Le amnesie dell'Economist

Stefano Cingolani

Leggere i dati pubblicati ieri dall'Istat e dar ragione al survey dell'Economist sull'Italia è un tutt'uno. Il prodotto interno lordo nel primo trimestre 2011 è aumentato dello 0,1 per cento, ha certificato l'Istituto nazionale di statistica. Aumentato? Siamo seri, al netto dell'errore statistico è persino diminuito. Dunque, il paese non cresce, confermando una stagnazione che dura da una dozzina d'anni. Eppure, il velo statistico nasconde una realtà complessa. Ci sono più cose in cielo e in terra d'Italia, di quante ne contenga la filosofia del settimanale di St. James.

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    Leggere i dati pubblicati ieri dall'Istat e dar ragione al survey dell'Economist sull'Italia è un tutt'uno. Il prodotto interno lordo nel primo trimestre 2011 è aumentato dello 0,1 per cento, ha certificato l'Istituto nazionale di statistica. Aumentato? Siamo seri, al netto dell'errore statistico è persino diminuito. Dunque, il paese non cresce, confermando una stagnazione che dura da una dozzina d'anni. Eppure, il velo statistico nasconde una realtà complessa. Ci sono più cose in cielo e in terra d'Italia, di quante ne contenga la filosofia del settimanale di St. James. Senza avere l'ambizione di fare un contro-dossier, proponiamo alcune osservazioni. Cominciamo proprio dallo sviluppo. Le medie nascondono i picchi e anche questa volta la trappola dei numeri è scattata. Perché nel biennio 2005-2007 l'Italia è cresciuta, eccome, almeno due punti il pil, quasi tre la produzione industriale. Più di Francia e Gran Bretagna. Si parlò di miniboom. Poi si disse che era stata sprecata un'altra occasione (magari il “tesoretto” fosse finito a ridurre il debito). In ogni caso, la decrescita (infelice in questo caso) non è un destino. Nemmeno nell'era dell'euro.

    E' il secondo punto che sfugge alla narrazione dell'Economist. E non si tratta di una bagatella. Come si fa a non capire lo stress al quale è stato sottoposto un paese che all'improvviso si trova a dover maneggiare una moneta forte, a vivere come se fosse la Germania, ma con salari italiani. Gli analisti britannici (e i loro suggeritori) mostrano un terribile vuoto di memoria e di cultura. Lo stesso choc ha colpito Grecia, Portogallo, Spagna. Ciascuno ha reagito a suo modo. I greci hanno nascosto la testa sotto la sabbia e non ce l'hanno fatta. Gli spagnoli hanno montato la panna (finanza più immobili) e adesso pagano. L'Italia è stata sconvolta da questo cambiamento di fondo, ma non travolta. L'industria ha dovuto sbattersi per continuare a esportare nelle nuove condizioni, tanto più perché nel frattempo la globalizzazione ha cambiato le ragioni di scambio per tutto l'occidente. Ma si è adattata. L'Italia resta il secondo paese manifatturiero d'Europa dopo la Germania, con la quale si è integrata ormai quasi in simbiosi (non a caso, durante la recessione del 2009, la produzione è caduta dello stesso livello). E le imprese vanno cambiando secondo un paradigma di specializzazione produttiva nuovo: le nicchie d'eccellenza, i prodotti di qualità per l'export. Con una fisionomia a rete, sottolinea l'ufficio studi di Mediobanca, non dissimile dal modello Apple. La stessa produttività, vero punto dolente, cambia se si guarda alle imprese grandi e a quelle medie del quarto capitalismo, dove è al livello tedesco con una tassazione molto superiore.

    E' falso dire che l'Italia è vissuta sugli allori, sempre più appassiti, del miracolo postbellico. O che “è diventata un paese a disagio nel nuovo mondo, timoroso della globalizzazione e dell'immigrazione”. Affermazioni poi contraddette in altri capitoli dello stesso dossier, dove si ricorda che controllate italiane all'estero sono presenti in 150 paesi. E' importante scrivere anche dove: soprattutto Stati Uniti e Germania nei servizi, mentre nella produzione primeggiano Romania, Brasile, Cina. Sì, Cina. Il giornalista dell'Economist legge troppo la Padania e troppo poco le cifre. Certo, siamo indietro rispetto a potenze imperiali come l'Inghilterra, ma attenzione: nell'ultimo decennio è cambiato il profilo del capitale così come l'arrivo degli stranieri ha trasformato il volto del lavoro.

    Il survey dà atto all'Italia di aver reagito all'immigrazione in modo non diverso da tutti gli altri. Gliene siamo grati. Però sorvola sull'impatto economico-sociale. Mentre i benefici sono andati ai privati, i costi sono di tutti; quel che accadde nella Torino e nella Milano degli anni '50 con i meridionali, oggi si ritrova nella marca trevigiana con gli africani. I comuni e le regioni hanno dovuto far fronte con risorse molto inferiori a quelle di un tempo.
    Ciò conduce diritti al bilancio pubblico. L'Economist prende atto che, nonostante la grande crisi, i conti dello stato hanno tenuto. Ma anche qui non ha letto bene. La spesa corrente rispetto al pil ha cominciato a scendere nel 2010 e l'aumento del debito è dovuto solo al costo degli interessi. Al netto, infatti, non ci sarebbe deficit, ma surplus. Unico paese insieme alla Germania. Altro che tenuta. E' l'inizio di un risanamento. Tutto da confermare, è vero. Ma un giornale che influenza la compravendita di titoli italiani non può ignorarlo, altrimenti invia false informazioni ai mercati. Lo stesso vale per le banche. Un inglese che paga con le proprie imposte improvvide nazionalizzazioni (come Northern Rock) dovrebbe ricordare che in Italia non è successo e perché. Certo, anche qui gli istituti di credito hanno bisogno di capitali. Tutti, però, sono rimasti saldi sui loro piedi. Potremmo continuare e lo faremo. Non per querulo orgoglio, al contrario. Settimana dopo settimana, ci abbeveriamo alle lezioni liberali dell'Economist; per questo non possiamo tacere quando pubblica banalità e luoghi comuni.

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