Il Cav. c'è ancora, i successori?

Salvatore Merlo

Nel Pdl intontito dalle randellate elettorali l'unico fatto è la mancanza di fatti. Sicuri di essere maggioranza in Parlamento (domani si vota l'ennesima fiducia), i dirigenti sono tormentati dall'idea di essere già minoranza nel paese, ma nessuno batte un colpo. Non che il Pdl sia un partito di pretoriani pronti all'estremo sacrificio per l'imperatore in difficoltà Silvio Berlusconi. Al contrario tutti pensano che “sia la fine di una stagione politica” o che “se non riformiamo almeno il fisco ce ne possiamo anche andare a casa”.

Leggi Per giudizi equanimi sul Cav., rivolgersi a sinistra ma anche a destra - Leggi Auguri di una salutare crisi di Michele Serra - Leggi Dimostrare di esistere, cioè competere

    Nel Pdl intontito dalle randellate elettorali l'unico fatto è la mancanza di fatti. Sicuri di essere maggioranza in Parlamento (domani si vota l'ennesima fiducia), i dirigenti sono tormentati dall'idea di essere già minoranza nel paese, ma nessuno batte un colpo. Non che il Pdl sia un partito di pretoriani pronti all'estremo sacrificio per l'imperatore in difficoltà Silvio Berlusconi. Al contrario tutti pensano che “sia la fine di una stagione politica” o che “se non riformiamo almeno il fisco ce ne possiamo anche andare a casa” – come ripete da tempo Renato Brunetta – o che “adesso serve un gesto di discontinuità” (copyright Roberto Formigoni). Eppure nelle file scombiccherate della creatura berlusconiana non emerge alcuna proposta politica di rilancio. Neanche i complotti prendono forma compiuta, ma si agitano vaporosi nell'aria.

    Gianfranco Micciché lascia il partito, ma non pensa affatto a lasciare il governo; i Responsabili scalciano per un posto di capogruppo o di viceministro, ma sono anche i più affezionati agli scranni della Camera; Roberto Formigoni e Gianni Alemanno si tormentano sui quotidiani, ma restano in equilibrio nel Palazzo (un passo avanti e due indietro); Claudio Scajola è il più spigliato ma è anche sospetto ai suoi potenziali alleati; i giovani ministri di Liberamente non hanno parlamentari e dunque girano un po' a vuoto; infine il vecchio gruppo dirigente di Forza Italia, da Denis Verdini fino a Fabrizio Cicchitto, è troppo legato a Berlusconi anche solo per immaginare che possa esistere una vita dopo il Cavaliere. Così tra loro succede di tutto: esplodono rivalità, vengono siglate le alleanze più inverosimili, si consumano vendette, si lanciano ultimatum a giorni alterni, si manifestano ambizioni forti quanto evanescenti. In definitiva non succede nulla.

    Angelino Alfano sarà nominato
    “segretario politico” il primo luglio, con contestuale lancio del meccanismo delle primarie (ma per i soli amministratori locali). Ci vogliono ancora quasi venti giorni da oggi ai primi di luglio. Venti giorni prima di poter offrire la suggestione di un flebile segnale di vita. Il Guardasigilli, cui oggi tutti fanno buon viso (a cattivo gioco), rischia di arrivare alla meta già logorato. D'altra parte Alfano è stato voluto da Berlusconi, l'intendenza (con qualche eccezione) ha semplicemente chinato il capo. E' significativa l'ironia che gli si fa intorno tra le malelingue di un Pdl correntizzato, ma senza costrutto. Malizie che rimbalzano qui e là anche sui giornali consanguinei al centrodestra. Perché a via dell'Umiltà, sede del partito, dove i coordinatori nazionali Verdini e La Russa hanno le loro segreterie, per Alfano non c'è spazio: nemmeno per assegnargli uno stanzino con segretaria, telefono e computer. “Non possiamo aspettare un mese. Bisogna formalizzare subito l'incarico di Alfano”, avevano insistito con Berlusconi sia Gaetano Quagliariello sia Raffaele Fitto (e non sono proprio due amici). Ma niente, anche la prima svolta (un po' cosmetica) si è impaludata. Basterebbe l'immagine di Gianni Letta, che ha abbandonato il ring dello scontro con Giulio Tremonti e non partecipa a nessuna delle trame, a rendere l'idea del disarmo generale.

