La rivoluzione dal basso

Così i piccoletti del calcio hanno infranto il mito dell'atleta perfetto

Beppe Di Corrado

Da un metro e settantatré la porta si vede meglio. Il baricentro basso, dicono. Le gambe non troppo lunghe, l'agilità, i movimenti più fluidi: Pepito Rossi è il simbolo del minicalcio. Lui per l'Italia, l'intero Barcellona per il resto del mondo. Messi, Iniesta, Xavi, David Villa, Pedro: nessuno supera il metro e settantacinque. Sotto l'altezza media di Spagna, Italia ed Europa c'è il futuro prossimo del calcio globale.

    Da un metro e settantatré la porta si vede meglio. Il baricentro basso, dicono. Le gambe non troppo lunghe, l'agilità, i movimenti più fluidi: Pepito Rossi è il simbolo del minicalcio. Lui per l'Italia, l'intero Barcellona per il resto del mondo. Messi, Iniesta, Xavi, David Villa, Pedro: nessuno supera il metro e settantacinque. Sotto l'altezza media di Spagna, Italia ed Europa c'è il futuro prossimo del calcio globale. Palla a terra, per favore. Questa è un'era in cui la testa sconfigge il corpo, dove l'intelligenza è più importante della forza. Il miniclub del pallone si specchia nella società e ribalta stereotipi e complessi. La bassezza non è un problema in mezzo al campo: non lo è mai stata, ma per tutto un periodo il calcio ha inseguito il mito dell'atleta perfetto. Voleva la forza, voleva la potenza, voleva la prestanza, voleva i muscoli.

    C'erano allenatori che si presentavano dai direttori sportivi e dicevano così: “Non prendermi nessuno sotto l'uno e ottanta”. Ci sono ancora, solo che i Rossi d'Italia e il Barcellona li riducono a personaggi da film. Non è bastato né Matthäus, né Sivori, né Maradona, né Baggio: la colonna vertebrale della storia del calcio è fatta da nanerottoli che in troppi hanno voluto vedere come eccezioni. Girava questa storiella: “Di piccoletti ne puoi avere uno solo in campo”. Il Barça ribalta la prospettiva, l'attacco della Nazionale con Pepito e Cassano e Giovinco è lo sviluppo più vicino a noi dello stesso concetto: basso è bello, basso è vincente.

    Via i profeti della prepotenza fisica come base per arrivare al successo: Van Basten e poi Zidane per motivi diversi e per situazioni diverse avevano convinto generazioni intere che l'eleganza e la classe si misurassero col metro. Solo che Marco e Zizou sono stati delle eccezioni straordinarie. I centimetri tolgono, invece di dare. Offrono una soluzione, ma non sono la soluzione. Palla a terra, di nuovo. Perché questo è il modo di giocare che funziona adesso, dopo aver funzionato tante altre volte.

    Ciao pregiudizi e ciao postgiudizi. Ci inebriamo della agilità e della rapidità di Rossi: uno-due, tiro e poi gol. Che c'è di più bello? La semplicità è la riserva infinita del calcio. Pepito e la sua storia sono il paradigma del pallone del momento. Perché il cognome più diffuso e comune d'Italia rende questo ragazzo vicino a ognuno di noi, perché l'abbiamo mandato via per incoscienza e incapacità e adesso speriamo che torni anche a costo di richiamarlo indietro a peso d'oro. Lui è lo specchio che mostra l'evoluzione del sistema: non lo volevamo perché c'eravamo convinti tutti che servissero muscoli e altezze, lo rivogliamo perché abbiamo capito che essere piccoli è figo. 

    Giuseppe Rossi è la grandezza dell'italiano medio. Cioè è sotto media, ma è sopra alla media. Più forte, più furbo, più determinato. Più italiano di ogni altro italiano: perché da figlio di italiani, ha deciso di essere italiano pur essendo cresciuto all'estero con la testa dello straniero. Lui ha detto no all'America.

