Bersani non ama le leadership personali, ma nelle città hanno trionfato
“La vogliamo dire la verità? La verità è che queste elezioni, comunque andranno a finire, hanno dimostrato una cosa molto semplice: che ai nostri elettori non gliene frega nulla delle alleanze, che non gliene frega nulla delle coalizioni, che non gliene frega nulla degli apparentamenti, che non gliene frega nulla dei comitati di liberazione nazionale e che alla fine dei conti, quando entrano in cabina elettorale e quando devono scegliere quale candidato andare a votare, oramai, tutti, fanno un ragionamento molto elementare: semplicemente votano per il candidato più forte, semplicemente votano per il candidato più cazzuto e semplicemente sono molto ma molto ma molto più americani di quanto chiunque di noi abbia mai potuto pensare”.
Roma. “La vogliamo dire la verità? La verità è che queste elezioni, comunque andranno a finire, hanno dimostrato una cosa molto semplice: che ai nostri elettori non gliene frega nulla delle alleanze, che non gliene frega nulla delle coalizioni, che non gliene frega nulla degli apparentamenti, che non gliene frega nulla dei comitati di liberazione nazionale e che alla fine dei conti, quando entrano in cabina elettorale e quando devono scegliere quale candidato andare a votare, oramai, tutti, fanno un ragionamento molto elementare: semplicemente votano per il candidato più forte, semplicemente votano per il candidato più cazzuto e semplicemente sono molto ma molto ma molto più americani di quanto chiunque di noi abbia mai potuto pensare”.
Ecco: la vera lezione che dovrebbe trarre il Pd dalle ultime elezioni comunali ce la offre sotto voce un alto dirigente democratico. A poche ore dai ballottaggi si riassume in queste parole un ragionamento che negli ultimi tempi sembra essersi diffuso nel maggior partito d'opposizione. Un ragionamento che in nome dell'unità preelettorale nessuno nel Pd si azzarda a farsi virgolettare ma che descrive bene il succo di una delle grandi battaglie combattute da anni tra le due anime forti del Partito democratico: è il leader che è più importante del partito oppure è il partito che è più importante del leader? Anche un Pd vincente su Berlusconi può paradossalmente uscire in difficoltà identitaria e politica da queste elezioni e in ballottaggio è anche il modello di partito sognato dal leader del Pd, Pier Luigi Bersani. Perché se fino a oggi il segretario ha sempre scelto di difendere quella sua visione strategica della politica che prevede un mondo in cui il partito conta più del suo leader, non c'è dubbio che dopo queste elezioni Bersani avrà qualche difficoltà in più a sostenere che il centrosinistra debba combattere con tutte le sue forze questo insopportabile, insostenibile e inaccettabile fenomeno della “personalizzazione della politica”.
“Io – sostiene il professor Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della Sera e docente di Storia contemporanea all'Università la Sapienza – credo che il centrosinistra dovrebbe riflettere su quale sia davvero il modello di leadership ideale su cui puntare nel futuro. Come si è visto a Napoli e come si è visto a Milano, se non hai un buon nome da mettere in campo – e il Pd in quei casi evidentemente non è riuscito a trovarlo – non hai alcuna speranza di vedere realizzato il tuo progetto politico. E per questo credo sia assurdo, specie alla fine di questa tornata elettorale, che nel Pd in molti continuino a non accorgersi di una cosa direi quasi banale: non sono più i partiti a far vincere i candidati ma sono semmai i singoli candidati che riescono a far ottenere ai partiti dei buoni risultati. D'altra parte, credo sia altrettanto evidente che il centrosinistra commette un grave errore se non inizia a capire anche altre due cose molto semplici: che il partito non è più l'unico vero tramite della politica con il popolo e che l'unico senso che può avere oggi un partito moderno è quello di diventare, sempre di più, una grande macchina per la selezione delle leadership. E hai voglia allora a dire, come fa spesso Bersani, che ‘il progetto di governo viene prima dei nomi che si candidano a guidare quel progetto'”. Il ragionamento di Galli della Loggia si spiega anche alla luce di alcune parole scelte dal segretario del Pd nel suo libro-manifesto scritto nemmeno un mese fa per Laterza con Claudio Sardo e Miguel Gotor. Un libro in cui Bersani non solo sostiene di voler rivedere in modo consistente, “a livello locale”, l'uso di quelle primarie senza le quali difficilmente il Pd avrebbe ottenuto i risultati raggiunti in queste elezioni, ma in cui il segretario del Pd dice anche di essere letteralmente infastidito dagli “eccessi della personalizzazione nel mondo della politica”.
“I dirigenti del Pd – dice Luca Sofri, direttore del Post – hanno paura di prendere atto che le cose si cambiano (e le elezioni si vincono) con dei leader straordinari e adatti ai contesti (eppure la tradizione del Pci fu così ricca di uomini speciali). Può essere un uomo di non grande carisma ma quadrato come Bersani a funzionare in un tempo stanco di eccessi, ma all'opposto ci possono essere anche tempi in cui gli elettori sentono invece il bisogno di avere di fronte a sé guide più abili ad accendere le passioni. Basta con la storia che ‘prima i programmi' e ‘non contano i nomi': siamo pieni di programmi, di idee ne abbiamo a pacchi da anni, ma facciamo finta che non conti la cosa più rara, uomini bravi a diffonderle e farle vincere”. Secondo alcuni osservatori, all'origine di questo complicato rapporto del centrosinistra con l'immagine di una leadership carismatica vi è una sorta di “complesso del tiranno” che le sinistre si portano appresso praticamente dagli inizi della prima Repubblica e che in un certo senso – alla vigilia di quei ballottaggi in cui il Pd sembra non volersi accorgere del fatto che in nessuna delle due grandi città in cui domani e dopodomani si voterà è presente un candidato del Partito democratico – costituisce ancora oggi uno dei grandi problemi irrisolti dei progressisti italiani. “Quello che sfugge al centrosinistra – sostiene Giorgio Tonini, senatore del Pd – è che la crisi della Prima Repubblica ha fatto emergere nel nostro paese un'inedita domanda di modernizzazione del sistema politico, di correzione maggioritaria dei sistemi elettorali e di personalizzazione della leadership alla quale non possiamo continuare a sottrarci. In questo ritardo, naturalmente, pesa l'eredità delle culture politiche della prima Repubblica, che avevano rimosso la questione della leadership democratica in quanto condizionate dal cosiddetto ‘complesso del tiranno' (figlio della memoria ancora fresca del fascismo e ancor più del timore del comunismo) e pesa anche l'antagonismo nei confronti del berlusconismo, che propone, a mio avviso, una visione della leadership di stampo più populista che liberale: al punto da indurre nel centrosinistra un risveglio di quello stesso complesso. Tuttavia, sono convinto, e non sono il solo, che impegnarsi per praticare una moderna cultura della leadership democratica sia essenziale per il centrosinistra italiano se davvero intende non dare vita nel futuro all'ennesima esperienza di governo fragile ed effimera. Le elezioni, comunque finiranno, in fondo ci dicono questo: ci dicono che non possiamo continuare a far finta che una delle principali ragioni del nostro svantaggio competitivo rispetto al centrodestra sia l'assenza di una visione convinta e convincente della leadership democratica, e non comprenderlo, per noi, sarebbe un errore davvero molto grave”.
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