Vedi Istanbul e capisci le ambizioni (e i limiti) di Erdogan

Luigi De Biase

Le cronache più raffinate sono quelle di Edmondo De Amicis, che vide Istanbul grazie ai denari e ai buoni uffici degli editori Treves. Il suo bastimento lasciò il mare di Marmara una notte del 1876 e attese l'alba fra le nebbie di Galata, l'antico quartiere affidato ai commerci dei marinai genovesi: da quel punto, un punto di confine fra l'oriente delle rivolte e l'Europa progressista, cominciò a descrivere palazzi e colonne e strade affollate d'Istanbul, la città “di bellezza universale e sovrana”, ma anche d'intrighi e d'imbrogli.

    Le cronache più raffinate sono quelle di Edmondo De Amicis, che vide Istanbul grazie ai denari e ai buoni uffici degli editori Treves. Il suo bastimento lasciò il mare di Marmara una notte del 1876 e attese l'alba fra le nebbie di Galata, l'antico quartiere affidato ai commerci dei marinai genovesi: da quel punto, un punto di confine fra l'oriente delle rivolte e l'Europa progressista, cominciò a descrivere palazzi e colonne e strade affollate d'Istanbul, la città “di bellezza universale e sovrana”, ma anche d'intrighi e d'imbrogli.

    “Il Corno d'oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume – raccontò De Amicis nel suo romanzo – Sulle due rive s'innalzano e s'allungano due catene parallele di città, che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontori; cento anfiteatri di monumenti e di giardini, una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti, in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s'alzano al cielo come smisurate colonne d'avorio e sporgono boschi di cipressi che discendono in strisce cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti. E una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde”.

    Pochi, oggi, possono arrivare a Istanbul passando per il Corno d'oro: è un privilegio per i marinai delle petroliere che hanno ancora il permesso di seguire questa rotta – sono sempre meno e in futuro potrebbero sparire del tutto. Ma l'impressione che si prova sulla strada che collega Istanbul ai suoi aeroporti – il grande Atatürk e il moderno Gokcen, dove fanno scalo i jet più misteriosi d'oriente, dalla compagnia di stato del Daghestan agli iraniani di Kish Air – è molto simile a quella di cui parlava De Amicis.
    La città è ovunque, è una bolla che copre senza un ordine preciso ogni angolo di terra e si allarga seguendo la linea dell'orizzonte. Secondo le stime ufficiali gli abitanti sono tredici milioni, ma si pensa che il numero effettivo abbia già superato i diciassette. Per il premier, Recep Tayyip Erdogan, la città ha raggiunto il limite: non può più crescere e non si può permettere che lo faccia ancora. Così, Istanbul è diventata uno dei temi principali della campagna elettorale che si chiude oggi, e che domani porterà al voto la Turchia per il nuovo Parlamento. Erdogan è al governo dal 2002 con Giustizia e sviluppo (Akp), un partito che combina i valori dell'islam moderato alle regole del liberismo. I sondaggi dicono che vincerà le elezioni per la terza volta consecutiva, assumendo in questo modo il suo ultimo mandato da premier. La campagna elettorale dell'Akp si è svolta soprattutto a Istanbul, una città che Erdogan conosce bene perché l'ha guidata da sindaco per quattro anni, dal 1994 al '98.

    Nelle ultime settimane ha presentato un piano per modificare l'architettura della metropoli, un progetto radicale che si basa su due grandi pilastri. Il primo è il nuovo canale che collegherà il mar Nero al Mediterraneo: dovrebbe nascere nella parte europea della Turchia, a cinquanta chilometri da Istanbul, e permetterebbe di eliminare il traffico nel Bosforo. “Lo chiameremo ‘Canale Istanbul' – ha annunciato nella conferenza stampa di presentazione – Gli studi di fattibilità partiranno nei prossimi due anni”. Il secondo punto prevede la divisione di Istanbul e la nascita di due città separate, una a oriente e una a occidente, sciogliendo così il vincolo che lega da secoli la sponda asiatica a quella europea. “E' l'unico modo per evitare il collasso e per garantire uno sviluppo alla città”, ha detto il premier. Molti pensano che sia soltanto una provocazione, e non sarebbe l'unica di questa campagna elettorale.

    In un certo senso il piano per Istanbul è il modo migliore per comprendere le aspirazioni e i problemi di Erdogan. Con l'Akp la Turchia ha superato l'epoca del regime militaresco – i generali hanno portato a termine quattro colpi di stato in sessant'anni e per l'ultimo, quello del '97, non hanno neanche avuto bisogno di usare i carri armati, è bastato un documento firmato dal Consiglio di sicurezza nazionale – ed è entrata in una stagione di sviluppo senza precedenti nella storia del paese. La produzione industriale è cresciuta a percentuali doppie, le liberalizzazioni hanno portato la ricchezza anche in Anatolia, la regione più povera e più conservatrice, le imprese turche sono riuscite a penetrare nel grande mercato del medio oriente. Dalla Georgia al Pakistan, dalla Siria all'Egitto, non c'è bazar sprovvisto di vestiti o televisori in arrivo dalla Turchia. Alla frontiera di Antakya i mercanti siriani affrontano code lunghe chilometri per entrare nei centri commerciali turchi e acquistare merci da rivendere in patria.

