Il grande viaggio di Semprún

Guido Vitiello

La scrittura o la vita. Sembra un dilemma ozioso da letterati o da esteti, tra un Mallarmé per il quale tutto ciò che esiste è destinato a finire in un libro e un Rimbaud che volta le spalle allo scrittoio e si lancia a trafficare armi in Abissinia. Ma per chi abbia attraversato l'universo concentrazionario e i suoi campi, la scelta tra la scrittura e la vita può caricarsi di ben altra pena, di ben altro rovello.

    La scrittura o la vita. Sembra un dilemma ozioso da letterati o da esteti, tra un Mallarmé per il quale tutto ciò che esiste è destinato a finire in un libro e un Rimbaud che volta le spalle allo scrittoio e si lancia a trafficare armi in Abissinia. Ma per chi abbia attraversato l'universo concentrazionario e i suoi campi, la scelta tra la scrittura e la vita può caricarsi di ben altra pena, di ben altro rovello. Papavero e memoria, “Mohn und Gedächtnis”, per usare i termini di Paul Celan: il fiore dell'oblio e la fedeltà interiore a una vicenda così terribile che, se vi s'indulge troppo nei pensieri e nei sogni, impedisce il corso normale della vita. A Jorge Semprún, scampato a Buchenwald, il dilemma si manifestò con evidenza inaggirabile presso la tomba del poeta spagnolo César Vallejo, nel cimitero di Montparnasse: “Io non possiedo altro che la mia morte, che l'esperienza della mia morte, per dire la mia vita, per esprimerla, portarla avanti”, raccontò in “La scrittura o la vita”, pubblicato in Francia nel 1994. “Bisogna che costruisca della vita con tutta questa morte. E il modo migliore per riuscirvi è la scrittura. Ma la scrittura mi riconduce alla morte, mi rinchiude in essa asfissiandomi”.

    A sciogliere in un primo tempo il dilemma fu una donna appena conosciuta, Lorène, con la quale Semprún s'incontrava ad Ascona dopo la guerra, e che di lui ignorava tutto. “Grazie a Lorène che non ne sapeva nulla, che non ne ha mai saputo nulla, avevo fatto ritorno nella vita. Cioè nell'oblio: il prezzo della vita. Un oblio deliberato, sistematico, dell'esperienza del campo. Ma anche un oblio della scrittura”.

    A differenza di Primo Levi e d'altri ex deportati, Semprún non si dedicò a riacciuffare i ricordi come un pastore salva dalla gola del leone due zampe o un brandello d'orecchia, per usare una potente immagine del profeta Amos. Anzi, di Levi non lesse nulla fino al 1963, che è poi l'anno in cui ruppe il silenzio sulle vicende della deportazione e diede alle stampe “Il grande viaggio”. Fino ad allora, la sua “lunga cura di afasia, di deliberata amnesia”, lo aveva trattenuto dal leggere qualunque cosa avesse a che fare con i campi. Ma neppure la volontà più arcigna può far diga al torrente dei ricordi involontari. E così, capitava che fumando un mozzicone di Gitane fino a ustionarsi le dita – abitudine appresa nel lager e rimasta viva in modo quasi inconsapevole – “a volte, inaspettatamente, dolcemente, il ricordo affiorava: il mozzicone di machorka diviso con i compagni, che passava di mano in mano, di bocca in bocca, come una dolce droga di fraternità”.

    Questo inerpicarsi dei ricordi sul filo delle sensazioni non può che portare alle labbra un nome, per quanto suoni stridente: Marcel Proust. Semprún aveva cominciato la “Recherche” prima della guerra, con scarsa passione, salvo riprenderne la lettura molti anni dopo. Ma è a Proust che molti hanno pensato – un Proust senza nostalgie, e che anzi abbia terrore dei ricordi – quando, nelle prime pagine di “La scrittura o la vita”, è rievocato l'odore dolciastro, penetrante, con zaffate acri e nauseanti, che saliva dai crematori. “Basterebbe non uno sforzo, ma una distrazione della memoria ricolma di futilità, di gioie insipide, per farlo ricomparire”, ed ecco che “lo strano odore fluttuerebbe sulla collina dell'Ettersberg, patria straniera nella quale sempre ritorno”. La collina boscosa sulla quale fu edificato il campo di Buchenwald.

