Liberi, servi e stralunati per il Cav.

Stefano Di Michele

Nei giorni roventi del tardo berlusconismo, persino Swift di slancio si supera – e la servitù istruzioni non prende (anche perché istruzioni non arrivano) e casomai prentende di darne. Non maligna servitù alla Genet, piuttosto amorevole, ancora sognante, liberamente preoccupata per l'andamento della padronale magione politica. Al Capranica dunque s'aduna – magari meno gagliarda di quella che fu, ma appassionata lo stesso: così roventi rabbie, così inquiete domande.

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    Nei giorni roventi del tardo berlusconismo, persino Swift di slancio si supera – e la servitù istruzioni non prende (anche perché istruzioni non arrivano) e casomai prentende di darne. Non maligna servitù alla Genet, piuttosto amorevole, ancora sognante, liberamente preoccupata per l'andamento della padronale magione politica. Al Capranica dunque s'aduna – magari meno gagliarda di quella che fu, ma appassionata lo stesso: così roventi rabbie, così inquiete domande. Rimesse saggiamente le mutande – ché ciò che la spoliazione alle menti più contorte ispirava, a Milano e Napoli poi gli elettori l'hanno fatto – è il momento della fatidica domanda: come ricominciamo, per salvare il meglio di ciò che fummo dalla fuffa di ciò che stiamo diventando? E con Giuliano Ferrara, vivandiere c/o lungotevere Sanzio, c'era tutta la meglio libera servitù dirigenziale della meglio stampa al cor berlusconiana cara e del cor berlusconiano estimatrice: perciò da amici, anche Vittorio Feltri e Mario Sechi, Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti, hanno parlato. Che ne fu, dunque, del talento da chansonnier politico del Cav., “alfa e omega degli ultimi 17 anni” – che in ritagliata sagoma, che i maligni individuano ad altezza naturale, osserva sorridendo l'amichevole attruppata? “Non ti ingessare, non diventare statua di cera, non avere paura, torna a combattere, noi siamo qui!”, invoca Ferrara rivolto un po' alla platea, un po' all'immota silhouette. E né vertici né verifiche né piccoli passi bastano. Primarie e primarie e primarie – dice, il 1° e il 2 ottobre: vino novello e novella rilegittimazione. La “grande corte sultanica”, che sempre s'appressa accanto alla Sublime Porta arcoriana, appositamente evocata, poco si vede. Certo, pidiellini di gran rango s'aggirano – i ministri Brunetta e Galan e Meloni, Cicchitto e la Santanchè – ma “il maramaldo cinico dissolvimento”, il fiato corto uscito dalle urne, nell'aria pesante s'avverte.

    Altro tono, rispetto ad altri giorni. O il colpo di reni, libere urne per liberi berlusconiani – e così “l'onction démocratique” mitterrandiana richiamata, “l'Unto del Signore” berlusconianamente declinata – oppure la palude dove gracchiare fino alla definitiva siccità, “il tran tran dell'abitudine, il senso di una cosa finita che deve consumare la propria agonia”. Sechi, con garbo sardo e sarda impuntatura, esorta: “Conviene svegliarci presto” – né solo glorie dietro l'angolo, né più spettacolare, sicuro avvenire. E l'apposita (errata) previsione di un antico capo della Twenty Century Fox, che Sechi fa, certo trova calda approvazione in Carlo Rossella, impeccabilmente hollywoodiano. Una bella pensata, per la calda adunata, è stata l'incursione di giornalisti di sinistra (non berlusconiani, non famelicamente antiberlusconiani): incursione sollecitata, provocazione persino necessaria. E la sala è appassionata sempre, permalosa a volte. Così quando Marina Terragni dice che il Cav. “è vecchio” – degasperiano nelle aspirazioni, un filino Tino Scotti nelle apparizioni, fa tumulto la platea: “Vecchia sei tu!” (militante settantenne), “Berlusconi è il papà degli italiani!” (militante d'identica età anagrafica), “Basta! Via!” (militanti vari). Ma pure applausi – si prende sempre gusto, a un certo punto, a non sentirsi solo dar ragione. E anzi, “beh, c'ha pure ragione” – persino certe ultime file ragionano. C'è da dire che se a voler essere liberali si è nel giusto (a dirsi liberali vien facile seppur di gravoso impegno), a movimentare la situazione, come al solito, ci pensano “comunisti” – si fa per dire, e “fascisti” – sempre per dire si fa. Così dopo la Terragni tocca a Ritanna Armeni ragionare sulla “fine di un'esperienza politica e culturale che è stata egemone per un ventennio”. Leva e mette gli occhiali, Ritanna – la platea si fa sospettosa, un principio di preside che annuncia i risultati degli scrutini di fine anno. La mancata “felicità”, intesa del paese tutto, evoca, con il mancato innamoramento dei grandi della terra per l'homme fatal delle sorti italiche. “Ma a te chi te l'ha detto?”, vogliono sapere dalla platea. Infine, Piero Sansonetti. Che essendo milanista, oltre che comunista, ha un filo di pregiudizio positivo verso il Cav. Al quale meriti riconosce, “ha ridato ruolo e volto alla destra, ha costruito l'unico partito garantista che c'è”, ma pure demeriti incolpa – singolari demeriti: “Berlusconi ha creato l'antiberlusconismo e l'ha chiamato comunismo”.

