Liberi tubi in liberi comuni

Ecco cosa c'è in ballo nei referendum in arrivo

Carlo Stagnaro

I prossimi 12 e 13 giugno gli italiani saranno chiamati a votare quattro referendum: sul legittimo impedimento, sul nucleare e (due) sull'acqua. Ieri è arrivato dalla Cassazione il via libera definitivo al quesito sull'atomo, dopo che il governo aveva già abrogato tutte le norme investite dalla formulazione precedente. Adesso gli italiani dovranno decidere se cancellare l'articolo 5, commi 1 e 8 della legge Omnibus.

    I prossimi 12 e 13 giugno gli italiani saranno chiamati a votare quattro referendum: sul legittimo impedimento, sul nucleare e (due) sull'acqua. Ieri è arrivato dalla Cassazione il via libera definitivo al quesito sull'atomo, dopo che il governo aveva già abrogato tutte le norme investite dalla formulazione precedente. Adesso gli italiani dovranno decidere se cancellare l'articolo 5, commi 1 e 8 della legge Omnibus: l'uno non fa altro che dichiarare le ragioni per cui il governo intende abbandonare l'atomo, l'altro impegna alla redazione della strategia energetica nazionale. Una scelta, dunque, assai singolare, che se da un lato mina la portata pratica del quesito, dall'altra lo mette in rotta di collisione con una delle principali accuse che l'opposizione rivolge all'esecutivo in materia di politica energetica (appunto, non aver mai prodotto una strategia energetica).

    Sull'acqua, invece, gli italiani dovranno rispondere a due quesiti. Il primo, che riguarda anche altri servizi pubblici locali quali la gestione dei rifiuti e il trasporto pubblico, chiede di abolire l'obbligo di affidamento del servizio, in via ordinaria, tramite gara. Contemporaneamente cadrebbe anche l'altra possibilità offerta ai comuni, prevista sempre dalla legge Ronchi-Fitto, quella di scendere gradualmente nel capitale degli attuali gestori, trovando un socio industriale “con specifici compiti operativi” selezionato anch'esso attraverso una procedura a evidenza pubblica. La legge Ronchi è il logico, anche se insufficiente, punto di arrivo di un percorso (bipartisan) iniziato con la legge Galli e proseguito con la legge Napolitano-Vigneri e il ddl Lanzillotta.

    Il secondo quesito, che invece è specifico del settore idrico, cancellerebbe le parole “dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito” dalle voci di costo che possono essere trasferite in tariffa. In sostanza, poichè i capitali costano, gli investimenti nell'intero ciclo dell'acqua (dalla captazione alla depurazione) sarebbero coperti solo parzialmente dalla tariffa, e per il resto dalle finanze pubbliche locali (tasse o debito pubblico).

    Nella pratica, i referendum imporrebbero una rivoluzione copernicana all'attuale organizzazione del servizio idrico, riportandolo – concettualmente – a prima del 1994. Eppure, secondo Federutility sono necessari investimenti nell'ordine di almeno 64 miliardi di euro per raggiungere gli standard europei, tappare le falle (i nostri acquedotti perdono il 37 per cento dell'acqua trasportata) e realizzare i depuratori dove non esistono o sono obsoleti. La campagna referendaria ha trascurato due aspetti importanti dell'intera impalcatura normativa, e ne ha lasciato in ombra un terzo. Anzitutto, l'acqua e le reti sono e restano di proprietà pubblica – il privato può (se vince una gara alla quale possono partecipare pure soggetti pubblici) aggiudicarsene la mera gestione.

    Secondariamente, le tariffe italiane sono tra le più basse in Europa (la spesa media pro capite per la bolletta dell'acqua è attorno ai 100 euro all'anno). Peraltro, anche per razionalizzare gli usi, è importante che la tariffa rifletta tutti i costi relativi al consumo idrico. Terzo, i referendum non intaccano – e i referendari raramente ne parlano – l'aspetto regolatorio. Il potenziamento della Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche, che dovrebbe diventare un'autorità indipendente, può essere una buona notizia, se avrà risorse e competenze appropriate. Ma finché non si sottrae la politica tariffaria dalle mani degli uomini politici, che hanno interesse a usarla o come strumento clientelare, o come leva elettorale, difficilmente i problemi verranno risolti.

    Rifiutarsi di risolvere i problemi equivale o a spostare il costo sulle generazioni future, o accettare un costo ambientale (sotto forma di stress idrico o di inquinamento) in luogo di uno economico. Che tutto questo nasca da un movimento che si dichiara ecologista è solo la parte più folkloristica del paradosso. La parte più ingombrante, invece, è che si continui a parlare del colore del gatto, mentre quasi nessuno s'interessa ai topi.