da paciere tra le procure di Palermo e Caltanissetta; poi chiede una relazione ai procuratori generali e poi, chissà, entrerà forse nel merito dello scandalo cercando finalmente di capire come sono andate le cose non attraverso le note burocratiche dei diretti superiori ma dalla voce dei diretti interessati.

    In fondo però, i commissari del Csm bisogna anche capirli. Perché Palermo, nido e culla dello scandalo Ciancimino, ha inviato un segnale, chiaro e affilato, che solo uno sprovveduto non avrebbe saputo decifrare. E' partito alla fine della settimana scorsa quando Luca Palamara, presidente dell'Associazione nazionale magistrati, incalzato come si deve da Gianni Minoli, ha detto a “La storia siamo noi” che sul maleodorante caso del figlio di don Vito era  necessario “fare chiarezza”: per conoscere fino in fondo la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. Apriti cielo. Palermo non ha gradito e nel giro di poche ore il dottore Di Matteo, nella sua veste di presidente provinciale dell'Anm, e il dottor Vittorio Teresi, segretario distrettuale, hanno fucilato Palamara con parole di fuoco. Accusandolo in pratica di volere delegittimare e isolare i coraggiosi colleghi, “in un momento in cui l'iniziativa del Csm già rischia di farli apparire ancora più isolati”.

    Su questo scandalo dunque – che Ciancimino Jr. tenta di sotterrare sotto una seconda coltre di fumo e di bugie – calerà probabilmente anche il silenzio invocato con tanta veemenza dall'Anm di Palermo. I giornaloni – quelli che si sono prodigati, con articoli e interviste, nel rivestire il pataccaro di credibilità – hanno già ubbidito. All'appello manca il Csm, ma il buon giorno si vede dal mattino e le previsioni consentono ai silenziatori della verità di non disperare.

    E manca pure Michele Santoro, padre putativo, mediaticamente parlando, dell'icona creata dalla procura di Palermo, invitato spesso e volentieri in studio per il lancio e il rilancio delle “accuse” alla classe dirigente. Giovedì sera, in apertura di Annozero,  il conduttore ha promesso che dirà la sua. Ma solo nell'ultima puntata. Magari quando il pataccaro, già in libertà provvisoria – la carcerazione preventiva per la calunnia, senza il tritolo, scade fra qualche mese – sarà ancora una volta l'ospite d'onore della trasmissione. Libero di insultare e di “mascariare” chi vuole.

    • Giuseppe Sottile
    • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.