    Bruce Arena lo convocò per uno stage con la Nazionale Usa prima della coppa del Mondo del 2006. Rossi disse no: “Voglio giocare nell'Italia”. Perché con quella presenza nell'America non avrebbe mai più potuto essere calcisticamente italiano. Ha rifiutato per se stesso, non per altro. Noi no: noi ce lo siamo ripresi con la fame di chi non ha più niente. Responsabile, allora. Per se stesso e per il pallone italiano, perché la sua storia è il monumento al paradosso: vogliamo quello che non è nostro e non sappiamo tenerci quello che lo è prima di scoprire che ci piace e provare a riprendercelo quasi a tutti i costi. Quasi. Pepito è la spiegazione fisica del teorema. Stati Uniti-Italia-Inghilterra-Italia-Spagna. A Pechino Peppino si gioca mezzo futuro che non c'entra con una medaglia: quella serve agli altri, agli atleti, ai nuotatori, agli schermidori, ai canottieri. “Penso anche al Mondiale in Sudafrica, ho conosciuto Marcello Lippi, so che mi tiene d'occhio e non voglio deluderlo”.

    Rossi non cerca un podio, ma la certificazione dell'italianità, la fine dell'americano d'Italia che non è solo l'opposto dell'italiano d'America, ma è qualcosa di profondamente diverso e intimamente difficile da spiegare. La sua storia da emigrante ritornato con il peso dei centimetri che gli mancano serve a chiudere la porta alla storia di Joe Red, come lo chiamava Alex Ferguson ai tempi del Manchester United per marcare la differenza, per ricordargli di avere un nome italiano e una vita da anglofono. Canaglia Sir Alex, pronto ogni volta a mettere zizzania nell'anima, divertito dalla battuta acida quando è la sua, fiero della cattiveria di piccolo cabotaggio, come se l'orgoglio di essere scozzese debba sempre spingerlo oltre, come se l'odio sopito per gli inglesi che gli hanno dato il pane e la gloria, debba diventare lo spunto per le sue punture al veleno. Joe Red, diceva. E rideva. Giuseppe non ha mai capito se scherzasse o se fosse cinicamente serio. Non se l'è neanche chiesto, perché se giochi pensi al pallone, se pensi al pallone non hai tempo per il resto. Poi quello comunque lo stimava: “Non ha un grande fisico, ma è comunque forte in area, sia con i piedi, sia con la testa. Ha gambe corte, ma estremamente veloci. E' calcisticamente intelligente. E segna”.

    Manchester è stata una tappa, non il porto. Rossi ci è arrivato due volte per andare via comunque. Si fa una valigia, sempre: Clifton, Parma, Manchester, Newcastle, Parma, Villareal. A ventuno anni gli hanno dato dell'anti bamboccione, di uno che non sta a casa con mamma e papà, che non si siede su un divano per non alzarsi più, che non si scola la vita pensando al modo migliore per non fare nulla e non sentirsi in colpa. Bamboccioni? Rossi non ha tempo neanche per l'ex ministro Padoa-Schioppa. Qui poi al massimo è il contrario: quello che non si stacca è il papà Fernando, che non lo lascia mai da solo, che ha mollato il lavoro per seguire Giuseppe. Faceva l'insegnante di Italiano in New Jersey, quando Pepito è partito per l'Europa lui ha lasciato tutto e ha seguito il figlio. Manager? Accompagnatore, diciamo.

    Confidente, consulente, spalla, appoggio, sostegno. Che poi è per lui se Rossi è qui: a Clifton, in New Jersey, Fernando faceva anche l'allenatore di calcio, ha insegnato lui al figlio come si calcia un pallone. Di sinistro, preferibilmente. E' mancino, veloce, rapido, tecnico, mette il corpo davanti all'avversario: questo pallone è mio e non me lo togli. Fernando se lo guardava, se lo coccolava, se lo cresceva. La verità è che se avesse potuto avrebbe giocato a basket. Un metro e settantatré centimetri hanno regalato al pallone un talento che il basket non avrebbe potuto esprimere.