    Ma una leccata di baffi
    , parlando della sua sinistra, all'adunata forte e servile la offre. Ha da essere, la sinistra che Sansonetti sogna, “radicale e riformista”, e vabbè. Ma per un motivo specifico così ha da presentarsi. 

    Spiega Sansonetti: “Sennò resta il partito di Repubblica, sottto De Benedetti e Marchionne, che sono molto più reazionari di Berlusconi”. A momenti gli tocca un trionfo. E poi, la Mussolini. Che bacia la sagoma del Cav., soppesa l'insieme, “pare basso, l'avete fatto basso”, poi affonda divertita: “Abbiamo perso Napoli, che la sinistra ha amministrato in quel modo, dopo un ventennio, e per dirlo io… Lettieri pareva un agente immobiliare, poteva vendere le nude proprietà…”. Grido di dolore sulle sorti politiche del sagomato nell'angolo: “Ma si può sapere chi sta vicino a Berlusconi? Si allontanassero, dategli aria…”. In fondo, molto più cauti gli altri esponenti berlusconiani. Alla Santanchè le primarie poco piacciono, poco appettibili le sembrano, “gli italiani mangiano con le primarie?”, e alla “cruda sorte” che operisticamente s'appresta non crede ché Lui solo cartone non è, e dunque pasionaria si fa, “fin quando c'è Berlusconi, il berlusconismo non può chiudere… se comanda qualcuno che non è Berlusconi allora sì che chiudiamo per sempre”. Giorgia Meloni invece rivendica e rivendica e rivendica “la nostra mission”: errori sono stati fatti, ma innumerevoli sono state le meraviglie governative, “se parliamo solo del 10 per cento di quello che abbiamo fatto, la gente crederà che abbiamo fatto solo il 10 per cento”. Il ministro Galan è più nostalgico dei bei tempi iniziali, quel vagare creativo tra circoli e club e sottoscala – il fiume carsico che cresceva, per arenarsi infine proprio dentro i natii Navigli. Dopo Sallusti e Belpietro (sulle primarie ben disposto, pur dubitando della disponibilità del Cav., “difficile che un tacchino si precipiti nella pentola”, a non voler esagerare con le metafore del bollito), tocca a Feltri – tra i due seduti, e tra i due giornalisticamente vagante.

    Sorprendentetemente un po' Conte Zio, il solitamente marziale Vittorio, un po' sopire e un po' troncare, “si è persa una partita, abbiamo preso due autogol, è solo un cazzottone”. Ferrara infine ride e sospira – attruppatore capo della liberale servitù: “Proposta respinta quasi all'unanimità…” – ma il parlare apertamente, certo del bene può aver fatto. Aria un po' stralunata, all'uscita. Per dire: il cronista, intravista una signora biondo platino e in tailleur rosso fuoco, crede di riconoscere l'indomabile Donna Assunta e va a salutarla. Sbaglia. La signora, invece, crede di riconoscere nel cronista nientemeno De Magistris. E cortesemente lo saluta: “Anche lei qui? Però mi fa piacere…”. Chi ride più di tutti, però, è sempre il Cav. sagomato e incustodito e nobilmente solitario sul palco. Lui sa, letterariamente sa, “quel che resta del giorno” – e dunque sa con i servi, pur fedeli ma non liberi, che “quel che resta del giorno” è davvero poco.

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