Ma Tripoli dov'è? / 7

Che caccia al dittatore è quella che uccide l'uomo delle pulizie?

Toni Capuozzo

Era il compleanno di Muammar Gheddafi, nato il 7 giugno di sessantanove anni fa a Sirte, ed è stato il giorno peggiore, in due mesi e mezzo di guerra. Abbiamo perso il conto dei missili caduti, dalle dieci e mezza della mattina alle due di notte. Di giorno su Bab al Aziziyah, la notte più lontano, in qualche periferia, come se la Nato avesse deciso che è ora di chiudere i conti.
La mattina le guardie all'ingresso dell'albergo non consentivano neppure di uscire per prendere le sigarette.

    Tripoli. Era il compleanno di Muammar Gheddafi, nato il 7 giugno di sessantanove anni fa a Sirte, ed è stato il giorno peggiore, in due mesi e mezzo di guerra. Abbiamo perso il conto dei missili caduti, dalle dieci e mezza della mattina alle due di notte. Di giorno su Bab al Aziziyah, la notte più lontano, in qualche periferia, come se la Nato avesse deciso che è ora di chiudere i conti.

    La mattina le guardie all'ingresso dell'albergo non consentivano neppure di uscire per prendere le sigarette dall'altra parte della strada, e non era per nascondere le colonne di fumo che erano sotto gli occhi di tutti, ma per timore che ci fosse qualche reazione contro i giornalisti occidentali. Nel pomeriggio ci hanno portato a Bab al Aziziyah, passando accanto alla caserma della guardia popolare, nella piazza dove, tra tende erette nel prato al centro della rotonda, sostano sempre i sostenitori del regime.

    I detriti più minuti delle esplosioni erano sparsi fin sull'asfalto, come se fosse passato un tornado. Siamo entrati nella cittadella di Gheddafi da un ingresso diverso dal solito. I militari indossavano elmetti, ed erano nervosi. Uno, in abiti borghesi e il capo avvolto in una kefiah, ci ha accompagnati in un mondo sconvolto: le palazzine, una dopo l'altra erano più che distrutte, dalle macerie si levava il fumo di piccoli incendi, ed era quasi difficile immaginare le forme degli edifici. Quello con la kefiah ha improvvisato, qua e là, dei comizi, altri due hanno levato le mani in un segno di vittoria.

    Poi ci hanno chiamato di nuovo all'ingresso, dove il corpo di un uomo, avvolto in una coperta, stava per essere caricato su un'ambulanza. L'hanno deposto a terra, e scoperto il volto, con il braccio che penzolava sugli occhi, come a proteggersi dalla luce di un pomeriggio che non voleva finire. Aveva una quarantina d'anni, vestiva poveri abiti civili, ed era un addetto alle pulizie. Certo, uno si chiede che bisogno c'era che un uomo delle pulizie continuasse ad aggirarsi in quelle palazzine in questi giorni, e si chiede anche se sia giusto, adesso, esibirlo così. Ma si chiede anche come avesse iniziato questo giorno, che cosa pensasse alle dieci di mattina, e cosa abbia fatto in tempo a capire. E si chiede che caccia al dittatore è quella che uccide l'uomo delle pulizie.

    Quando siamo tornati in albergo il colonnello Gheddafi stava parlando – soltanto l'audio, lui non è apparso – in televisione, con voce irata e promesse di resistenza. Quando ha finito, nell'aria sono risuonate le sparatorie di sfida, e camioncini carichi di giovani descamisados – è un regime con qualche tratto peronista, sì – hanno urlato la loro fedeltà al rais. Ma nelle stesse ore seimila libici hanno passato il posto di frontiera di Ras Jedir, verso la Tunisia. I ribelli berberi si sono attestati ai piedi delle montagne del sud, e non sembrano pronti a sfidare la pianura che li separa dalla capitale.

    Gheddafi si rintana in città, non ci sono ponti d'oro per un nemico che non fugge, e Tripoli, con i suoi due milioni di abitanti, rischia di essere ostaggio di troppe resistenze, un enorme vicolo cieco per tutti.