    Di tutti i sopravvissuti che hanno lasciato memorie e autobiografie, Semprún fu forse il più letterario, quello che con più tenacia rivendicò la necessità dell'artificio e della finzione per ricreare l'esperienza dei campi: “Una finzione che sicuramente illuminerebbe quanto la verità. Che aiuterebbe la realtà ad apparire reale, e la verità a essere verosimile”. Già che impugnò la penna a distanza di tanti anni dai fatti, si potrà credere che in lui l'immaginazione letteraria fosse la necessaria stampella di una memoria annebbiata. Non è così. Robert Antelme, lui pure sopravvissuto a Buchenwald, scrisse “La specie umana” tra il 1946 e il 1947, eppure il libro si apriva con la constatazione che quell'esperienza estrema e inassimilabile, che al solo descriverla sarebbe parsa irreale a quegli stessi che l'avevano vissuta, bisognava inseguirla dentro di sé mediante l'immaginazione. “Ci vorrà un Dostoevskij”, diceva Semprún, che pure non si lanciò in questa rincorsa interiore: gettò il macigno di Buchenwald sotto acque profondissime finché queste, erodendolo a poco a poco, non ne lasciarono affiorare a galla i frammenti sparsi. “Chi vuol ricordare deve affidarsi all'oblio, a quel rischio che è l'oblio assoluto e a quel felice caso che diventa allora il ricordo”: è la frase di Maurice Blanchot che fa da epigrafe a “La scrittura o la vita”.

    La seconda epigrafe è di André Malraux: “Cerco la regione cruciale dell'anima in cui il Male assoluto si oppone alla fratellanza”. Il male fu l'altro assillo di Semprún, a cui lo condusse quasi fatalmente il cozzare della sua formazione filosofica con la pietra d'inciampo dell'universo concentrazionario. Cominciò a ragionarne proprio nel campo, dove pativa uno straordinario cenacolo di intelligenze: “Una domenica, a Buchenwald, una qualunque domenica pomeriggio di Buchenwald, attorno alle cuccette di Maurice Halbwachs e Henri Maspero, nella nostra discussione è apparso il ‘male radicale' secondo Immanuel Kant”, raccontò nel saggio “Male e modernità”.

    Le pagine di Semprún sul male e le sue incarnazioni storiche sono animate da una furia filosofica a stento rattenuta, sempre sul punto di erompere, e in questo ricordano da vicino quelle di Jean Améry – lui pure di formazione filosofica, lui pure silenzioso sul lager fino agli anni Sessanta. Tutte le pie astrazioni delle teodicee, tutte le filosofie della storia accomodanti, tutte le giustificazioni speculative del male sono ricacciate con sdegno come i consigli dei falsi amici di Giobbe. Sgombrate queste fantasie consolatorie o pedanti resta il male radicale di Kant, quel male cocciuto e inestirpabile, quella inclinazione così distruttiva eppure così inseparabile dalla libertà, quel difetto di fabbrica che fa dell'umanità un legno storto. Quasi un equivalente filosofico del peccato originale. E infatti Goethe – “continuando a galleggiare sulla nuvola patrizia di un umanesimo astratto”, scriveva Semprún – riversò su Kant i suoi sarcasmi, lo accusò d'aver insozzato il mantello della sua filosofia con la macchia del “male radicale” affinché i cristiani ne baciassero il lembo.

    Di questo discutevano, Semprún, Halbwachs e Maspero, in quel campo di concentramento che i nazisti aprirono in mezzo ai boschi. Le SS avevano però avuto cura di lasciare in piedi un albero a Buchenwald: la quercia sotto i cui rami Goethe, “incarnazione dello spirito tedesco”, amava sostare in raccoglimento nei tanti anni trascorsi a Weimar. Non sarà un caso se intorno a quella quercia Semprún costruì un libro intero, “Quel beau dimanche!”, cercando di tirar giù Goethe dalla sua nuvola patrizia.