Nel bunker di Gheddafi tra giostre, grigliate e dubbi sulla cerchia del rais

Toni Capuozzo

Sei forti esplosioni nella notte, e il fumo si è andato a confondere con nuvole basse che salivano veloci dal mare. Ieri ci hanno portato a vedere la casa di Seif el Arab, il figlio ultimogenito di Gheddafi. Ucciso – anche se molti hanno sollevato dubbi sull'autenticità della storia – alla fine di aprile, in un'incursione aerea. Vista da vicino, più che una villa sembra un bunker, e le mura di cemento spesso lasciano penzolare nel vuoto fasci di tondini di ferro.

    Tripoli. Sei forti esplosioni nella notte, e il fumo si è andato a confondere con nuvole basse che salivano veloci dal mare. Ieri ci hanno portato a vedere la casa di Seif el Arab, il figlio ultimogenito di Gheddafi. Ucciso – anche se molti hanno sollevato dubbi sull'autenticità della storia – alla fine di aprile, in un'incursione aerea. Vista da vicino, più che una villa sembra un bunker, e le mura di cemento spesso lasciano penzolare nel vuoto fasci di tondini di ferro. Pochi oggetti ricordano che è stata una casa: un orologio fermo all'ora del bombardamento, un telefono, una radio. Il resto è macerie, tranne nei locali della cucina e negli alloggi degli inservienti, in costruzioni separate. Ma la prima cosa che colpisce è la severità disadorna del luogo, anche se i Gheddafi hanno sempre evitato, in patria, le ostentazioni del lusso. Seif el Arab, 29 anni, era il meno conosciuto dei rampolli del rais. Non aveva alcun ruolo in Libia e si era fatto conoscere soltanto per il rumoroso soggiorno di studio in Germania, multato più volte per eccessi alla guida delle sue Ferrari, accompagnati da risse. Più che ai libri, si era dedicato alle feste. L'aneddotica locale vuole che il padre gli avesse affidato compiti militari, allo scoppio delle rivolte, ma la realtà è che nessuno, qui, sa che faccia avesse. E nessuno, tra i libici comuni, sapeva che vivesse in questo quartiere, Gargur, riservato alla nomenclatura, e in questa villa. E dunque: perché l'hanno colpito, e come hanno individuato l'obiettivo? Non resta che pensare che forse il padre usasse la casa come uno dei suoi rifugi e che l'informazione venisse dalla sua cerchia ristretta. Certo non era un target legato in modo così stretto alla difesa dei civili. Poi ci hanno portato a Bab el Azizija, il Luogo. Cioè il quartier generale e la residenza ufficiale di Gheddafi, e sicuramente il posto in cui ha tenuto alcuni discorsi all'inizio della crisi (ad esempio quello trasformato nel rap Zenga Zenga da un israeliano diventato per questo famoso, lo trovate su You Tube). Entrare a Bab el Azizija (cioè, alla lettera, la porta che conduce al villaggio di Azizija, chiamato così perché fondato da un pascià turco di nome Aziz) vuol dire attraversare cinque o sei cerchia di mura e controlli, e una piccola folla di militanti che hanno trasformato una parte del complesso in un happening permanente, a mo' di scudi umani. Ci sono donne e bambini – molti hanno l'aspetto di immigrati subsahariani – e tende, e grigliate, e giostre, e molti soldati. Per arrivare in una zona deserta e silenziosa dove hanno colpito le ultime bombe – una sola sembra essere finita in un prato, le altre hanno centrato in modo devastante gli obiettivi – si passa accanto al monumento con il pugno sinistro che spezza un jet americano. Se aveste detto a Ronald Reagan, quel 15 aprile 1986, che 25 anni dopo la cosa si sarebbe ripetuta, sotto un altro presidente americano, stavolta nero e democratico, vi avrebbe preso per pazzi. Gheddafi, il duellante infinito, può temere la determinazione a continuare per altri 90 giorni le incursioni? Forse deve guardarsi da altro.