Biennale con bellezza italiana

Camillo Langone

Mai avrei pensato di avere gusti simili a quelli di Fabio Fazio. Non che lo ritenga antipatico, magari di persona è un essere umano, ma a questo livello di ostilità sarebbe un dettaglio ininfluente: semplicemente è il nemico. Al tempo in cui ogni tanto mi piegavo a guardare la televisione, lo sentii affermare con tono apodittico: “La religione è un fatto privato!”. Bastò e avanzò. Don Giussani mi ha insegnato che “i nostri nemici non sono gli atei ma chi privatizza la fede” pertanto quella sera spensi il Loewe per sempre, non intendevo partecipare, nemmeno con un ruolo passivo, al tentativo di riseppellire Gesù Cristo.

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    ANGELO DAVOLI

    Mai avrei pensato di avere gusti simili a quelli di Fabio Fazio. Non che lo ritenga antipatico, magari di persona è un essere umano, ma a questo livello di ostilità sarebbe un dettaglio ininfluente: semplicemente è il nemico. Al tempo in cui ogni tanto mi piegavo a guardare la televisione, lo sentii affermare con tono apodittico: “La religione è un fatto privato!”. Bastò e avanzò. Don Giussani mi ha insegnato che “i nostri nemici non sono gli atei ma chi privatizza la fede” pertanto quella sera spensi il Loewe per sempre, non intendevo partecipare, nemmeno con un ruolo passivo, al tentativo di riseppellire Gesù Cristo. Oggi però il nemico ha mandato alla Biennale uno dei migliori artisti italiani, un vero pittore: Angelo Davoli (Reggio Emilia 1960). Tocca rifletterci. Magari è l'unico gesto luminoso di una vita dedicata alle tenebre, magari è il primo passo di una resipiscenza. Perché l'arte di Davoli è davvero buona e giusta. Scrive Roger Scruton che “nel mondo moderno il vero compito dell'artista non consiste nel ripudiare, bensì nel riconciliare”. Ecco, Davoli è un riconciliante. Riconcilia l'industria alla natura, le ciminiere ai boschi, gli sviluppisti ai romantici. E' quindi il contrario di Mario Botta: “Il teatro lirico la Scala con l'ultima modifica architettonica sembra una centrale nucleare” nota il più esatto dei critici architettonici, Maurizio Milani. A sperperare bellezza sono capaci tutti, solo Davoli è capace del procedimento inverso: gli dai una centrale nucleare e con la collaborazione di Arnold (Böcklin) e Caspar David (Friedrich), valorosi garzoni di bottega, la trasforma in un teatro. L'opera visibile all'Arsenale si intitola “San Michele Arcangelo” (gru, camini e silos che si ergono contro le forze del male) ed è un polittico composto da sedici oli su tavola per una superficie totale di centimetri 240 per 225. Costa trentacinquemila euri e se fossi un industriale pregherei l'autore di farmi l'alto onore di vendermelo. Opere singole di dimensioni da appartamento e non da consiglio di amministrazione (quindi 100 x 120) sono quotate intorno agli ottomila.


    GIUSEPPE DUCROT

    Il problema della committenza. In questi giorni a Roma e non solo a Roma ci si dispera per l'appena inaugurata statua di Giovanni Paolo II davanti alla stazione Termini: “una garitta” secondo l'Osservatore Romano, “una cabina telefonica” secondo molti passanti, “un mostro espressionista che nemmeno in un film di Fritz Lang” secondo la mia amica Simonetta. Ora, Oliviero Rainaldi non è il peggiore né il migliore degli scultori italiani, qualche volta ci prende e qualche volta no: un suo rilievo del 2006 mi ricorda Medardo Rosso (spero lo intenda come un complimento), lo statuone del 2011 mi sembra un errore di quattro tonnellate, però non solo suo, anche della committenza che avrebbe dovuto vigilare in ogni fase del lavoro invece che approvare bozzetti in fretta per abbandonare subito dopo l'artista ai suoi intellettualismi. Giuseppe Ducrot (Roma 1966) nell'arte sacra si è saputo contenere anche in assenza di committenti particolarmente occhiuti, dimostrando competenza e umiltà sia nella cattedrale di Noto che nella basilica di San Pietro dove l'anno scorso ha collocato un Sant'Annibale Maria di Francia assai impegnativo (cinque metri e mezzo in marmo di Carrara) di cui tutto si può dire tranne che stoni col contesto. Ducrot, che esterofili e pedanti potrebbero pronunciare Diucrò, discendendo da mobilieri francesi trasferitisi a Palermo ai primi dell'Ottocento, fuori di chiesa è autorizzato a scatenarsi e a Venezia si è tolta la voglia, portando un “Cavaliere su sarcofago” in terracotta invetriata che per certi versi sarà pure nel solco della tradizione toscana dei Della Robbia ma per altri entra di gran carriera nel reame del bizzarro, del barocco fiammeggiante: una pazza idea fra Cappella Sansevero e Salvador Dalì. Chi volesse portarselo a casa calcoli il prezzo (quarantamila euri) e il peso (duecento chili). Chi invece preferisse il Ducrot più sorvegliato può fare come ha fatto l'illustre collega Arnaldo Pomodoro: commissionargli alla metà di quella cifra un busto-ritratto degno di un antico romano.


