La tenue e ondivaga Confindustria non solo marcegagliana
Francesco Saverio Nitti, mente acuta e implacabile statalista, ricordava quando ricevette a Palazzo Braschi, sede del governo, la giovane Confindustria che gli chiedeva di fare qualcosa contro la crisi. Lui, sarcastico, replicò: “Cosa?”. E improvvisamente nel salone rinascimentale scese un imbarazzato silenzio. L'aneddoto viene in mente volendo tirare le somme della presidenza Marcegaglia.
Francesco Saverio Nitti, mente acuta e implacabile statalista, ricordava quando ricevette a Palazzo Braschi, sede del governo, la giovane Confindustria che gli chiedeva di fare qualcosa contro la crisi. Lui, sarcastico, replicò: “Cosa?”. E improvvisamente nel salone rinascimentale scese un imbarazzato silenzio. L'aneddoto viene in mente volendo tirare le somme della presidenza Marcegaglia. Di cose in realtà ne ha dette molte, anche ieri all'assemblea annuale. Ma resta la questione: è stata all'altezza dei cambiamenti che hanno scosso il sistema economico, istituzionale, politico? Intendiamoci, bisogna rendere omaggio all'energia di Emma e comprendere i suoi turbamenti.
Ha trascorso tre anni che sembrano tre secoli, attraversando la peggiore crisi del dopoguerra. Nemmeno Gianni Agnelli avrebbe saputo affrontarla. E in effetti, l'Avvocato non fu in grado di gestire la sua crisi, quella degli anni Settanta, né come capo della Fiat, né come leader di una borghesia illuminata. Nel biennio alla Confindustria (1974-76), tentò un patto sociale per placare la più aspra ondata conflittuale dall'occupazione delle fabbriche del 1920 e ne uscì con l'accordo sulla scala mobile che aprì la strada all'inflazione galoppante. Il capitalismo italiano, quando pretende di rappresentare l'interesse generale, fa cilecca.
Non si può gettare la colpa su Emma, dunque, se la Confindustria non ha saputo esprimere una strategia che evitasse alle imprese italiane di scivolare indietro nella classifica dei paesi più industrializzati, come denuncia la presidente nel suo discorso d'addio. La principale responsabilità della bassa crescita e del “decennio perduto”, ha detto, ricade sulla politica, che non ha realizzato le riforme necessarie.
Tre anni fa, nel momento della sua incoronazione, la Marcegaglia rese omaggio a un governo “che ha la più ampia maggioranza del Dopoguerra”, quindi “ha il dovere e la legittimità per governare”. Ieri ha manifestato tutta la propria insoddisfazione per quel che si poteva fare e non è stato fatto. A cominciare dalle liberalizzazioni che, citando i dati della Banca d'Italia, potrebbero generare nel medio-lungo termine un aumento del prodotto lordo pari a undici punti e dodici per i salari. Ha ragione a prendere atto che la stagione della spesa facile è chiusa per sempre. Ma di quella spesa le imprese hanno beneficiato ampiamente. E continuano a farlo. La Banca d'Italia calcola che dal 2000 al 2007, sono state approvate agevolazioni per 53 miliardi di euro articolate in 88 interventi. Eppure “i contributi pubblici non sono stati in grado di produrre effetti duratori sulle imprese sussidiate”. Perché non si sono trasformati in investimenti e posti di lavoro? Non c'è qui una responsabilità precisa degli imprenditori?
Quanto alla recessione, l'unico consistente intervento dello stato a sostegno dei redditi è venuto dalla cassa integrazione finanziata a go go e prorogata di anno in anno. L'Inps, nel suo ultimo rapporto, calcola l'ingente ammontare stanziato ed effettivamente erogato che ha consentito, si dice, di salvare quasi trecentomila posti di lavoro effettivi. In realtà ha tenuto a bagnomaria gli operai, sollevando dei loro costi gli industriali. La ristrutturazione è stata solo rinviata. Ora che il processo comincia, quanti rientreranno in fabbrica?
La denuncia dell'assistenzialismo pubblico, dunque, comporta un'autocritica. Siamo sicuri che, nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti, gli industriali siano pronti a farli? Sono in grado di modernizzare la proprietà e la gestione delle loro aziende o si chiudono in una difesa della roba alla mastro don Gesualdo? Emma Marcegaglia ha cominciato una riflessione, in particolare nell'assise di Bergamo appena tre settimane fa. Ma il punto principale è un profondo ripensamento sulla natura stessa dell'associazione imprenditoriale.
Finito il ciclo della concertazione triangolare con governo e sindacati, messa in crisi dallo strappo Fiat la gestione centralizzata dei contratti alla quale, ancora, si ispira l'accordo con Cisl e Uil del 2009, spostata a Francoforte la manovra monetaria (che tanto sollievo aveva dato alle imprese fino al 1995 con la svalutazione della lira), espropriate da Bruxelles la politica industriale e quella di bilancio, travolti dalla globalizzazione dazi e tariffe che avevano sostenuto il made in Italy, a che serve la Confindustria?
E' una lobby delle lobby, un'agenzia di servizio alle piccole e medie aziende, una sorta di testimonianza del valore dell'impresa e del profitto? Funzione culturale apprezzabile, quest'ultima, ma deve tradursi in una vera battaglia di lungo periodo, usando al meglio l'università Luiss, il Sole 24 Ore, la radio, la casa editrice. In Italia, il paese con il più alto tasso di imprenditoria privata al mondo, manca una cultura dell'impresa. I pochi tentativi di crearla, venuti da Olivetti, Eni, Fiat, si stanno perdendo.
Ci aveva provato Guido Carli in Confindustria, ma nessuno lo ha seguito. Gli industriali, quando si parla di cultura, pensano solo all'universo effimero delle sponsorizzazioni. C'è un abisso con il mondo delle fondazioni create dai grandi magnati americani. Intanto si disperdono anche quegli “intellettuali organici” capaci di elaborare le idee, tradurle in nuovo senso comune e in proposte spendibili.
Il vulnus maggiore al sistema confindustriale è quello inferto da Sergio Marchionne. La Fiat lascia l'organizzazione? Forse sì, forse no. Di fatto l'ha già mollata, anche se continua a pagare le sue quote (senza le quali certo il bilancio confindustriale entrerebbe in sofferenza). “Sono finiti i tempi in cui poche aziende decidevano l'agenda”, ha detto ieri Marcegaglia nella sua ultima relazione da presidente all'assemblea annuale della confederazione degli industriali. In realtà, il cambiamento repentino impresso dalla più grande industria manifatturiera italiana (l'acquisizione di Chrysler e la conseguente rottura dei vecchi contratti di lavoro), ha sconvolto quell'agenda e rende inevitabile riscriverla da capo.
Sarà questa la priorità del dopo Emma. Il confronto sulla successione si è già aperto. Sta emergendo una voglia dei grandi (privati e pubblici) di tornare in prima fila, a cominciare da chi ha una caratura internazionale. Mentre i piccoli sembrano aver chiuso il loro ciclo glorioso cominciato negli anni Ottanta. Ma questa è un'altra storia.
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