    Allora l'Italia, meglio. Si comincia da Parma, dove arrivò quando un osservatore lo vide nel camp estivo del club emiliano. Lo portarono dall'America nel collegio dei giovani del Parma. Dodici anni, 1999. Il padre con lui, la madre in New Jersey con l'altra figlia. Esordienti, giovanissimi, allievi. Sinistro, gol; sinistro, gol; sinistro, gol. Destro, gol. Testa, gol. Altezza? No problem. Ha sempre segnato come un pazzo, Rossi. Perché non se ne è accorto nessuno in Italia prima? A Parma lo chiamavano l'Americano e la verità è che nessuno immaginava che sarebbe diventato uno forte davvero. Perché ce ne sono tanti che nelle giovanili sono dei fenomeni e poi si sgonfiano. Per dirne una: Bruno Conti ha un figlio maggiore che faceva il centravanti nella Primavera della Roma: sembrava fortissimo, ma se ne sono perse le tracce. Daniele, il piccolo, pareva il meno bravo invece è arrivato in serie A. Ce ne sono tanti così. Tantissimi. Rossi era uno di questi: era quello che il giorno della finale del campionato nazionale Allievi 2003 fece il gol decisivo al Treviso. 2-1, coppa al Parma, giro di campo, bacheca, scudetto tricolore sulle maglie. Però normale, ovvio, scontato. Con i coetanei sono bravi tutti, no? Questo, poi, sognava di diventare Van Basten o Van Nistelrooy, ma aveva il corpo di Alessio Pirri. Adesso tutti zitti, per favore.

    Semplice dire che il Parma era in crisi, alla vigilia del crac Parmalat. Sarà anche vero, ma è facile. E siccome è facile non vale. Perché non l'ha visto nessun altro? Milan, Inter, Juventus, Fiorentina, Roma: Rossi aveva i numeri di uno che quantomeno va visto. Una media di quasi un gol a partita. Gli osservatori del Manchester United vennero in dieci per valutarlo: dieci in dieci partite diverse. Alla fine scrissero un rapporto complessivo a Ferguson: “Giuseppe Rossi è il miglior '87 d'Europa”. Cioè: impossibile non vederlo. Adesso siamo tutti qua a raccontare ogni volta che un ragazzino di una squadra italiana viene preso da qualche club straniero. Ci divertiamo sempre a chiamarlo “ratto”, perché certo è incomprensibile che un italiano se ne vada. Era successo con Gattuso e non è servito a niente. Rossi è stato il secondo, ma anche con lui è finita come con Rino. Lo scandalo, i reportage, le inchieste sui vivai italiani che non esistono più. E poi? Poi il vuoto: non si fa nulla per incentivare i ragazzi, si continua a comprare dall'estero. Il che va benissimo, perché se uno è bravo chissenefrega se è italiano o straniero, basta mettersi d'accordo con se stessi e non lamentarsi se qualcuno poi viene a pescare da noi. I calciatori sono complici.