    GIOVANNI IUDICE

    Giovanni Iudice (Gela 1970) mi ha dato un dispiacere. Io l'ho segnalato avendo negli occhi le sue donne nude, i più bei quadri di donne nude della pittura italiana d'oggi, e lui mi porta a Venezia un quadro, ohibò, sociale. Avevo negli occhi “Nudo in ginocchio”, sul letto una bellezza siciliana del tipo di Loredana Cannata, pelle color latte di mandorla, e a fianco del letto un comodino e un abat-jour teneramente datati; “Nudo e bottiglie”, sempre Loredana Cannata distesa sul divano col copridivano, qualche distillato (distinguibile una vodka) sul tavolino e un'ipnotica sensazione di controra. Due capolavori assoluti, composizioni classiche che saranno ancora belle fra cent'anni. Appena un passo indietro, ma sempre di alta qualità, il “Nudo nell'orto” con una protagonista stavolta di pelo nero e folto courbetiano, e “Nudo nella doccia”, lei china vicino alla lavatrice e ai detersivi, un altro brivido di eros domestico. Tutto questo ben di Dio all'Arsenale non si vedrà. Al suo posto un quadrone intitolato “Umanità”, fulgido esemplare di realismo immigrazionista, la nuova ideologia dominante che ha imposto a Iudice di mettersi a pennellare tele retoriche, anziché organizzare ronde per fermare il nemico sul bagnasciuga di Gela. L'umanità non c'entra col numero: è un'idea ottocentesca, poteva giusto crederlo Pellizza da Volpedo. Per giustificare il collaborazionismo non si tiri in ballo il cristianesimo: per il Vangelo il prossimo è un singolo, non un continente, nel Nuovo Testamento l'amore è chiesto da Dio, non imposto da Cesare né tantomeno dagli artisti e il buon samaritano paga il locandiere affinché si prenda cura del ferito, non pretende che lo ospiti gratis. Infine ricordarsi che “si dà fratellanza solo c'è un padre comune” (Claudio Risè), mentre non hanno l'aria di recitare ogni domenica il Pater Noster gli umani sbarcati sulla spiaggia e dipinti da Iudice con maestria degna di miglior causa. “Umanità” costa trentamila euri, i nudi dodicimila: per una volta chi meno spende, meglio spende.


    MASSIMO LISTRI

    Di Massimo Listri (Firenze 1956) o Della bellezza. Lui è bello, i suoi abiti, cuciti dai migliori sarti, sono belli, la sua casa di Piazza Santo Spirito è la più bella casa privata che io conosca, fantasmagoria di arredi culminante in una pelle di tigre siberiana maschio (ovviamente stesa davanti al camino) che oramai è leggenda. Bellissimo il suo gesto artistico: laddove gli altri fotografi si presentano conciati da traslocatori, stravolti dai borsoni rigurgitanti materiali, e si piazzano in salotto per mezze giornate ingombrandolo di luci e di cavi, lui arriva con la sua giacca su misura, le scarpe anch'esse su misura e lucide, il capello a posto e soltanto la sua fedele Sinar a banco ottico. La posiziona e scatta. Una foto sola. In un minuto. Perfetta. Con una insultante mancanza di sforzo e di sudore. Chiaramente Listri ha ricevuto in dono l'occhio assoluto. Scoprii la sua esistenza leggendo il libro seminale di Vittorio Sgarbi, “Dell'Italia”, sulle cui pagine approfondii Franco Maria Ricci e approcciai Piero Buscaroli: insomma il pantheon degli esteti. Nel frattempo il valore di Listri è continuato a crescere, sia dal punto di vista estetico che morale. Le sue grandi foto di interni sono orgogliosamente analogiche, molto artigianali, molto umanistiche, quasi pittoriche, piaceranno quindi a Jonah Lynch che nell'ultimo libro (“Il profumo dei limoni”, Lindau) mostra del digitale l'ontologia “potente e nascosta. Il digitale tratta il mondo come una cosa che si può replicare un numero arbitrario di volte. Viene così a crearsi un'esperienza del mondo che si oppone radicalmente all'esperienza di cose irripetibili, localizzate qui e in nessun altro luogo. Il digitale tende a far sperimentare il mondo come qualcosa di generico”. Ognuno dei tre per nulla generici bensì specifici esemplari di “Venaria Reale 02”, la foto maestosamente 180 x 225 centimetri presentata in Biennale, costa venticinquemila euri e si calcoli che l'autore per stampare è dovuto spingersi fino a Dusseldorf, siccome in Italia non esistono macchine tanto grandi. Le meravigliose, borgesiane Biblioteche 100 x 120 costano invece sui diecimila.


