La stoltezza di Libia e la spettrale unanimità che occulta le guerre vergognose di sé
Tra le grandi menzogne del nostro tempo, orchestrate a uso e consumo della parte più pigra e faziosa della pubblica opinione, un posto speciale occupa la stolta guerra di Libia. In questa insensata avventura postcoloniale, tutto è imbroglio fin dall'inizio. Una rivolta armata, organizzata nelle regioni orientali del paese, tradizionalmente ostili al potere di Tripoli, viene presentata come una lotta di liberazione popolare contro il tiranno.
Tra le grandi menzogne del nostro tempo, orchestrate a uso e consumo della parte più pigra e faziosa della pubblica opinione, un posto speciale occupa la stolta guerra di Libia. In questa insensata avventura postcoloniale, tutto è imbroglio fin dall'inizio. Una rivolta armata, organizzata nelle regioni orientali del paese, tradizionalmente ostili al potere di Tripoli, viene presentata come una lotta di liberazione popolare contro il tiranno. Quindi, per conquistare alla causa le riluttanti simpatie delle nazioni europee, viene amplificata l'idea – smentita dai fatti – che solo uno dei due contendenti usi la forza: certo, la repressione dei rivoltosi è condotta in modo brutale, però i giornali ne enfatizzano a dismisura le dimensioni, inventano di sana pianta inesistenti fosse comuni, evocano addirittura, sulla scorta di farneticanti dichiarazioni dei Gheddafi, la minaccia di un genocidio.
Tutto è pronto, così, per far scattare la trappola umanitaria, che è la forma ideologica di cui si ammantano le guerre vergognose di sé: “Non potevamo restare indifferenti”, come ripeterà in seguito anche il nostro presidente della Repubblica, solitamente cauto e giudizioso, ma in questo caso tra i più attivi nell'esortare al combattimento. L'umanitarismo nelle relazioni internazionali è un'arma insidiosa: occulta i reali interessi in campo e inquina la politica con un moralismo impaziente, che tende a presentare gli scenari geopolitici come uno scontro manicheo tra il bene e il male, tra popoli e tiranni. Per giunta è un'arma scopertamente velleitaria: prende di mira non i regimi più feroci, ma quelli più deboli.
Alle menzogne, come è inevitabile, seguono altre menzogne. L'obiettivo dichiarato della risoluzione 1973 dell'Onu, proteggere le popolazioni civili, viene archiviato rapidamente e con disinvoltura: subentra la partecipazione sempre più attiva alla guerra civile a fianco di uno dei contendenti e poi – visto che i calcoli delle cancellerie si rivelano particolarmente sprovveduti – si arriva, per farla finita, all'indegno tiro al bersaglio contro Gheddafi e la sua famiglia, con tutte le vittime collaterali che hanno la sventura di trovarsi nei paraggi. Perché improvvisamente ci si rende conto di avere combinato un gran pasticcio: se ora, infatti, si fanno tacere le armi e si passa al negoziato, il paese risulta sciaguratamente diviso in due.
A rendere ancora più riprovevole la partecipazione bellica dell'Italia c'è anche il fatto che Gheddafi, dopo anni di filibustering internazionale, non era più un nostro nemico, anzi ci legava a lui uno storico e impegnativo trattato di amicizia (pacta sunt servanda). Inoltre, come non si stanca di ripetere, con formula felice, questo giornale, era un “dittatore in pensione”: non creava problemi, semmai aiutava a risolverne qualcuno, come quello dell'immigrazione illegale. Per di più, onde non fare la fine di Saddam Hussein, aveva rinunciato, d'accordo con l'occidente, al proprio programma nucleare; ed ecco un altro velenoso messaggio di questa guerra a tutti i dittatori: munitevi in fretta dell'arma atomica, se volete dormire sonni abbastanza tranquilli.
Eppure la guerra, qui da noi, almeno a guardare le forze politiche e i leader d'opinione, registra quasi l'unanimità. Magari non è proprio l'unanimità del consenso attivo ma è quella, spettrale, dell'indifferenza e dell'imbarazzo. Non si vede sventolare una sola bandiera arcobaleno, perfino il pacifismo si è ammutolito. Le guerre, quelle “oneste”, con obiettivi pubblicamente dichiarati, sono palesi conflitti che apertamente dividono le passioni. Possono essere altrettanto improvvide, mal concepite, addirittura più sanguinose, ma suscitano ben altri moti di indignazione, mobilitano a favore e mobilitano contro. La guerra dall'alto invece – quella intelligente che piace alle rive gauche, alla quale, sia pure obtorto collo, si è arruolato un governo, come quello italiano, che ha tutto da perdere e nulla da guadagnare – entra nel suo terzo mese con la più vasta benedizione. Perfino coloro che a sinistra, in qualsiasi conflitto armato, con riflesso pavloviano, si affrettano a invocare, sempre e comunque, il cessate-il-fuoco e le arti della diplomazia, si ritrovano nel campo della guerra a oltranza.
Così, intanto, si continua a bombardare, nell'attesa che un missile si dimostri più intelligente degli altri o che il regime di Tripoli si disfi da sé. In tal caso sarà stato raggiunto l'obiettivo – pudicamente non dichiarato – e comincerà la fase della ricostruzione, che si presenta per ora piuttosto oscura, anche se, par di capire, non è a rischio il grosso degli affari. Resteranno, in Libia, le ferite, i lutti e le inutili distruzioni. Da noi resterà il ricordo di una stagione tra le meno onorevoli in cui, con poche lodevoli eccezioni, la prepotenza – e a volte pure la stoltezza – si è ammantata della veste virtuosa dell'umanità.
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