    Si capisce poco, si comprende di meno. Giuseppe Rossi è andato, tornato e andato di nuovo. Arrivò a Manchester con padre al seguito: 4 anni di contratto da professionista. Due anni nella squadra delle riserve: due scudetti, miglior giovane del settore giovanile come era successo a Giggs, Scholes e Beckham, una vittoria della classifica marcatori, 45 gol in 47 partite. La convocazione nello United vero per la Carling Cup: vittoria. Gol all'esordio in prima squadra, come sempre. Perché ogni volta che ha avuto una prima volta, Beppe ha segnato. A Parma, per esempio: gennaio 2006, 19 anni, spedito di nuovo in prestito a casa. Era appena arrivato Claudio Ranieri. L'Italia ha capito mister Rossi: nove gol in neanche mezzo campionato, come solo Roberto Mancini aveva fatto da giocatore prima di compiere vent'anni. Esordio contro il Torino. Gol, ovviamente. Salvezza per il Parma che pareva disperato, spacciato e finito. E' stato Rossi a tenerlo in piedi un'altra stagione prima della retrocessione. E' servito ad avere un altro rimpianto. Ancora uno. Perché tenerlo è stato impossibile per tutti e non si è ancora capito il perché. A quel punto costava undici milioni di euro a vent'anni. Il Parma poteva prenderselo: il Manchester era pronto a darglielo. No. Il prezzo era troppo alto, perché non c'era garanzia. Questo non è un paese per giovani, evidentemente. “Esperienza”, dicono. Si sciacquano la bocca, si riempiono le guance del vuoto che riempie i loro cervelli. La caccia al semivecchio esperto ha lasciato il futuro del pallone italiano in mezzo a una strada. Tutti furbi: il Parma poteva comprare Rossi a 11 milioni con ottocentomila euro di ingaggio, avrebbe avuto dall'inizio della stagione uno forte, fortissimo, gasato, convinto. Meglio di no. Meglio spendere cinque milioni e mezzo più un milione e mezzo a stagione fino al 2011 a Cristiano Lucarelli. Cioè a un calciatore di 32 anni che vuole il contratto buono per finire la carriera. Alla fine, tra ingaggio e cartellino, Pepito sarebbe costato tre milioni in più con la prospettiva di valere cinque volte tanto. Lucarelli se lo rivendi non ti fa guadagnare un centesimo. Rossi oggi vale già almeno trenta milioni. Si parla di aste: Inter, Juventus, Barcellona, poi spunterà anche il Milan.

    Tornerà in Italia, sicuro. Prima o poi qualcuno se lo comprerà, a meno che il Barcellona dei nanetti non decida di fare quello che può fare: prenderlo e toglierlo dal mercato. Però, per ora, c'è: il Villareal non può trattenerlo di fronte a una proposta seria. Le squadre italiane stanno facendo i conti. Non è stato pollo solo il Parma, in passato. Dicono Napoli, Udinese e Fiorentina. L'affare l'ha fatto il Villareal: il Manchester aveva comunque deciso di non tenerlo e l'ha venduto a chi l'ha pagato meglio. Gli undici milioni li hanno pagati gli spagnoli che hanno accettato anche le due clausole che avevano spaventato tanto le squadre italiane: “Prima di un'eventuale cessione di Rossi ad altra squadra, gli spagnoli dovranno avvisare il Manchester United, che avrà 48 ore per decidere se ‘pareggiare' l'offerta e riprenderselo”; “gli inglesi guadagneranno comunque una ricca percentuale in caso di cessione di Rossi a un'altra squadra”.

    Rossi è partito di nuovo. Mister è diventato señor, il che non fa nessuna differenza: il padre Fernando insegnava anche lo spagnolo e gliel'ha insegnato pure al figlio. Ora non c'è più e Pepito esulta guardando verso il cielo in direzione del padre. Sempre così, perché i gol arrivano a manciate: quest'anno meglio di lui, in Spagna, hanno fatto solo Cristiano Ronaldo, Messi, Negredo, Aguero e Villa. Basta? Forse adesso sì, finalmente. Qualche tempo fa diceva così: “Qui in Spagna, se sei bravo e te lo guadagni, anche se sei giovane, giochi. Merito del pubblico: vuole lo spettacolo e ti spinge a cercare cose estreme. In Italia ci penseresti due volte. Troppa paura di sbagliare”. Hanno finito di avere timore, i nostri club. Aprono i cordoni della borsa, sventrano i portafogli: Pepito è il simbolo del mercato di quest'estate: si comprerà poco, ma lui ci sarà. Dove? Il Barcellona, forse. Oppure l'Italia. I bassi non spaventano più, anzi. Ora li cercano, ora li vogliono. E' il loro momento, almeno fino a quando dura.