    La mazzata delle amministrative a Milano e Napoli, reiterata con i quattro referendum, ha prodotto un solo risultato avvertibile: una complessiva riarticolazione della nomenclatura. Le cordate di potere sono tre. Gianni Alemanno e Roberto Formigoni, con Altero Matteoli, la consulenza strategica del senatore Andrea Augello, e la sponda di Claudio Scajola, sono diventati quasi una cosa sola. A questi si contrappone (fino a quando?) l'entourage del Cavaliere, per i malevoli “la corte” o “la gendarmeria”: Cicchitto, Verdini, Gasparri, Quagliariello, Bondi, Alfano (cui è legato Fitto). La caratteristica dell'entourage, composto da personalità diverse tra loro e non sempre concordi, è quella di essere così vicini al Sole (il Cav.) da rischiare di rimanere scottati. Sono gli ultralealisti, quelli sul volto dei quali non è difficile leggere sconforto e tratti di umanità così rari in politica. Come quando Cicchitto nei momenti di sconforto si lagna con i suoi deputati (“quante volte ho detto a Berlusconi di non farlo questo cavolo di Pdl”) o quando lo spirito toscano di Verdini inclina alla malinconia (“noi lo consigliamo, ma le cose gli entrano da un orecchio e gli escono dall'altro”). Il terzo gruppo è Liberamente, l'associazione dei ministri quarantenni tenuti insieme da un patto anagrafico: Mariastella Gelmini (la più trasversale), Franco Frattini, Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo. Per il momento non hanno voti sulle loro sole persone, né sono in grado di mobilitare truppe in Parlamento: caratteristica determinante per partecipare a qualsiasi capannello che si rispetti. Sono poco concludenti, a differenza di Alemanno, Formigoni e Scajola. Questi tre uomini oggi rappresentano il gruppo più turbolento, determinato, e curioso per eterogeneità e contaminazione interna. Hanno truppe parlamentari, qualche voto sul territorio (non soffrono di riflessi impiegatizi nei confronti del Cav.) e sono spinti dalla necessità e dall'ambizione. Sia Alemanno sia Formigoni sanno di dover lasciare i loro attuali incarichi. Il primo desidera mollare la capitale prima che la difficoltosa gestione di Roma lo travolga (vittima collaterale: la prossima candidata in pectore Giorgia Meloni, suo malgrado); mentre al secondo, dopo vent'anni senza soluzione di continuità, non sfugge che non si può fare il governatore della Lombardia a vita. Quanto a Scajola, che condensa attorno a sé almeno trentacinque parlamentari, il due volte ex ministro vuole ottenere l'invito a sedersi al tavolo del negoziato che prima o poi dovrà aprirsi – pensa lui – sulla divisione del potere postberlusconiano. Da qui il sodalizio con Alemanno e Formigoni. Una dialettica che negli ultimi mesi si è allargata ad altri potentati locali: prima, per prossimità, al governatore del Lazio Renata Polverini; poi al governatore della Campania Stefano Caldoro (interessato, ma ancora guardingo).

    L'asse “amministrativista”, così lo chiamano gli altri gruppi, è l'unico che aveva prodotto a un certo punto una strategia precisa per tirarsi fuori dagli impicci. A ridosso della sconfitta di Milano e Napoli l'idea era quella di dare corpo alla letteratura giornalistica su Giulio Tremonti: fare asse con la Lega (che si sperava vincente), coalizzare un grande centro nel Pdl e premere su Berlusconi chiedendogli una amichevole abdicazione per poi varare le riforme, compresa quella del fisco (e la legge elettorale) che soltanto adesso il ministro dell'Economia sembra costretto a portare a compimento. La macchinazione si è però scontrata con la realtà: la Lega è uscita pesta dalle amministrative e dal referendum, non meno del Pdl. E Roberto Maroni ha interrotto lo storico feeling tra il partito nordista e Tremonti. Adesso è tutto da rifare. Tuttavia Alemanno e Formigoni restano il capannello più attivo e propositivo. La linea adesso è: stare buoni (“se si tocca un solo mattoncino in questo momento viene giù la casa”), ma ottenere che il Pdl incardini una riforma della legge elettorale (con primarie per la scelta del premier). “Berlusconi suggerisce di lanciarla l'1 luglio”, dicono al Foglio. E questo 1 luglio assume i caratteri di una data eccezionale. O forse è semplice dilazione.
    Berlusconi non vede (ancora) ragioni per le quali non debba ricandidarsi. “Si vedrà nella primavera del 2012”, dicono. Chissà. Ciascun gruppo appare troppo debole e conflittuale per poter incidere in qualche modo sulla volontà del Cav., che sarà anche tormentato e dubbioso (persino su se stesso?), ma rimane la stella fissa attorno alla quale ruotano anche i tortuosi meccanismi dei capannelli complottardi. Anche coloro i quali hanno immaginato di sostituire il premier in questa legislatura hanno pensato di proporsi come eredi affettivi del Cavaliere, non come sicari. D'altra parte l'analisi condivisa è che la maggioranza non sia in pericolo (non in tempi rapidi), ma che a rischio siano le prossime elezioni: potrebbero andare così male da liofilizzare il partito unico dei moderati. Specie se Berlusconi si dovesse ricandidare.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.