La fine degli anni Ottanta e quel buco nero di tre decenni della sinistra

Maurizio Crippa

Che due principi del corsivo come Michele Serra e Massimo Gramellini siano incappati martedì nella gaffe del vestito identico alla stessa festa, la festa della vittoria della sinistra, stesso attacco e stesso pensiero, “sono finiti gli anni Ottanta”, è in fondo un imbarazzo di poco conto. Appena più preoccupante, per la banalità del vento che la spinge, è la superficie increspata del pensiero. Per Serra “è finita la politica del cerone e delle facce rifatte, delle escort, delle olgettine, degli spot… E' finita la fiction”.

    Che due principi del corsivo come Michele Serra e Massimo Gramellini siano incappati martedì nella gaffe del vestito identico alla stessa festa, la festa della vittoria della sinistra, stesso attacco e stesso pensiero, “sono finiti gli anni Ottanta”, è in fondo un imbarazzo di poco conto. Appena più preoccupante, per la banalità del vento che la spinge, è la superficie increspata del pensiero. Per Serra “è finita la politica del cerone e delle facce rifatte, delle escort, delle olgettine, degli spot… E' finita la fiction”. E anche per Gramellini gli anni Ottanta sono “la tv commerciale – luccicante ma soprattutto volgarmente liberatoria”. Verrebbe da dire: altro che Berlusconi, ecco chi è che da trent'anni confonde la televisione con il paese reale. Ma fin qui siamo alla para-antropologia, alla schiuma semiologica assaggiata quando andava di moda.

    Ma l'incidente del copia incolla mentale era inevitabile, perché è la sintesi di un'idea che gira da un pezzo nell'aria, pensata e ripensata, detta e mugugnata. Ma se gli anni Ottanta sono l'inizio di tutti i mali, significa che c'è un non detto di tre decenni da rimuovere. Questo è il punto. L'idea, ripetuta come un refrain in questi giorni della “liberazione”, è che ciò che è accaduto dopo la fine della guerra ideologica degli anni 70, con il decennio che ha iniziato la modernizzazione economica dell'Italia, Milano in primis, che ha portato alla caduta del Muro e aperto la strada a tutto il resto sia stato solo male, disastro. Ora, si può discutere di tutto. Ma che in questo decennio trentennale di cui si vuole occultare la memoria riducendola al nome dannato degli anni 80 non sia successo nulla di buono, fa ridere. Persino a Milano. Persino a Torino.

    Su Repubblica, lo storico Guido Crainz, che della damnatio degli anni 80 ha fatto un pallino, ci ha dedicato anche un libro, spiegava la vittoria di Pisapia come il taumaturgico ricucirsi di una ferita. Apertasi, va da sé, quando “l'irrompere degli anni Ottanta sembrò travolgere, assieme a molte macerie, anche anticorpi salutari, culture generose, solidarietà sociali e civili”. Eccetera eccetera, Pasolini e “le pulsioni all'esclusione che sovrastarono drasticamente quelle all'inclusione”. O per dirla con Gramellini, “nel pantheon dei valori supremi l'uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi, perché da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere”.

    Dopo il fascismo come parentesi della nazione, ecco il decennio uno e trino come buco nero temporale da rimuovere, e far finta di poter tornare al centrosinistra, agli anni Sessanta, a quando Piero Bassetti era ancora un giovanotto. Il problema è che in questo modo quella sinistra, quella borghesia che ora cantano una forse prematura vittoria antropologica cercano di occultare un trentennio in cui sono state incapaci di produrre alcunché: non l'alternativa politica; non un giudizio storico più lungo del proprio naso; non un'imprenditoria all'altezza del proprio narcisismo (è un fatto che la classe creativa che ha fatto di Milano una città ricca e viva negli scorsi decenni è stata naturaliter berlusconiana, nel senso di innovativa, individualista). Dov'erano, lor signori ora risvegliatisi? A parte, ovviamente, starsene in ben pasciuto letargo nelle redazioni dei media berlusconiani, di case editrici che diventavano berlusconiane, o di giornali che passavano di mano in mano al grande capitale, senza che i duri critici degli egoistici anni Ottanta obiettassero niente?. Dov'era la seria borghesia? Era da un'altra parte.

    Quel salto di tre decenni serve a occultare colpe pesanti della sinistra: dov'erano i progressisti quando la magistratura giacobina massacrava quei “partiti collegati al territorio” che oggi fingono di rimpiangere? Dov'erano negli anni 90 mentre nel resto del mondo una sinistra riformista cambiava le regole del gioco? Dov'erano negli anni zero del terzo millennio, quando una guerra mondiale e culturale ha sconvolto il mondo? Nel lungo decennio durato trent'anni ci sono dei bei buchi neri. Far finta di niente, e che basti la damnatio memoriae del Drive in a rifarsi il trucco e recitare un improbabile “heri dicebamus”, è comodo. Ma ci sono due decenni che non tornano nel conto.

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"