    Istanbul è la città che più è cambiata in questi anni: nel quartiere Sisli centinaia di operai hanno ormai completato le due torri Trump, che ospiteranno negozi, uffici e appartamenti di lusso. A Kadikoy, il club Fenerbahce ha fatto costruire uno dei centri sportivi più attrezzati d'Europa: il problema è che nessuno ci sa arrivare, neppure chi vive nel quartiere sa indicare la strada giusta. “Qui si cambia ogni settimana – dicono – E' tutto nuovo, andate in quella direzione e buona fortuna”. Il nuovo potere economico della Turchia ha convinto gli analisti a iscrivere Erdogan e i suoi consiglieri nella casta dei “neo ottomani”. Ma il denaro è soltanto una parte della storia. Il governo si è mosso per migliorare i rapporti con i vicini di casa, una regola che sembra naturale per i paesi europei ma che diventa terribilmente complicata se si hanno confini comuni con l'Iraq, con l'Iran, con la Siria e con nemici storici che portano il nome di Armenia e Turchia. Il processo è divenuto più intenso quando Erdogan ha chiamato al ministero degli Esteri Ahmet Davutoglu, un professore dell'Università Bilkent di Ankara che è stato a lungo il suo consigliere ombra. Davutoglu – noto negli ambienti accademici per il volume “Profondità strategica”, che contiene tutti gli elementi della nuova dottrina turca – vuole “zero conflitti” lungo i bordi del paese e pensa che risolvere gli scontri con i vicini sia il sistema migliore per aumentare gli scambi e il peso diplomatico di Ankara. La tesi ha permesso di firmare alcuni accordi storici con il governo di Yerevan e con quello di Atene (oggi la Turchia è fra i primi fornitori di armi della Grecia, un risultato che non si poteva prevedere vent'anni fa), ma ha anche avvicinato Erdogan ai regimi dell'Iran e della Siria. A quel punto, l'architettura politica dei neo ottomani ha mostrato di avere un limite abbastanza preciso – proprio come accade alla metropoli di Istanbul.

    Il primo colpo alle ambizioni turche è arrivato dal mare. Nel maggio del 2010, alcune navi cariche di aiuti umanitari e di attivisti armati hanno lasciato il porto di Antalya, nella parte meridionale della Turchia, per raggiungere Gaza. La flottiglia è stata fermata in acque internazionali dall'esercito israeliano e dieci cittadini turchi sono morti negli scontri. Una crisi diplomatica ha diviso per mesi il governo di Gerusalemme da quello di Ankara, due alleati storici della regione, e non si può dire che i rapporti fra le due capitali siano tornati stabili. Per gli israeliani, Erdogan avrebbe dovuto impedire la partenza della Mavi Marmara e la mancata azione equivale a un tradimento; per i turchi, il sostegno ai cittadini di Gaza ora è una priorità. Ma la prova più importante dei limiti turchi è arrivata negli ultimi mesi, quando molte nazioni arabe, dall'Africa del nord al Golfo Persico, hanno affrontato la prima, vera onda di rivolte dalla fine dell'Impero ottomano. Molti analisti pensavano che Ankara avrebbe avuto un ruolo decisivo in questa stagione, ma i diplomatici di Erdogan sono sembrati spesso disorientati.

    A poco è servito il potere economico maturato da dieci anni a questa parte, a nulla sono valsi gli appelli e i consigli di un premier che, sino a poco tempo fa, era considerato il leader ideale in tutto il medio oriente. Davutoglu ha cercato di trovare una soluzione alla crisi in Libia, ma il premier ha deciso di unirsi alle operazioni della Nato prima ancora che fosse stabilito un contatto certo con Muammar Gheddafi. Erdogan ha chiesto al leader siriano, Bashar el Assad, di concedere pane e riforme alle piazze che si agitano da settimane contro il suo esercito, ma non può dire di avere ottenuto risultati incoraggianti, dato che l'oppressione va avanti senza intoppi e migliaia di cittadini siriani attraversano in questi giorni il confine turco alla ricerca di protezione. L'architettura dei neo ottomani, che hanno spostato in pochi anni il loro raggio d'azione verso i vicini d'oriente, non è ancora un successo: per Erdogan sarà difficile proseguire la costruzione dell'impero senza tener conto di questo particolare. “Stiamo andando avanti e indietro allo stesso tempo, come se fossimo la banda dell'esercito ottomano”, scrive con un po' di sarcasmo un opinionista del quotidiano Zaman, Orhan Kemal Cengiz.

    Alle elezioni di domani nessuno si aspetta grandi sorprese. L'Akp è sicuro della vittoria e i partiti di opposizione (i repubblicani kemalisti del Chp e i nazionalisti di destra dell'Mhp) possono soltanto impedire che il partito di governo conquisti i due terzi del Parlamento. Se Erdogan riuscirà nell'impresa, potrà modificare la Costituzione senza il bisogno di alcun confronto politico.

    Raggiunto il limite dei tre mandati, il premier vorrebbe trasformare l'ordinamento da parlamentare a presidenziale per poi candidarsi alla massima carica dello stato. Questa ipotesi non è gradita alla stampa europea: l'Economist, in particolare, si è schierato contro l'Akp e ha auspicato il successo del Chp – un risultato poco probabile, dato che i kemalisti hanno chiuso le ultime elezioni al 20 per cento ed è probabile che questa volta stiano sotto al 30. Erdogan, tuttavia, sa di non poter rinunciare all'occidente. Se fallirà l'ingresso nell'Unione europea, se perderà i contatti con la Nato, tutti i risultati raggiunti nei primi dieci anni al governo saranno messi in discussione in patria come lo sono ora all'estero. Le crisi arabe hanno svelato i limiti del suo approccio così come l'ultra sviluppo economico mette in difficoltà Istanbul. L'Europa progressista offre ancora garanzie migliori rispetto all'oriente delle rivolte.