    MARCO PETRUS

    Pensavo fosse di destra: a Venezia è arrivato su segnalazione di Marcello Veneziani, molti suoi quadri ritraggono edifici del Ventennio, e il cognome latineggiante sprigiona autorità e solidità… Poi però Marco Petrus (Rimini 1960) mi ha confessato che gli piacerebbe essere collezionato da Michelle Obama quindi come non detto, parliamo d'altro. Dice di essersi ispirato a Edward Hopper, il pittore americano della solitudine, solo che lui ha fatto un passo ulteriore eliminando dalla tela ogni presenza umana. Secondo me le persone non gli piacciono molto, come lo capisco. A differenza di Olivo Barbieri, che a Venezia ha portato foto di Chicago, il successo non ha fatto dimenticare a Petrus la lingua italiana e quando sull'invito ha letto “Padiglione Italia” ha capito di dover portare opere raffiguranti dettagli di città, pensate un po', italiane. Pur disponendo anche lui di un ricco repertorio internazionale. Petrus è la delizia di noi architettomani, con i suoi scorci di edifici novecenteschi si può giocare a chi ne indovina di più. Dell'installazione veneziana sono riuscito ad azzeccare sette edifici su cinquanta: il Palazzo delle Poste di piazza Bologna a Roma, il Pirellone, la Torre Rasini, la Torre Branca, la Ca' Brütta, la Torre Velasca e il Palazzo della Civiltà del Lavoro. Credevo di averne azzeccati otto ma confrontandomi con l'autore ho scoperto di aver confuso la Casa Rustici di Milano con la Casa del Fascio di Como (invoco a mia discolpa quella che eufemisticamente potrei definire una certa tendenza alla ripetizione dell'architetto di entrambe, Terragni). Ognuna delle cinquanta tele di piccolo formato (30 x 20 centimetri) è valutata cinquemila euri quindi l'installazione complessiva costerebbe un quarto di milione ma anche avendocelo, il quarto di milione, non è possibile acquistarla in blocco siccome alcuni singoli elementi sono già stati prenotati. (Idea furba quella dei polittici scomponibili: grande impatto alle mostre e grande vendibilità nei dopo-mostra). Il costo di un normale 100 x 120 non supera invece i ventimila. P. S.: il cognome non è latino bensì ucraino, il padre è nato a Kiev.


    ENRICO ROBUSTI

    Sono un carnivoro, me lo chiede il mio palato e me lo impone Dio: “Quanto si muove e ha vita vi servirà di cibo” (Genesi 9, 3). Pertanto ho abbracciato con entusiasmo la pittura vertiginosa e iperproteica di Enrico Robusti (Parma 1956), alle cui mostre è difficile imbattersi in un vegano perché rischierebbe di stramazzare. Bolliti sorvegliati con cerimoniale attenzione, luganeghe volanti, teste di porco appese, maialetti sventrati, prosciutti penzolanti, brodi in cui insieme agli anolini galleggiano occhi di grasso, pollastre tirate per il collo, faraone sodomizzate in occasione della farcitura, conigli infilzati, cotechini sobbollenti e poi zamponi sacroprofani, allusive creste di gallo, salami affettati con filosofico impegno, rane fritte succhiate in comitiva... Una festa dell'antropocentrismo. Non esiste innocenza nei quadri di Robusti, anche gli eventuali bambini sono abbastanza inquietanti e pure questo è teologicamente perfetto siccome “nessuno è buono” (Vangelo di Marco 10, 18). Tantomeno il pittore, nei cui occhi mi è capitato di scorgere un lampo di sadismo. Massimalista, strafigurativo, espressionista ma non nel senso di George Grosz che pretendeva di migliorare il mondo, nel senso di Mino Maccari che se disegnava casini era perché i casini gli piacevano, almeno quanto a Robusti piacciono le salumerie. Sto parlando di un artista radicatissimo che non sarebbe mai potuto nascere lontano da Langhirano o da Zibello. Dei suoi quadri apprezzo inoltre il non essere ironici, l'esenzione da quel ghignetto convenzionale che, spiega Kierkegaard, nasconde disprezzo verso la realtà e quindi nichilismo. Sono invece tragicomici: proprio perché vi si percepisce l'incombere della morte mettono voglia di vivere, famelicamente. “Tragico destino di una gallinella ripiena”, l'olio su tela 200 x 245 centimetri presentato a Venezia, costa ventiduemila euri, i normali (normali si fa per dire) quadri 100 x 120 invece si aggirano sui diecimila.

    Leggi la preghiera sulla Biennale

    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).